CASSAZIONE FISCALITA

Quando il riciclaggio cancella lo scudo fiscale

Evasione fiscale – Somme detenute all’estero – Sequestro preventivo – c.d. Scudo fiscale – Effetti penali – Riciclaggio – L.21 febbraio 2003, n. 27 –  CP Art. 648 bis – Irrilevanza

La Corte di Cassazione con la Sentenza n. 7257 del 24 febbraio 2020, ha sentenziato che nel caso  di capitali illecitamente detenuti all’estero e frutto di evasione fiscale di decenni precedenti, anche se poi regolarmente scudate e infine trasferite sui conti degli interessati, si commette il reato di riciclaggio.

In altre parole il reato di riciclaggio si manifesta anche se il patrimonio, frutto di evasione fiscale, rientra in Italia attraverso lo scudo fiscale.

Ricordiamo che gli Ermellini ebbero a puntualizzare, con la sent. 13901 /16, che per i capitali illecitamente detenuti all’estero sussiste il reato di riciclaggio solo quando l’accusa prova l’esistenza del delitto presupposto, non potendosi solo presumere l’illecito tributario.

In estrema sintesi, ora confermano i Supremi giudici di legittimità, è irrilevante ai fini della sussistenza del riciclaggio, che le singole operazioni siano tutte lecite, quello che conta è il far riferimento alla volontà di nascondere la provenienza illecita del denaro.

Ricordiamo anche che per quanto attiene alla durata del reato tributario, è stata recentemente introdotta dal legislatore la stretta del decreto fiscale 124/2019 che punisce le frodi con il carcere sino a 8 anni allunga la prescrizione a quasi 11, che superano addirittura i 13 anni al realizzarsi di un atto interruttivo.

L’attenzione al problema dal legislatore emerge anche con  la riforma del c.p. sulla prescrizione (in vigore dal 1 gennaio 2020) che reintroduce una previsione abrogata nel 2005 e che incide pesantemente anche sui reati tributari: si tratta della regola che, con valutazione unitaria del reato continuato (consistente in più condotte illecite avvinte dal medesimo criminoso) che fa decorrere la prescrizione dal momento in cui è cessata la continuazione e non più, come prima, da quello in cui è stata commessa ciascuna violazione. Lo scopo è chiaramente quello di spostare avanti la punibilità di tutti i reati uniti dalla stessa meta e così anche le frodi perpetrate, come nel caso dibattuto, dall’evasore per più annualità consecutive.

In realtà, ciò che fa ricadere una condotta nel tipo del reato di riciclaggio non è dunque la liceità o l’illiceità in se dell’atto compiuto, quanto la direzione finalistica che a questo viene impressa dal soggetto agente, che lo usa per schermare la provenienza delittuosa del denaro o del bene oggetto dell’atto medesimo.

Peraltro lo scudo fiscale, come è noto,  è una tipologia di regolarizzazione in materia tributaria e penale simile ad un condono perché inibisce l’azione penale e di accertamento tributario nel caso di alcuni illeciti tributari e penali. Esso sana alcuni eventuali comportamenti illeciti o irregolari effettuati dal contribuente riguardo alla produzione e detenzione di capitali detenuti all’estero derivanti da redditi non denunciati e presumibilmente imponibili e dall’acquisto di immobili con i suddetti capitali, tramite il pagamento di una imposta forfettaria, una tantum, di valore inferiore alle normali aliquote tributarie.

Sotto il profilo penale, il perfezionamento della procedura di collaborazione comporta l’esclusione della punibilità per i delitti di infedele e omessa dichiarazione (art. 4 e 5 del Dlgs 74/2000) e la riduzione fino alla metà delle pene previste per i delitti di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture per operazioni inesistenti e dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici.

È bene ricordare che la Corte di Cassazione ebbe già a  ribadire, con la pronuncia n. 28724/2011, che le somme “scudate” possono essere sottoposte a sequestro preventivo, se riferite a condotte che configurano il reato di riciclaggio, proprio perché l’immunità è concessa dall’attuale ordinamento solo per alcuni tipi di reato (articoli 2, 3, 4, 5 e 10 del Dlgs 74/2000), mentre per altre fattispecie permane l’ordinaria rilevanza penale.

