CASSAZIONE

Reati tributari: prova della sovrafatturazione carente? Niente sequestro

Reati tributari – Presunzioni tributarie semplici – Sovrafatturazione – Operazioni oggettivamente inesistenti – Procedimento penale – Sequestro preventivo – Riesame delle misure cautelari reali – Inversione dell’onere probatorio – Ricorso in Cassazione – Illogicità manifesta

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 1083 del 13 gennaio 2021, è intervenuta in tema di legittimità sulla motivazione dei provvedimenti cautelari reali in un caso presunto di sovrafatturazione, per ricordare che nei reati tributari non si può far ricorso alle presunzioni tributarie che comportano l’inversione dell’onere probatorio, in quanto sovvertono il principio di presunzione di innocenza dell’imputato. Tali presunzioni possono invece avere rilevanza ai fini dell’adozione di misure cautelari reali essendo sufficiente, in detta sede, l’oggettiva sussistenza indiziaria del reato in questione.
Giova comunque rammentare che se il giudice penale non può, in linea di massima, fare ricorso alle presunzioni tributarie semplici, comunque, ai fini dell’applicazione delle misure cautelari reali può bastare la oggettiva fondatezza indiziaria del reato fiscale, a prescindere da qualsiasi profilo che riguardi la colpevolezza del suo autore.
Come risaputo, il D.Lgs. n. 74 del 2000 rappresenta la norma tributaria di riferimento nella disciplina dei reati in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto, e l’art. 2 del decreto, intitolato “Dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti”, punisce chiunque “al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, avvalendosi di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, indica in una delle dichiarazioni relative a dette imposte elementi passivi fittizi”.
Al riguardo si ricorda che l’inesistenza oggettiva di un’operazione fatturata consiste nell’assoluta mancanza della cessione del bene o della prestazione del servizio descritto nella fattura; in altre parole, le operazioni oggettivamente inesistenti si riducono a operazioni meramente cartolari.
Parimenti la sovrafatturazione rientra in una particolare tipologia di operazioni oggettivamente inesistenti, in cui il corrispettivo o compenso viene indicato in misura superiore a quella reale; pertanto, la sovrafatturazione rivela un’operazione solo parzialmente inesistente, limitatamente alla parte eccedente rispetto a quella effettiva.
La Suprema Corte, nella sentenza n. 51027 del 2 dicembre 2015 della sezione 3^ penale, aveva anche ribadito l’indirizzo giurisprudenziale secondo il quale il reato di cui all’art. 2 del D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74 “sussiste sia nell’ipotesi di inesistenza oggettiva dell’operazione (ovvero quando la stessa non sia stata mai posta in essere nella realtà), sia nell’ipotesi di inesistenza relativa (ovvero quando l’operazione vi è stata, ma per quantitativi inferiori a quelli indicati in fattura), sia, infine, nell’ipotesi di qualitativa (ovvero quando la fattura attesti la cessione di beni e/o servizi aventi un prezzo maggiore di quelli forniti), in quanto oggetto della repressione penale è ogni tipo di divergenza tra la realtà commerciale e la sua espressione documentale”.
In ultimo va evidenziato che sul medesimo crinale della sovrafatturazione riguardante un maggiore prezzo fatturato rispetto a quello corrisposto, la Cassazione sezione 3^ penale, sentenza n. 1996/2007 aveva stabilito che anche la sovrafatturazione quantitativa (quindi non afferente il prezzo, ma la maggiore quantità di beni o servizi fatturati) è punita penalmente e ciò non solo quando la difformità tra la situazione reale e la rappresentazione documentale è totale, ma anche quando tale divergenza si presenta in modo parziale, visto che l’operazione cui fa riferimento il documento è effettivamente avvenuta tra i soggetti indicati in fattura, ma in termini quantitativi minori rispetto al dichiarato.
Gli Ermellini, rammentando che il ricorso per cassazione è ammesso solo per violazione di legge, hanno anche affermano che nel caso esaminato l’attività di indagine non aveva fornito nemmeno un elemento concreto da cui desumere l’insussistenza oggettiva di parte delle operazioni, non essendovi alcun principio di prova che potesse smentire la veridicità delle fatture contestate.
Torniamo alla vicenda de quo.
