CASSAZIONE

Richiesta di compensazione dei crediti fiscali entro gli 8 anni, vale solo per crediti inesistenti

Tributi – IRAP – IRPEF – IVA – Agevolazioni tributarie – Contenzioso –  Crediti ricerca e sviluppo -Atto di recupero credito inesistente – Decadenza ottennale – Art. 27, c. 16, D.L. n. 185/2008 – Credito non spettante –  Credito inesistente – Distinzione – Tempestività del recupero

Con l’ordinanza n. 5243 del 20 febbraio 2023 la Corte di Cassazione, intervenendo in tema di compensazione di crediti fiscali da parte del contribuente con l’applicazione del termine di decadenza ottennale di cui all’art. 27, comma 16, Dl 185/2008, presuppone l’utilizzo non già di un mero credito “non spettante”, bensì di un credito “inesistente”. Per tale ultimo deve intendersi – anche ai sensi dell’art. 13, comma 5, terzo periodo, D.lgs. 471/1997 – il credito in relazione al quale manca, in tutto o in parte, il presupposto costitutivo e la cui inesistenza non è riscontrabile mediante i controlli di cui agli artt. 36-bis e 36-ter, DPR 600/1973 e all’art. 54-bis, DPR 633/1972. Da tali considerazioni deriva che, nei casi in cui il credito non sia reale ma sia stato creato artificiosamente, trova applicazione il predetto termine di 8 anni, ribadendo anche l’autonomia dei poteri di indagine delle Entrate sulla fruizione del credito d’imposta da parte delle imprese beneficiarie.

La Corte, dunque, resta ferma sul termine di 8 anni per l’attività di controllo sul credito in quanto inesistente e precisa che il termine decorre dalla data di presentazione del modello di pagamento unificato e che deve essere notificato entro il 31 dicembre dell’ottavo anno successivo a quello di utilizzo.

E’ appena il caso di rammentare che recentemente la Cassazione era intervenuta con chiarezza nell’annoso dibattito circa la distinzione tra le nozioni di credito “inesistente” e credito “non spettante”, rilevante sia ai fini sanzionatori sia per il “raddoppio” dei termini di accertamento/recupero: attraverso le sentenze gemelle n. 34444 e n. 34445 del 2021, affermava che “… Può quindi affermarsi il seguente principio di diritto: “In tema di compensazione di crediti fiscali da parte del contribuente, l’applicazione del termine di decadenza ottennale, previsto dall’art. 27, comma 16, del d.l. n. 185 del 2008, conv. in legge n. 2 del 2009, presuppone l’utilizzo non già di un mero credito “non spettante”, bensì di un credito “inesistente”, per tale ultimo dovendo intendersi – anche ai sensi dell’art. 13, comma 5, terzo periodo, del d.lgs. n. 471/1997 (introdotto dall’art. 15 del d.lgs. n. 158/2015) – il credito in relazione al quale manca, in tutto o in parte, il presupposto costitutivo (il credito che non è, cioè, “reale”) e la cui inesistenza non è riscontrabile mediante i controlli di cui agli artt. 36-bis e 36-ter del d.P.R. n. 600/1973 e all’art. 54-bis del d.P.R. n. 633/1972“.

Era poi seguita la sentenza 7615/2022, nella quale veniva statuito testualmente che “…devono dunque ricorrere entrambi i requisiti per considerare inesistente il credito: a) deve mancare il presupposto costitutivo (ossia, quando la situazione giuridica creditoria non emerge dai dati contabili, finanziari o patrimoniali del contribuente); b) l’inesistenza non deve essere riscontrabile attraverso controlli automatizzati o formali o dai dati in anagrafe tributaria”.