Tanto premesso e tornando al caso in esame, la vicenda ha inizio quando viene sequestrata una significativa somma proveniente dai delitti di evasione fiscale, contrabbando e truffa commessi a metà degli anni 90, perché secondo l’accusa era stata realizzata la condotta di riciclaggio articolata in una pluralità di atti nell’arco di quindici anni.

Uno degli indagati, in estrema sintesi, socio di una impresa svizzera, nel 2000 depositava somme in conti elvetici. Dopo alcuni anni (2003) le somme rientravano in Italia attraverso lo scudo fiscale e venivano depositate su conti a lui intestati con delega ad operare ad altro soggetto. Successivamente con una serie di operazioni e con un atto di donazione le somme erano definitivamente trasferite (nel 2015) a un terzo soggetto. Infine la difesa eccepiva tra l’altro, che tutte le operazioni contestate erano perfettamente legittime ed eseguite in modo trasparente.

La Cassazione ha ritenuto infondato il ricorso evidenziando che il reato essendo permanente si consuma con il compimento dell’ultimo atto della sequenza (si tratta cioè di un solo reato a formazione progressiva). Anche la Procura generale del Palazzaccio aveva chiesto la conferma dell’impianto accusatorio.

Gli Ermellini hanno quindi ritenuto che:” … Il primo motivo di ricorso (sintetizzato al § 3.1.) è infondato. Con esso non si dubita della possibilità astratta di configurare il reato di riciclaggio come reato a formazione progressiva ovvero a consumazione prolungata o con condotte frazionate, ma si sostiene che tale schema non può ritenersi configurato nel caso concreto, in ragione dell’autonomia dei singoli atti, della loro autonomia e della loro liceità. Si sostiene che -a tal fine- è necessario che ogni singolo atto compiuto successivamente alla prima consumazione deve essere conforme alla fattispecie incriminatrice astratta, contenendo in sé tutti gli elementi strutturali necessari alla configurazione tipica del reato. Si aggiunge che «la giurisprudenza è tassativa nel richiedere la reiterazione in ogni caso degli elementi costitutivi del reato, nonché la sua progettazione o esecuzione con modalità frammentarie e progressive nel medesimo contesto fattuale». Si eccepisce, quindi, la violazione del principio di legalità e di determinatezza della fattispecie nel caso in cui i singoli atti non abbiano tutti gli elementi costitutivi della fattispecie. L’assunto è infondato perché si scontra con le caratteristiche del riciclaggio che, come la stessa difesa ha sottolineato, è un reato a forma libera, con la conseguente impossibilità di una preventiva tipizzazione delle condotte che -in concreto- vengono strumentalizzate o possono essere strumentalizzate al perseguimento della finalità di occultare la provenienza delittuosa del denaro, dei beni o delle altre utilità. Proprio l’impossibilità di una preventiva tipizzazione delle condotte astrattamente orientabili verso lo scopo di occultare la provenienza delittuosa del denaro (o dei beni o delle altre utilità) impedisce l’accesso all’assunto difensivo secondo cui il reato di riciclaggio non può essere commesso con atti di disposizione leciti (come il ricorso al cd scudo fiscale ovvero il rispetto del regolamento) ovvero pubblici (come la donazione). In realtà, ciò che fa ricadere una condotta nel tipo del reato di riciclaggio non è la liceità o l’illiceità in sé dell’atto compiuto, quanto la direzione finalistica che a questo viene impressa dal soggetto agente, che lo usa per schermare la provenienza delittuosa del denaro (del bene o dell’utilità) oggetto dell’atto medesimo.  