Il Tribunale per il riesame dei provvedimenti cautelari, condividendo il giudizio del Gip riguardo alla carenza di prova della asserita sovrafatturazione per operazioni oggettivamente inesistenti, respingeva l’appello del Pubblico ministero avverso l’ordinanza emessa dal Gip del Tribunale con cui era stata respinta la richiesta di sequestro preventivo di una S.r.l. contribuente, imputata del delitto di cui all’articolo 2, l D.Lgs. n. 74/2000 (Dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti). Il Pubblico ministero adiva in Cassazione lamentando violazione di legge e, in particolare, dell’art. 2 del citato decreto legislativo n. 74/2000, nella parte in cui è previsto che l’utilizzo delle fatture per operazioni inesistenti integra reato anche quando tale inesistenza venga calcolata attraverso un procedimento presuntivo (come precisato dalla stessa Corte di Cassazione con la sentenza n. 36302 del 15 marzo 2019).
Si specifica, inoltre, che il Pm si era limitato a richiamare genericamente i calcoli effettuati dalla Guardia di Finanza nel relativo provvedimento motivato, senza individuare in concreto le operazioni di sovrafatturazione asseritamente poste in essere e, in ultima analisi, ritenendo che il calcolo induttivo dell’imponibile fondato sulle presunzioni tributarie medesime non potesse colmare la grave carenza probatoria riscontrata
I presupposti della tesi della parte pubblica non hanno convinto i Supremi Giudici, che hanno invece affermato: “…Come più volte spiegato da questa Corte «in tema di riesame delle misure cautelari reali, nella nozione di “violazione di legge” per cui soltanto può essere proposto ricorso per cassazione a norma dell’art. 325, comma 1, cod. proc. pen., rientrano la mancanza assoluta di motivazione o la presenza di motivazione meramente apparente, in quanto correlate all’inosservanza di precise norme processuali, ma non l’illogicità manifesta, la quale può denunciarsi nel giudizio di legittimità soltanto tramite lo specifico e autonomo motivo di ricorso di cui alla lett. e) dell’art. 606 stesso codice» (Sez. U, n. 5876 del 28/01/2004; si vedano anche, nello stesso senso, Sez. U, n. 25080 del 28/05/2003, Pellegrino, e Sez. U, n. 5 del 26/02/1991, Bruno, nonché, tra le più recenti, Sez. 5, n. 35532 del 25/06/2010, Angelini; Sez. 1, n. 6821 del 31/01/2012, Chiesi; Sez. 6, n. 20816 del 28/02/2013, Buonocore). Motivazione assente è quella che manca fisicamente (Sez. 5, n. 4942 del 04/08/1998, Seana; Sez. 5, n. 35532 del 25/06/2010, Angelini) o che è graficamente indecifrabile (Sez. 3, n. 19636 del 19/01/2012, Buzi); motivazione apparente, invece è solo quella che «non risponda ai requisiti minimi di esistenza, completezza e logicità del discorso argomentativo su cui si è fondata la decisione, mancando di specifici momenti esplicativi anche in relazione alle critiche pertinenti dedotte dalle parti» (Sez. 1, n. 4787 del 10/11/1993, Di Giorgio), come, per esempio, nel caso di utilizzo di timbri o moduli a stampa (Sez. 1, n. 1831 del 22/04/1994, Caldaras; Sez. 4, n. 520 del 18/02/1999, Reitano; Sez. 1, ri. 43433 dell’8/11/2005, Costa; Sez. 3, n. 20843, del 28/04/2011, Saitta) o di ricorso a clausole di stile (Sez. 6, n. 7441 del 13/03/1992, Bonati; Sez. 6, n. 25361 del 24/05/2012, Piscopo) e, più in generale, quando la motivazione dissimuli la totale mancanza di un vero e proprio esame critico degli elementi di fatto e di diritto su cui si fonda la decisione, o sia priva dei requisiti minimi di coerenza, completezza e ragionevolezza e quindi inidonea a rendere comprensibile l’itinerario logico seguito dal giudice (Sez. U., n. 25932 del 29/05/2008, Ivanov; nello stesso senso anche Sez. 4, n. 43480 del 30/09/2014, Giovannini, Rv. 260314). La giurisprudenza di legittimità ha affermato che sebbene il giudice non possa, in generale, far ricorso in sede di giudizio alle presunzioni tributarie semplici che, comportando