Sono intervenute, per la verità, molte altre pronunce della Suprema Corte su tale linea (v. ex multis, ordinanza n. 26227/2022 e sentenza n. 19862/2022) e in sostanza molta della giurisprudenza di merito si era allineata durante il corso del biennio 2021-2022, ricostruendo nei fatti un assetto interpretativo coerente e allineato alle regole normative (materia regolata dall’articolo 23, Cost.). Ordine che pareva decisamente snaturato dalla lettura dell’Agenzia delle entrate con la circolare 5/E/2016 e successive, che non tenevano conto del comportamento del contribuente e del relativo rischio di pericolosità, assimilando chi sbaglia una somma a chi inventa un credito per presentare magari un DURC “ripulito” da una fraudolenta compensazione.

In realtà, questa nuova presa di posizione si discosta consapevolmente dall’orientamento tradizionale (Cass. n. 19237 del 02/08/2017, Cass. n. 354 del 13/01/2021), che non distingue tra credito non spettante e credito inesistente, e propone un’interpretazione adeguatrice dell’originario tessuto normativo, letto alla luce delle successive riforme e, in particolare, del D.lgs. 471/1997, art. 13, comma 5, terzo periodo (introdotto dal D.lgs. 158/2015, art. 15).

Questa lettura non sarebbe stata però recepita dalla successiva giurisprudenza, che ha continuato ad accreditare un’esegesi del tessuto normativo che non distingue tra crediti inesistenti e crediti non spettanti e “applica, indifferentemente, il termine di decadenza di otto anni, come evincibile dalla seguente massima: “ … Il D.L. n. 185 del 2008, art. 27, comma 16, conv., con modif., dalla L. n. 2 del 2009, nel fissare il termine di otto anni per il recupero dei crediti d’imposta inesistenti indebitamente compensati, non intende elevare l’inesistenza” del credito a categoria distinta dalla “non spettanza” dello stesso (distinzione a ben vedere priva di fondamento logico-giuridico), ma mira a garantire un margine di tempo adeguato per il compimento delle verifiche riguardanti l’investimento che ha generato il credito d’imposta, indistintamente fissato in otto anni, senza che possa trovare applicazione il termine più breve stabilito dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43, per il comune avviso di accertamento. (Nella specie, la S.C. ha cassato la sentenza di merito che aveva distinto, ai fini dell’individuazione del termine entro il quale notificare l’atto di recupero, tra crediti “inesistenti” e crediti “non spettanti”, applicando il termine ordinario di decadenza di cui al D.P.R. n. 633 del 1972, art. 57, in luogo di quello di cui all’art. 27 cit.)” (così Cass. n. 25436/2022; e Cass. n. 31419/2022).

Nell’atto odierno la Suprema Corte accoglieva con rinvio uno dei motivi di doglianza sollevati dalla società contribuente, oppostasi ad alcuni atti di recupero di crediti d’imposta asseritamente maturati, in riferimento a varie annualità: in definitiva sono di spettanza del giudice del rinvio la verifica, quanto a IRPEF e IVA, del momento dell’effettivo utilizzo del credito e la collegata decisione in ordine alla tempestività o meno dell’azione di recupero.