La forma libera del reato di riciclaggio, nei termini ora evidenziati, implica che quell’effetto di oscuramento – possa essere astrattamente realizzato cori singoli atti leciti, ma anche con una pluralità di distinti atti leciti, anche realizzati a distanza di tempo, purché siano ricondotti a unità dall’obiettivo comune cui essi sono finalizzati, ossia l’occultamento della provenienza delittuosa del denaro che costituisce il loro oggetto. Non è essenziale, inoltre, che l’agente individui e preveda fin dall’inizio del proprio progetto delittuoso i singoli atti che andrà a compiere per perseguire la finalità di occultamento, ben potendo accadere che i singoli atti siano individuati nel corso della sua attuazione, in base alle eventuali sopravvenienze ovvero in base allo sviluppo concreto degli eventi che rendono preferibile un atto piuttosto che un altro ovvero mettono a disposizione atti precedentemente non previsti dall’ordinamento giuridico, che possono rendere più efficace l’azione nella prospettiva di rendere definitiva e/o di consolidare l’acquisizione del provento del delitto. Risultano infondate, perciò, le obiezioni difensive che lamentano l’impossibilità di configurare il riciclaggio in ragione dell’autonomia delle singole condotte, della loro liceità e in quanto non previste e non prevedibili al momento del compimento della primigenia condotta di riciclaggio. 1.1.2. Il secondo e il terzo motivo di ricorso (sintetizzati, rispettivamente, ai §§ 3.4. e 3.6.) sono infondati. Tali motivi possono essere esaminati congiuntamente in quanto attengono entrambi alla collocazione temporale del reato, con specifico riferimento al tempo della sua commissione. Il tema è rilevante in quanto dalla sua soluzione discendono conseguenze in punto di prescrizione e di applicabilità della confisca così come disciplinata dall’art. 648-quater, cod.pen., in quanto norma sanzionatoria sfavorevole e, in quanto tale, soggetta alla disciplina al divieto di irretroattività.  Le censure difensive suppongono che il reato si sia consumato nel 2000, ossia al tempo in cui veniva realizzata la prima condotta di riciclaggio. Tale assunto è, però, infondato per le ragioni esposte al precedente paragrafo. Infatti, una volta stabilito che l’ipotesi concreta si è sviluppata lungo più atti compiuti nel tempo, si deve far riferimento all’insegnamento della giurisprudenza di legittimità, là dove chiarisce che «in tema di riciclaggio, ove più siano le condotte consumative del reato, attuate in un medesimo contesto fattuale e con riferimento ad un medesimo oggetto, si configura un unico reato a formazione progressiva, che viene a cessare con l’ultima delle operazioni poste in essere» (Sez. 2, Sentenza n. 29869 del 23/06/2016 ; Rv. 267856; Sez. 2, Sentenza n. 52645 del 20/11/2014, Rv. 261624).  In tale ipotesi, dunque, il delitto di riciclaggio, si atteggia a reato permanente (Sez. 2, Sentenza n. 29611 del 27/04/2016, Rv. 267511; Sez. 2, Sentenza n. 34511 del 29/04/2009) e, conseguentemente, deve considerarsi consumato con il compimento dell’ultimo della sequenza di atti incriminata. Nel caso concreto, tale ultimo atto viene individuato nell’atto di donazione del 14 settembre 2015, con la duplice conseguenza che il reato non è prescritto e che esso deve considerarsi commesso nello spazio di vigenza temporale dell’art. 648, quater, cod.pen.  1.1.4. Il quarto motivo di ricorso (sintetizzato al § 3.8.) attiene alla quantificazione delle somme sequestrabili e implica esclusivamente valutazioni di mero fatto non consentite in sede di legittimità. Da qui la sua inammissibilità in questa sede. 2. Da quanto esposto consegue il rigetto del ricorso e la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali”.