l’inversione dell’onere della prova, sovvertono alla radice il principio della presunzione di innocenza dell’imputato, tuttavia ai fini della cautela reale è sufficiente la oggettiva sussistenza indiziaria del reato, a prescindere da qualsiasi profilo che riguardi la colpevolezza del suo autore (che potrebbe anche essere ignoto). La radicale diversità del criterio di giudizio legittima il ricorso alle presunzioni tributarie (cfr., sul punto, Sez. 3, n. 26274 del 10/05/2018, Rv. 273318, secondo cui le presunzioni legali previste dalle norme tributarie, pur non potendo costituire di per sé sole fonte di prova della commissione dei reati previsti dal d.lgs. 10 marzo 2000, n.74, hanno un valore indiziario sufficiente ad integrare il “fumus commissi delicti” idoneo, in assenza di elementi di segno contrario, a giustificare l’applicazione di una misura cautelare reale; nello stesso senso, Sez. 3, n. 2006 del 02/10/2014, Rv. 261928; Sez. 3, n. 26274 del 10/05/2018 – dep. 08/06/2018, P.M. in proc. Malluzzo, Rv. 27331801). Tanto premesso, deve rilevarsi che il tribunale ha sottolineato come nel caso in esame l’attività di indagine non avrebbe fornito alcun elemento concreto da cui desumere l’insussistenza oggettiva di parte delle operazioni, non essendovi alcun principio di prova che possa smentire la veridicità delle fatture in oggetto; ha rilevato che la ricostruzione accusatoria trascura alcuni elementi di fatto, e tra questi la circostanza che le imprese che gestivano le piattaforme sovente utilizzavano mezzi propri per il ritiro dei rifiuti conferiti dagli ambulanti, ed inoltre ha censurato il contenuto dell’appello del pubblico ministero, che a fronte del provvedimento motivato del GIP si è limitato a richiamare genericamente i calcoli effettuati dalla Guardia di Finanza, senza individuare in concreto le operazioni di sovrafatturazione asseritamente posto in essere. In conclusione il tribunale non ha escluso in linea di principio la possibilità di fare ricorso alle presunzioni tributarie, come dedotto dal ricorrente, ma ha ritenuto che nel caso in esame il calcolo induttivo dell’imponibile, fondato sulle presunzioni tributarie, non possa colmare la grave carenza probatoria riscontrata. Si tratta di motivazione non apparente che potrebbe, in ipotesi, risultare censurabile ma non in questa sede, ove può essere oggetto di valutazione soltanto il vizio di violazione di legge. Si impone pertanto la inammissibilità del ricorso.

Corte di Cassazione – Sentenza 13 gennaio 2021, n. 1083

sul ricorso proposto da:
PROCURATORE DELLA REPUBBLICA PRESSO IL TRIBUNALE DI PALERMO
nel procedimento cautelare a carico di
(omissis)​nato a​(omissis)
avverso l’ordinanza emessa dal Tribunale di Palermo l’8 febbraio 2020
udita la relazione svolta dal Consigliere MARIA DANIELA BORSELLINO;
sentite le conclusioni del Procuratore Generale Franca Zacco che ha chiesto la inammissibilità del ricorso e dell’avv. (omissis) che ha chiesto dichiararsi l’inammissibilità del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
l. Con il provvedimento impugnato il Tribunale di Palermo sezione per il riesame dei provvedimenti cautelari, ha rigettato l’appello del pubblico ministero avverso l’ordinanza emessa dal GIP del Tribunale di Palermo il 7 gennaio 2020 con cui è stata respinta la richiesta di misura cautelare reale nei confronti di (omissis) . in particolare è stata respinta la richiesta di sequestro preventivo della somma di circa 393.000 € nella disponibilità della (omissis) S.r.l. e in subordine dei beni di valore equivalente nella disponibilità di (omissis) in relazione al delitto di cui all’articolo 2 del decreto legislativo numero 74/2000 contestato al capo 7 dell’Incolpazione provvisoria per avere, nella qualità di amministratore unico della (omissis) S.r.l., al fine di evadere le imposte sui redditi, utilizzato nelle dichiarazioni fiscali fatture per operazioni inesistenti.