Tanto premesso, una società contribuente riceveva avvisi di accertamento relativi a vari anni d’imposta, si rivolgeva alla giustizia tributaria ma ne riceveva altrettanti rigetti. Unitamente ai soci, con atto affidato a tre motivi, si rivolgeva allora alla Suprema Corte, lamentando essenzialmente che la CTR aveva erroneamente qualificato come inesistente il credito d’imposta utilizzato dai contribuenti, assoggettando il relativo accertamento al termine di 8 anni, salvo poi ritenere congrua la sanzione del 30%, mentre l’ufficio avrebbe dovuto applicare la diversa sanzione tra il 100% e il 200%, ex art. 27, c. 18, Dl 185/2008. La Corte ha ritenuto valide le asserzioni relative al terzo motivo, ritenendo che “…la CTR ha chiaramente accertato in fatto, con statuizione non più contestabile, la inesistenza del rapporto sostanziale sul quale era fondata la concessione del contributo, sotto forma di credito di imposta; – per altre ragioni, però, l’azione di recupero dell’Ufficio è tardiva con riferimento all’annualità 2003 e comunque la pretesa quanto all’IRAP va annullata per quanto infra; – sotto questi profili, con le precisazioni che si diranno, il motivo è fondato in relazione al periodo di imposta 2003 in relazione a IRPEF e IVA; – in primo luogo, va ricordato che (in termini si veda Cass. Sez.5, Sentenza n. 34444 del 16/11/2021) in tema di compensazione di crediti fiscali da parte del contribuente (nella specie, credito IVA), l’applicazione del termine di decadenza ottennale, previsto dall’art. 27, comma 16, d.L. n. 185 del 2008, conv., con modif., in l. n. 2 del 1999, presuppone l’utilizzo non già di un mero credito “non spettante”, bensì di un credito “inesistente”, per tale ultimo dovendo intendersi – anche ai sensi dell’art. 13, comma 5, terzo periodo, d.Lgs. n. 471 del 1997 (introdotto dall’art. 15, d.lgs. n. 158 del 2015) –  Il credito in relazione al quale manca, in tutto o in parte, il presupposto costitutivo (cioè il credito che non è “reale”) e la cui inesistenza non è riscontrabile mediante i controlli di cui agli artt. 36-bis e 36-ter del d.P.R. n. 600 del 1973 e all’art. 54-bis del d.P.R. n. 633 del 1972; – ne deriva che ove il credito non sia reale, ma sia stato creato artificiosamente, come qui è stato accertato dal giudice dell’appello, trova applicazione il termine di otto anni;- quanto alla identificazione del termine, la CTR, ha individuato tale momento nella presentazione della dichiarazione nella quale ha rilevanza il credito, dichiarazione che risulta Cons. Est. R. Succio presentata per l’anno 2003 nel successivo 2004; pertanto, secondo il giudice dell’appello il termine raddoppiato veniva a scadenza il 31 dicembre 2012 e l’azione dell’Erario è allora tempestiva; – invero, la considerazione sopra esposta non è conforme a diritto, sia pure in forza di considerazioni in parte diverse da quelle esposte in ricorso; – come è noto, i l d. l . n. 185 del 2008, conv. con modif. in l . n. 2 del 2009, ha introdotto l’art. 27, comma 16, con il quale è stato previsto che – salvi i più ampi termini previsti dalla legge in caso di violazione che comporta l’obbligo di denuncia ai sensi dell’art. 331 del cod. proc. pen. per il reato previsto dall’art. 10- quater, d.Lgs. n. 74 del 2000 – l’atto di recupero per la riscossione di crediti inesistenti compensati deve essere notificato, a pena di decadenza, entro il 31 dicembre dell’ottavo anno successivo a quello del relativo utilizzo. Il successivo comma 17 prevede che la norma si applica a decorrere dalla data di presentazione del modello di pagamento unificato,nel quale sono indicati crediti inesistenti utilizzati in compensazione in anni con riferimento ai quali alla data di entrata in vigore della presente legge siano ancora pendenti i termini di cui al primo comma dell’art. 43 del D.P.R. n. 600/73 e dell’art. 57 del D.P.R. n. 633/72; – per la precisione, il citato comma 16 prevede testualmente che “salvi i più ampi termini previsti dalla legge in caso di violazione che comporta l’obbligo di denuncia ai sensi dell’articolo 331 del codice di procedura penale per il reato previsto dall’articolo 