CORTE DI CASSAZIONE SEZ. II PENALE SENTENZA n.7257 del 24 febbraio 2020

Sul ricorso proposto da:

B. E. nato a GENOVA il 21/12/1966 avverso l’Ordinanza del 08/07/2019 del TRIB. LIBERTA’ di GENOVA

udita la relazione svolta dal Consigliere ANTONIO SARACO;

lette/sentite le conclusioni del PG FERDINANDO LIGNOLA

Il Proc. Gen. conclude per il rigetto del ricorso.

udito il difensore l’avvocato RONCO MAURO del foro di TORINO in difesa di: B.E. si riporta ai motivi e ai motivi nuovi depositati chiedendone l’accoglimento.

L’avvocato MARAFIOTI LUCA del foro di ROMA in difesa di: B.E. si riporta ai motivi e ai motivi nuovi depositati chiedendone l’accoglimento.

Ritenuto in fatto

1. Con ordinanza in data 8 luglio 2019 (dep. il 10/7/2019), il Tribunale di Genova in funzione di giudice dell’impugnazione, in sede di riesame, ha confermato il decreto del G.i.p. del Tribunale di Genova, che ha disposto, nei confronti di E. B., il sequestro preventivo finalizzato alla confisca diretta di somme di denaro e titoli per un importo complessivo pari a euro 1.871.184,14 o, in via subordinata, il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente di beni mobili o immobili e di qualsiasi altro bene fino alla concorrenza dell’importo già indicato, in relazione al reato di riciclaggio avente quali reati presupposti la truffa e la violazione della Legge 7 agosto 1982 n. 516, ossia la violazione della normativa in materia di repressione dell’evasione dell’imposta sui redditi; reati che si assume siano stati commessi da G. B., D. P. e Guido B., ossia padre, madre e fratello dell’odierno ricorrente. Va precisato che l’ordinanza del G.i.p. confermata dal Tribunale oggi impugnata escludeva dal sequestro le somme indicate come profitto del reato di appropriazione indebita pure contestato come reato presupposto.

2. Secondo l’ipotesi d’accusa, la condotta di riciclaggio si è articolata in una pluralità di atti concretizzati in un arco temporale di circa quindici anni e ha a oggetto le somme provento dei reati in materia di violazioni tributarie, contrabbando e truffa riguardante l’importazione della carne bovina congelata (GATT), commessi negli anni 1994 e 1995 e che, come premesso, ha visto coinvolti G. B., D. P. e Guido B., congiunti del ricorrente. Tale vicenda si concludeva con sentenza di patteggiamento, depositata il 5/5/1998 e irrevocabile dal 20/06/1998.

2.1. Il primo atto della condotta di riciclaggio oggi in contestazione sarebbe stata commessa da E. B. nel 2000, quando accettò di vestire la qualità di socio della società T. Invest & Trade e in tale veste (il 24.8.2000) rinnovava il mandato alla fiduciaria svizzera FINIMEX s.a. di gestire i fondi depositati sul conto corrente n. 248-70003988 acceso presso la banca UBS di Z. e alimentato dalle somme provento dei delitti già indicati, commessi dai propri famigliari e precedentemente custoditi presso altri conti cifrati (denominati ‘Cocchiere’, ‘Navarino’, Mascherina’, ‘Eroismo’).

Secondo tale ricostruzione, E. B. alla data del 30/08/2000, nella sua qualità di socio della società T. Invest & Trade s.a. era il beneficiario economico del conto corrente sopra menzionato.

2.2. In virtù di ciò, l’odierno ricorrente nel 2003 realizzava il secondo atto della complessa condotta di riciclaggio descritta dall’accusa, aderendo alla procedura di emersione di capitali detenuti all’estero ai sensi della Legge 21 febbraio 2003, n. 27 (cd. – Scudo Fiscale) e faceva rientrare in Italia, -su conti correnti a lui intestati, la somma complessiva di euro 6.827.918,00, attraverso un duplice passaggio: la somma, infatti, in un primo momento veniva trasferita dal già menzionato conto intestato alla T. Invest & Trade s.a. al conto n. 273-266305 della UBS di Z., acceso a tale scopo e intestato a E. B. e -in un secondo momento- veniva nuovamente trasferita da questo conto corrente ad altri conti correnti italiani sempre intestati a E. B. accesi presso banca Esperia e Melior BAnca.