Nell’ordinanza impugnata il tribunale ha condiviso il giudizio del GIP in merito alla carenza di prova dell’asserita sovrafatturazione per operazioni oggettivamente inesistenti, rilevando che dalla informativa della Guardia di Finanza del 24 maggio 2018 emerge che l’ipotesi investigativa non era stata dimostrata in quanto non era stato possibile individuare esattamente quale parte delle fatture emesse dalle ditte individuali potesse essere ritenuta relativa ad operazioni oggettivamente inesistenti, ovvero sovrafatturate, né si era riusciti a identificare i reali soggetti dai quali la società aveva di fatto acquistato i beni commercializzati, in maniera da potere stabilire l’ammontare dell’evasione, con la conseguenza che l’amministrazione finanziaria era nella impossibilità di eseguire i controlli di coerenza esterna nei confronti dei reali fornitori della merce e non poteva basarsi sulla documentazione ufficiale detenuta in quanto non attendibile. Il tribunale concludeva che la carenza probatoria, sia pure a livello di probatio minor richiesta in sede cautelare, non poteva essere colmata dalla valutazione circa l’asserita incapacità dei microconferitori di vendere il quantitativo di rifiuti oggetto delle fatture, tenuto conto della tipologia dei mezzi utilizzati per trasportarli e della inadeguatezza dei locali sede della attività di impresa, in quanto le società che gestivano le piattaforma di raccolta dei rifiuti sovente utilizzavano mezzi propri per la raccolta ed ancora l’asserita inadeguatezza della struttura imprenditoriale dei microconferitori poteva al più attestare l’insussistenza soggettiva delle operazioni, ma non anche quella oggettiva, in assenza di qualsiasi analisi delle scorte di magazzino.
Inoltre, il metodo di calcolo utilizzato per determinare l’imposta evasa andava censurato poiché faceva riferimento a prezzi medi di vendita della unità di prodotto, mentre nel caso in esame gli ambulanti possono praticare prezzi molto concorrenziali.

  1. Avverso il detto provvedimento propone ricorso il pubblico ministero deducendo: violazione di legge e in particolare dell’art. 2 del decreto legislativo numero 74/2000 nella parte in cui è previsto che l’utilizzo delle fatture per operazioni inesistenti integra reato anche quando tale inesistenza venga calcolata attraverso un procedimento presuntivo come precisato da questa Corte di Cassazione con la sentenza numero 36302 del 15 marzo 2019. Il tribunale ha posto in essere un’affermazione in contrasto con il metodo presuntivo e ha trascurato di considerare che il calcolo effettuato dalla Guardia di Finanza non poteva trovare riscontro in una contabilità di magazzino dei microconferitori che non esisteva ed anzi la cui assenza ha comportato appunto la necessità di procedere mediante accertamento presuntivo. Inoltre, il pubblico ministero contesta la circostanza che il calcolo presuntivo sarebbe stato erroneo perché fondato sui prezzi medi, in quanto il tribunale non ha spiegato in base a quale elemento ritiene che i fornitori ambulanti abbiano venduto a prezzi più bassi di quelli di mercato.
  2. Con memoria depositata il 30 settembre 2020 il difensore di (omissis) chiede dichiararsi la inammissibilità del ricorso perché proposto per motivi non consentiti in questa sede. Deduce il difensore che il tribunale del riesame ha operato un attento controllo del singolo caso concreto e attraverso un percorso motivazionale sviluppato a pagina tre dell’ordinanza ha ritenuto che la prospettazione accusatoria sia rimasta priva di supporto indiziario, sicché ha escluso la sussistenza del fumus commissi delicti in relazione alla fattispecie di cui all’art.2 decreto legislativo 74/2000.
    CONSIDERATO IN DIRITTO
    1.11 ricorso è inammissibile perché proposto per motivi non consentiti.
    E’ innanzitutto necessario ribadire che avverso le ordinanze emesse a norma degli artt. 322-bis e 324 cod. proc. pen., il ricorso per Cassazione è ammesso solo per violazione di legge.
    Come più volte spiegato da questa Corte «in tema di riesame delle misure cautelari reali, nella nozione di “violazione di legge” per cui soltanto può essere proposto ricorso per cassazione a norma dell’art. 325, comma 1, cod. proc. pen., rientrano la mancanza assoluta di motivazione o la presenza di motivazione meramente apparente, in quanto correlate all’inosservanza di precise norme processuali, ma non l’illogicità manifesta, la quale può denunciarsi nel giudizio di legittimità soltanto tramite lo specifico e autonomo motivo di ricorso di cui alla lett. e) dell’art. 606 stesso codice» (Sez. U, n. 5876 del 28/01/2004; si vedano anche, nello stesso senso, Sez. U, n. 25080 del 28/05/2003, Pellegrino, e Sez. U, n. 5 del 26/02/1991, Bruno, nonché, tra le più recenti, Sez. 5, n. 35532 del 25/06/2010, Angelini; Sez. 1, n. 6821 del 31/01/2012, Chiesi; Sez. 6, n. 20816 del 28/02/2013, Buonocore).