10- quater, del decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74, l’atto di cui all’articolo 1, comma 421, della legge 30 dicembre 2004, n. 311, emesso a seguito del controllo degli importi a credito indicati nei modelli di pagamento unificato per la riscossione di crediti inesistenti utilizzati in compensazione ai sensi dell’articolo 17, del decreto legislativo 9 luglio 1997, n. 241, deve essere notificato, a pena di decadenza, entro il 31 dicembre dell’ottavo anno successivo a quello del relativo utilizzo”; segue il comma 17 in forza del quale, pure testualmente “la disposizione di cui al comma 16 si applica a decorrere dalla data di presentazione del modello di pagamento unificato nel quale sono indicati crediti inesistenti utilizzati in compensazione in anni con riferimento ai quali alla data di entrata in vigore del presente decreto siano ancora pendenti i termini di cui al primo comma dell’articolo 43 del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600, e dell’articolo 57 del decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 633”; – risulta evidente allora che nel ritenere rilevante, ai fini della dimostrazione dell’utilizzo del credito, unicamente la dichiarazione, senza attribuire rilievo all’utilizzo del credito e, quindi, alle compensazioni operabili in sede di versamento periodico (risultando sul punto, anzi, indizio della loro effettuazione, l’espressione utilizzata dalla CTR in esordio di sentenza per descrivere la situazione di fatto accertata : “nel corso degli anni di imposta 2003 – 2007 la società utilizzava il credito per l’ammontare di € 116.565,56 mentre i residui 90.000 euro di credito d’imposta venivano utilizzati, pro – quota, dai soci della s.n.c.”), il giudice dell’appello ha falsamente applicato le suddette disposizioni; – ne deriva che il motivo, sul punto, che pone in ogni caso nella sua concreta articolazione proprio la questione della tempestività del recupero, va accolto ne termini indicati; il giudice del rinvio, quindi, dovrà verificare quanto a IRPEF e IVA quando si è verificato l’effettivo utilizzo del credito e da ciò decidere in ordine alla tempestività o meno dell’azione di recupero relativa al periodo d’imposta 2003, oggetto della dichiarazione presentata nel 2004; – infine, l’azione di recupero in parola è legittima con riferimento all’IRPEF e all’IVA oggetto di contestazione per gli anni successivi, come rideterminate in seguito al disconoscimento del credito d’imposta, ma non quanto all’IRAP; – non essendo l’IRAP un’imposta per la quale siano previste sanzioni penali, ne deriva che in relazione alla stessa non può operare la disciplina del “raddoppio dei termini” di accertamento quale applicabile ratione temporis (cfr. Cass. n. 4775 del 2016; n. 20435 del 2017; n. 26311 del 2017; n. 23629 del 2017), che si fonda logicamente e giuridicamente sulla sussistenza di un fumus commissi delicti posto dall’ordinamento a tutela delle pretese per altri tributi, diversi dall’IRAP, per cui l’imposta può ritenersi legittima senza tenere conto del raddoppio dei termini; – con riferimento al secondo profilo, il motivo è infondato; – il sopra citato comma 16 nel suo incipit fa «salvi i più ampi termini previsti dalla legge in caso di violazione che comporta l’obbligo di denuncia ai sensi dell’articolo 331 del codice di procedura penale per il reato previsto dall’articolo 10-quater, del decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74», dettato in materia di «indebita compensazione» di crediti «non spettanti» (primo comma del citato art. 10) o «inesistenti» (secondo comma); – tale fattispecie è qui indubbiamente sussistente e pertanto anche per questa ragione trova applicazione il più ampio termine, stante l’applicazione del “raddoppio”; – in conclusione, va accolto nei termini di cui in motivazione il solo terzo motivo; nel resto il ricorso è rigettato; – la pronuncia impugnata è quindi cassata limitatamente al profilo del terzo motivo oggetto di accoglimento, con rinvio al giudice dell’appello per nuovo esame del merito quanto alle imposte accertate nel rispetto dei principi sopra illustrati.”