2.3. Il terzo atto individuato dalla pubblica accusa si concretizzava il 2.2.2010, con il conferimento a G. B. della delega a operare a firma disgiunta sul conto corrente n. 100530-7 acceso presso Banca Esperia, dove si trovava depositata parte delle già menzionate somme.

2.4. Analogamente e ancora, nel 2013, E. B. trasferiva il denaro ritenuto di provenienza delittuosa sul conto corrente n. 92002 di Banca Esperia, a lui intestato ma sul quale aveva conferito a G. B. delega a operare a firma disgiunta, con atto del 7.11.2012. 2.5. Infine, in data 14.9.2015 stipulava atto notarile di donazione per la somma di € 4.700.000,00 in favore di Guido B..

La somma in questione veniva di fatto trasferita a quest’ultimo con una serie di operazioni bancarie e finanziarie in favore di conti correnti a lui intestati. L’ultimo di tali atti veniva registrato il 23.9.2015. 3. E. B., a mezzo dei propri difensori, deduce i seguenti vizi:

3.1. Inosservanza della legge penale e della legge processuale e difetto di motivazione con riferimento alla ritenuta sussistenza del fumus boni luris del contestato reato di riciclaggio.

A tal riguardo si sostiene che l’ordinanza impugnata fa rientrare la pluralità di atti compiuti dal 2000 al 2015 in un’unica ipotesi del reato di riciclaggio facendo ricorso alla figura del reato istantaneo a formazione progressiva, pur in assenza dei presupposti a tal fine essenziali, individuabili nella necessità che gli atti successivi a una primigenia e fondamentale condotta decettiva volta a ostacolare l’identificazione della provenienza delittuosa di una determinata provvista, siano immediatamente esecutivi del medesimo progetto iniziale. Si puntualizza che «ciò che consente la riconduzione di una pluralità di atti o di comportamenti a un medesimo reato è (…) un compatto vincolo di unità cronologica, spaziale, teleologica e, soprattutto, di titolo giuridico tra i differenti atti».

Si sottolinea anche che, in mancanza della «stretta interrelazione fra la condotta di riciclaggio e le successive condotte, di per sé atipiche, ma esecutive del medesimo progetto, lo schema .del reato a formazione progressiva è giuridicamente fallace perché contrasta o con l’istituto della continuazione ovvero con il principio fondamentale della non punibilità dei post facta non punibili privi di un’autonoma tipicità delittuosa».

Secondo la difesa l’enunciato requisito della stretta correlazione manca nel caso concreto, atteso che gli atti compiuti nel 2003, 2010, 2013 e nel 2015 sono slegati dalla condotta originaria di riciclaggio eventualmente commessa nel 2000, sia perché sono muniti di specifiche e autonome cause giuridiche, sia perché non hanno un’intrinseca funzione decettiva, così che non possono neanche costituire autonome condotte di riciclaggio eventualmente da riunirsi tra loro con il vincolo della continuazione.

A sostegno dell’assunto si illustrano le ragioni per cui ciascun atto non poteva essere ritenuto collegato e funzionale alla condotta del 2000, osservandosi che:

A) con riguardo all’atto del 2003, B. esercitò un diritto riconosciutogli dalla legge aderendo al cd. ‘scudo fiscale’, ossia uno strumento non prevedibile nel 2000 e strutturalmente incompatibile con una condotta decettiva, attesane la natura pubblica a trasparente, autorizzata da una legge dello Stato.

B) Con riguardo alle deleghe del 2010 in favore del padre, esse erano giustificate dalla sua lontananza da Genova e dalla conseguente impossibilità a operare sui conti correnti e rese possibili dal miglioramento dello stato di salute di G. B., imprevedibile nel 2000.

C) Per quanto riguarda l’atto del 2013, ossia la desecretazione di un conto cifrato e il successivo trasferimento del denaro in un conto corrente presso banca Esperia a sé intestato e sul quale aveva la delega a operare anche il padre, si rimarca come in tal caso erano state rispettate le indicazioni della circolare 29/E dell’Agenzia delle Entrate del 5 luglio 2012, così compiendo un atto ontologicamente opposta alla condotta di riciclaggio.