    Motivazione assente è quella che manca fisicamente (Sez. 5, n. 4942 del 04/08/1998, Seana; Sez. 5, n. 35532 del 25/06/2010, Angelini) o che è graficamente indecifrabile (Sez. 3, n. 19636 del 19/01/2012, Buzi); motivazione apparente, invece è solo quella che «non risponda ai requisiti minimi di esistenza, completezza e logicità del discorso argomentativo su cui si è fondata la decisione, mancando di specifici momenti esplicativi anche in relazione alle critiche pertinenti dedotte dalle parti» (Sez. 1, n. 4787 del 10/11/1993, Di Giorgio), come, per esempio, nel caso di utilizzo di timbri o moduli a stampa (Sez. 1, n. 1831 del 22/04/1994, Caldaras; Sez. 4, n. 520 del 18/02/1999, Reitano; Sez. 1, ri. 43433 dell’8/11/2005, Costa; Sez. 3, n. 20843, del 28/04/2011, Saitta) o di ricorso a clausole di stile (Sez. 6, n. 7441 del 13/03/1992, Bonati; Sez. 6, n. 25361 del 24/05/2012, Piscopo) e, più in generale, quando la motivazione dissimuli la totale mancanza di un vero e proprio esame critico degli elementi di fatto e di diritto su cui si fonda la decisione, o sia priva dei requisiti minimi di coerenza, completezza e ragionevolezza e quindi inidonea a rendere comprensibile l’itinerario logico seguito dal giudice (Sez. U., n. 25932 del 29/05/2008, Ivanov; nello stesso senso anche Sez. 4, n. 43480 del 30/09/2014, Giovannini, Rv. 260314).
    La giurisprudenza di legittimità ha affermato che sebbene il giudice non possa, in generale, far ricorso in sede di giudizio alle presunzioni tributarie semplici che, comportando l’inversione dell’onere della prova, sovvertono alla radice il principio della presunzione di innocenza dell’imputato, tuttavia ai fini della cautela reale è sufficiente la oggettiva sussistenza indiziaria del reato, a prescindere da qualsiasi profilo che riguardi la colpevolezza del suo autore (che potrebbe anche essere ignoto). La radicale diversità del criterio di giudizio legittima il ricorso alle presunzioni tributarie (cfr., sul punto, Sez. 3, n. 26274 del 10/05/2018, Rv. 273318, secondo cui le presunzioni legali previste dalle norme tributarie, pur non potendo costituire di per sé sole fonte di prova della commissione dei reati previsti dal d.lgs. 10 marzo 2000, n.74, hanno un valore indiziario sufficiente ad integrare il “fumus commissi delieti” idoneo, in assenza di elementi di segno contrario, a giustificare l’applicazione di una misura cautelare reale; nello stesso senso, Sez. 3, n. 2006 del 02/10/2014, Rv. 261928; Sez. 3, n. 26274 del 10/05/2018 – dep. 08/06/2018, P.M. in proc. Malluzzo, Rv. 27331801)
  3. Tanto premesso, deve rilevarsi che il tribunale ha sottolineato come nel caso in esame l’attività di indagine non avrebbe fornito alcun elemento concreto da cui desumere l’insussistenza oggettiva di parte delle operazioni, non essendovi alcun principio di prova che possa smentire la veridicità delle fatture in oggetto; ha rilevato che la ricostruzione accusatoria trascura alcuni elementi di fatto, e tra questi la circostanza che le imprese che gestivano le piattaforme sovente utilizzavano mezzi propri per il ritiro dei rifiuti conferiti dagli ambulanti, ed inoltre ha censurato il contenuto dell’appello del pubblico ministero, che a fronte del provvedimento motivato del GIP si è limitato a richiamare genericamente i calcoli effettuati dalla Guardia di Finanza, senza individuare in concreto le operazioni di sovrafatturazione asseritamente posto in essere.
    In conclusione il tribunale non ha escluso in linea di principio la possibilità di fare ricorso alle presunzioni tributarie, come dedotto dal ricorrente, ma ha ritenuto che nel caso in esame il calcolo induttivo dell’imponibile, fondato sulle presunzioni tributarie, non possa colmare la grave carenza probatoria riscontrata.
    Si tratta di motivazione non apparente che potrebbe, in ipotesi, risultare censurabile ma non in questa sede, ove può essere oggetto di valutazione soltanto il vizio di violazione di legge.
    3.Si impone pertanto la inammissibilità del ricorso.
    P.Q.M.
    Dichiara inammissibile il ricorso.
    Così deciso il 14/10/2020

Desidero ricevere in abbonamento gratuito il vostro periodico FiscotoDay