Corte di Cassazione – Ordinanza 20 febbraio 2023, n. 5243

sul ricorso iscritto al n. 2497/2016 R.G. proposto da

AUTOCARROZZERIA R. L. C. s.n.c. in persona del legale rappresentante pro tempore;

L. L. in proprio, A. E., M. B., R. S., V. S., rappresentati e difesi in forza di procura speciale in atti dall’avv. prof. Giuliano Lemme (PEC: giulianolemme@ordineavvocatiroma.org) con domicilio eletto in Roma, corso Francia n. 197 presso il ridetto difensore;

 –ricorrenti –

 Contro AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore rappresentata e difesa come per legge dall’avvocatura generale dello Stato con domicilio in Roma, via dei Portoghesi n. 12 (PEC: ags.rm@mailcert.avvocaturastato.it);

– controricorrente –

avverso la sentenza della Commissione Tributaria Regionale dell’Umbria n. 507/01/15 depositata in data 06/10/2015, non notificata;

Udita la relazione della causa svolta nell’adunanza camerale del 27/01/2023 dal Consigliere R. Succio;

Rilevato che:

– la società contribuente Autocarrozzeria R. s.n.c. e i soci della stessa impugnavano gli atti di recupero per i periodi di imposta dal 2003 al 2010;

con detti atti l’Amministrazione – a seguito di attività di verifica avente ad oggetto il rapporto tra la società contribuente e l’Università di Perugia, consistente nella commissione alla società di una ricerca su telai di vetture d’epoca –contestava la fittizietà del rapporto tra i due soggetti, la cui esistenza era stato documentata contro verità unicamente al fine di valersi del credito d’imposta, erogato e utilizzato in compensazione dalla società e dai soci della stessa;

– da tale fittizietà derivava, secondo l’Ufficio, l’utilizzo da parte della Autocarrozzeria R. s.n.c. di fatture per operazioni inesistenti, con conseguente emissione degli atti impositivi, con i quali era recuperata a tassazione la materia imponibile sottratta con l’utilizzo del credito non dovuto;

 – la CTP rigettava l’impugnazione;

appellavano i contribuenti;

– con la pronuncia gravata, la CTR rigettava l’appello, revocando espressamente il decreto presidenziale di sospensione precedentemente emesso;

il giudice del gravame riteneva legittimi gli atti di recupero e gli avvisi di accertamento notificati, in quanto la realizzazione della ricerca scientifica in realtà secondo la CTR una “mera messinscena per giustificare l’uso del credito d’imposta” (pag. 2 penultimo capoverso della pronuncia gravata);

pertanto “tutta l’operazione appare escogitata, fin dal momento della stipula della convenzione, al solo scopo di sfruttare il credito d’imposta …”; (pag.4 penultimo periodo);

– ricorre a questa Corte la società contribuente unitamente ai soci con atto affidato a tre motivi illustrati da memoria ;

l’Agenzia delle Entrate resiste con controricorso;

Considerato che:

– il primo motivo di ricorso deduce l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 5 cod. proc. civ. per avere la CTR mancato di valutare molteplici circostanze di fatto allegate e documentate da parte ricorrente a dimostrazione dell’effettività della ricerca scientifica svolta dalla Facoltà di ingegneria della Università di Perugia;

– il motivo è inammissibile;

– in disparte l’applicazione del principio della «doppia conforme», in concreto, la censura sollecita la Corte a un riesame del merito, qui non consentito, come correttamente dedotto dal controricorrente;

– il secondo motivo si incentra sulla violazione e/ o falsa applicazione, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3 cod. proc. civ. in relazione all’art. 7 del d.M. n. 275 del 1998 recante disposizioni di attuazione dell’art. 5 della L. n. 449 del 1997 per avere la CTR erroneamente riconosciuto la legittimazione dell’Ufficio a procedere con l’accertamento prima della formale revoca ministeriale dell’agevolazione concessa, sopravvenuta nella specie con D.D. il 26 marzo 2013 dopo la notifica degli atti di recupero/accertamento e persino nel corso del giudizio di primo grado;

– il motivo è infondato;

– come correttamente eccepito in controricorso, l’art. 6 del d.M. n. 76 del 2008 del Ministero dello sviluppo economico espressamente prevede che “i controlli sulla corretta fruizione del credito d’imposta da parte delle imprese beneficiarie sono effettuati dall’Agenzia delle entrate nell’ambito dell’ordinaria attività di controllo. Qualora siano necessarie valutazioni di carattere tecnico in ordine alla ammissibilità di specifiche attività ovvero alla pertinenza e congruità dei costi, i controlli possono essere effettuati con la collaborazione del Ministero dello sviluppo economico, che, previa richiesta della stessa Agenzia, esprime il proprio parere ovvero dispone la partecipazione di proprio personale all’attività di controllo”; inoltre, l’art. 7 che segue precisa come “qualora venga accertato il mancato rispetto dei presupposti e delle condizioni previste per la fruizione del credito d’imposta, l’Agenzia delle entrate procede al recupero dell’importo indebitamente fruito, dei relativi interessi e delle sanzioni applicabili, secondo le disposizioni previste dall’articolo 1, commi da 421 a 423, della legge 30 dicembre 2004, n. 311. Per quanto non disciplinato si applicano le disposizioni in materia di imposta sui redditi”;

– evidente è quindi che la funzione di controllo è demandata all’Amministrazione Finanziaria, indipendente dall’attività svolta da altre autorità amministrative;

 – oltre a quanto sopra espressamente previsto, va rilevato che opera nel sistema tributario un principio generale in forza del quale gli atti che costituiscono vantaggi tributari sotto qualsiasi forma in capo al contribuente, solitamente, sono sindacabili riguardo la loro legittimità di fronte al giudice tributario previo esperimento dell’attività di controllo da parte degli Uffici finanziari;

– in tal senso, questa Corte ritiene (in argomento Cass. Sez. UU, Sentenza n. 9841 del 05/05/2011 ) devoluta alla giurisdizione del giudice tributario l’impugnazione del provvedimento della Presidenza del Consiglio dei Ministri con cui viene revocato il credito imposta, previsto dall’art. 4, commi da 181 a 186 e 189 della L. 24 dicembre 2003, n. 350, a favore delle imprese editrici, in misura corrispondente ad una percentuale della spesa che sarebbe stata sostenuta nell’anno 2004 per la carta utilizzata per la stampa delle testate edite e dei libri; ciò in quanto tale beneficio, avendo l’effetto di ridurre l’importo dell’imposta altrimenti dovuta, è da considerarsi un’agevolazione tributaria, il cui diniego o la cui revoca sono impugnabili dinanzi alla Commissione tributaria, in base all’espressa previsione dell’art. 19, lett. h) del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546;

 – il terzo motivo deduce la violazione e falsa applicazione, ai sensi dell’art. 360, primo comma n. 3 cod. proc. civ., dell’art. 43 del d.P.R. n. 600 del 1973 e 57 del d.P.R. n. 633 del 1972, falsa applicazione dell’art. 27 c. 16 del d. L. n. 185 del 2008, in combinato disposto con l’art. 10 quater del d.Lgs. n. 74 del 2000 per avere la CTR erroneamente qualificato come inesistente il credito d’imposta utilizzato dai contribuenti, assoggettando il relativo accertamento al termine di anni otto, salvo poi ritenere congrua la sanzione del 30% mentre l’Ufficio avrebbe dovuto applicare la diversa sanzione tra il 100% e il 200% ex art. 27 c. 18 del d. L. n. 185 del 2008; per avere inoltre la CTR ritenuto erroneamente giustificato il c.d. “raddoppio” dei termini per l’accertamento in forza della indebita compensazione di debiti fiscali con crediti inesistenti, quindi in applicazione di una disposizione incriminatrice (l’art. 10 quater del d. Lgs. n. 74 del 2000) diversa da quella oggetto di contestazione;

– quanto al primo profilo dedotto, il motivo è inammissibile;

la CTR ha chiaramente accertato in fatto, con statuizione non più contestabile, la inesistenza del rapporto sostanziale sul quale era fondata la concessione del contributo, sotto forma di credito di imposta;

– per altre ragioni, però, l’azione di recupero dell’Ufficio è tardiva con riferimento all’annualità 2003 e comunque la pretesa quanto all’IRAP va annullata per quanto infra;

– sotto questi profili, con le precisazioni che si diranno, il motivo è fondato in relazione al periodo di imposta 2003 in relazione a IRPEF e IVA;

 – in primo luogo, va ricordato che (in termini si veda Cass. Sez.5, Sentenza n. 34444 del 16/11/2021) in tema di compensazione di crediti fiscali da parte del contribuente (nella specie, credito IVA), l’applicazione del termine di decadenza ottennale, previsto dall’art. 27, comma 16, d.L. n. 185 del 2008, conv., con modif., in l. n. 2 del 1999, presuppone l’utilizzo non già di un mero credito “non spettante”, bensì di un credito “inesistente”, per tale ultimo dovendo intendersi – anche ai sensi dell’art. 13, comma 5, terzo periodo, d.Lgs. n. 471 del 1997 (introdotto dall’art. 15, d.lgs. n. 158 del 2015) –  

Il credito in relazione al quale manca, in tutto o in parte, il presupposto costitutivo (cioè il credito che non è “reale”) e la cui inesistenza non è riscontrabile mediante i controlli di cui agli artt. 36-bis e 36-ter del d.P.R. n. 600 del 1973 e all’art. 54-bis del d.P.R. n. 633 del 1972;

– ne deriva che ove il credito non sia reale, ma sia stato creato artificiosamente, come qui è stato accertato dal giudice dell’appello, trova applicazione il termine di otto anni;

– quanto alla identificazione del termine, la CTR, ha individuato tale momento nella presentazione della dichiarazione nella quale ha rilevanza il credito, dichiarazione che risulta Cons. Est. R. Succio presentata per l’anno 2003 nel successivo 2004; pertanto, secondo il giudice dell’appello il termine raddoppiato veniva a scadenza il 31 dicembre 2012 e l’azione dell’Erario è allora tempestiva; – invero, la considerazione sopra esposta non è conforme a diritto, sia pure in forza di considerazioni in parte diverse da quelle esposte in ricorso; – come è noto, il d.L. n. 185 del 2008, conv. con modif. in l. n. 2 del 2009, ha introdotto l’art. 27, comma 16, con il quale è stato previsto che

– salvi i più ampi termini previsti dalla legge in caso di violazione che comporta l’obbligo di denuncia ai sensi dell’art. 331 del cod. proc. pen. per il reato previsto dall’art. 10- quater, d.Lgs. n. 74 del 2000 – l’atto di recupero per la riscossione di crediti inesistenti compensati deve essere notificato, a pena di decadenza, entro il 31 dicembre dell’ottavo anno successivo a quello del relativo utilizzo.

Il successivo comma 17 prevede che la norma si applica a decorrere dalla data di presentazione del modello di pagamento unificato, nel quale sono indicati crediti inesistenti utilizzati in compensazione in anni con riferimento ai quali alla data di entrata in vigore della presente legge siano ancora pendenti i termini di cui al primo comma dell’art. 43 del D.P.R. n. 600/73 e dell’art. 57 del D.P.R. n. 633/72;

– per la precisione, il citato comma 16 prevede testualmente che “salvi i più ampi termini previsti dalla legge in caso di violazione che comporta l’obbligo di denuncia ai sensi dell’articolo 331 del codice di procedura penale per il reato previsto dall’articolo 10- quater, del decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74, l’atto di cui all’articolo 1, comma 421, della legge 30 dicembre 2004, n. 311, emesso a seguito del controllo degli importi a credito indicati nei modelli di pagamento unificato per la riscossione di crediti inesistenti utilizzati in compensazione ai sensi dell’articolo 17, del decreto legislativo 9 luglio 1997, n. 241, deve essere notificato, a pena di decadenza, entro il 31 dicembre dell’ottavo anno successivo a quello del relativo utilizzo”; segue il comma 17 in forza del quale, pure testualmente “la disposizione di cui al comma 16 si applica a decorrere dalla data di presentazione del modello di pagamento unificato nel quale sono indicati crediti inesistenti utilizzati in compensazione in anni con riferimento ai quali alla data di entrata in vigore del presente decreto siano ancora pendenti i termini di cui al primo comma dell’articolo 43 del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600, e dell’articolo 57 del decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 633”;

– risulta evidente allora che nel ritenere rilevante, ai fini della dimostrazione dell’utilizzo del credito, unicamente la dichiarazione, senza attribuire rilievo all’utilizzo del credito e, quindi, alle compensazioni operabili in sede di versamento periodico (risultando sul punto, anzi, indizio della loro effettuazione, l’espressione utilizzata dalla CTR in esordio di sentenza per descrivere la situazione di fatto accertata : “nel corso degli anni di imposta 2003 – 2007 la società utilizzava il credito per l’ammontare di € 116.565,56 mentre i residui 90.000 euro di credito d’imposta venivano utilizzati, pro – quota, dai soci della s.n.c.”), il giudice dell’appello ha falsamente applicato le suddette disposizioni;

– ne deriva che il motivo, sul punto, che pone in ogni caso nella sua concreta articolazione proprio la questione della tempestività del recupero, va accolto ne termini indicati; il giudice del rinvio, quindi, dovrà verificare quanto a IRPEF e IVA quando si è verificato l’effettivo utilizzo del credito e da ciò decidere in ordine alla tempestività o meno dell’azione di recupero relativa al periodo d’imposta 2003, oggetto della dichiarazione presentata nel 2004;

– infine, l’azione di recupero in parola è legittima con riferimento all’IRPEF e all’IVA oggetto di contestazione per gli anni successivi, come rideterminate in seguito al disconoscimento del credito d’imposta, ma non quanto all’IRAP;

– non essendo l’IRAP un’imposta per la quale siano previste sanzioni penali, ne deriva che in relazione alla stessa non può operare la disciplina del “raddoppio dei termini” di accertamento quale applicabile ratione temporis (cfr. Cass. n. 4775 del 2016; n. 20435 del 2017; n. 26311 del 2017; n. 23629 del 2017), che si fonda logicamente e giuridicamente sulla sussistenza di un fumus commissi delicti posto dall’ordinamento a tutela delle pretese per altri tributi, diversi dall’IRAP, per cui l’imposta può ritenersi legittima senza tenere conto del raddoppio dei termini; – con riferimento al secondo profilo, il motivo è infondato;

– il sopra citato comma 16 nel suo incipit fa «salvi i più ampi termini previsti dalla legge in caso di violazione che comporta l’obbligo di denuncia ai sensi dell’articolo 331 del codice di procedura penale per il reato previsto dall’articolo 10-quater, del decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74», dettato in materia di «indebita compensazione» di crediti «non spettanti» (primo comma del citato art. 10) o «inesistenti» (secondo comma);

– tale fattispecie è qui indubbiamente sussistente e pertanto anche per questa ragione trova applicazione il più ampio termine, stante l’applicazione del “raddoppio”;

– in conclusione, va accolto nei termini di cui in motivazione il solo terzo motivo;

nel resto il ricorso è rigettato;

– la pronuncia impugnata è quindi cassata limitatamente al profilo del terzo motivo oggetto di accoglimento, con rinvio al giudice dell’appello per nuovo esame del merito quanto alle imposte accertate nel rispetto dei principi sopra illustrati;

P.Q.M.

accoglie il terzo motivo di ricorso nei termini di cui in motivazione;

rigetta nel resto;

cassa la sentenza impugnata limitatamente a quanto oggetto di accoglimento e rinvia alla Corte di giustizia tributaria di secondo grado dell’Umbria in diversa composizione che statuirà anche quanto alle spese del presente giudizio di Legittimità. Così deciso in Roma, il 27 gennaio 2023

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