D) Quanto alla donazione della somma di denaro in favore del fratello nel 2015, osserva che essa fu ostesa con atto pubblico e, dunque, con una procedura che rivela la perfetta buona fede del ricorrente, al solo considerare la indefettibile destinazione dell’atto all’Agenzia delle Entrate, dove andava trasmesso per la sua registrazione.

A tale ultimo proposito si aggiunge che «a prescindere dal tema del dolo, che non è qui oggetto di trattazione, è la struttura intrinseca dell’atto a rivelarsi, di per sé, siccome destinata alla pubblica ostensione, incompatibile con una oggettiva funzione decettiva».

Si deduce, dunque, l’erroneità dell’ordinanza impugnata che, senza motivazione riconduce a unità gli atti compiuti dal 2010 al 2015, nonostante siano svincolati tra loro e corrispondenti ciascuno a un’autonoma e specifica ragione fattuale.

3.2. Inosservanza della legge processuale e difetto di motivazione con riferimento alla ritenuta sussistenza del fumus boni iuris: erronea individuazione del reato di appropriazione indebita quale delitto presupposto del riciclaggio (art. 606, comma 1, lett. b) e c), cod.proc.pen.).

A tal riguardo si lamenta la totale assenza di un fatto storico capace di costituire il presupposto del riciclaggio e, a sostegno di tale assunto, si osserva che non è stato individuato un soggetto passivo, mancando indicazioni circa il fatto che le somme di denaro depositate nei conti esteri e mai registrate nel territorio italiano fossero di diretta spettanza della B. s.r.l. e, dunque, siano state effettivamente distratte dalla cassa delle società; che non vengono indicate le operazioni societarie che avrebbero costituito i titoli per l’ingresso del denaro nel patrimonio della B. s.r.I.; che nessun documento o testimonianza è stata addotta in ordine agli importi oggetto di appropriazione; che non è stata fornita alcuna indicazione circa il tempo in cui sarebbe avvenuta l’appropriazione; che non è stata data alcuna indicazione circa la persona o le persone che avrebbero alimentato la provvista dei conti correnti svizzeri.

Si aggiunge che il tribunale ha omesso di confutare gli elementi probatori estremamente rilevanti forniti dalla difesa in ordine alla provenienza della grandissima parte del denaro dalla ricchezza del nonno materno, Franco P. e, quindi, pervenuto per via ereditaria a E. B..

3.3. Inosservanza della legge processuale e difetto di motivazione con riferimento alla ritenuta sussistenza del fumus boni iuris degli asseriti delitti presupposti del contestato reato di riciclaggio, quale titolo per l’emissione del sequestro preventivo: illogicità e mancanza assoluta di motivazione (art. 606, comma 1, lett. c) ed e), cod.proc.pen.). In questo caso ci si lamenta della sostanziale mancanza di motivazione nel provvedimento impugnato, in ragione della tecnica di redazione, meramente riproduttiva di altra separata ordinanza (pronunciata a seguito di appello del PM) che, a sua volta, risulta viziata a causa del difetto di autosufficienza rispetto a quanto rappresentato dall’accusa, giacché -si sostiene- si limita a mutuare le presunte ragioni contenute nell’appello cautelare proposto dal PM, senza dare prova di adeguata e autonoma valutazione. Sulla base di tale osservazione si deduce l’apparenza della motivazione che, in ragione della descritta tecnica di motivazione, non può aver dato risposta ai motivi di riesame rassegnati dalla difesa. Vengono altresì dedotti ulteriori vizi della motivazione, con particolare riguardo alla possibilità di estendere l’area del profitto «al di là di quanto emergente- dagli atti del procedimento ormai conclusosi per l’asserito delitto presupposto» e alla impossibilità di considerare i reati fiscali di cui all’art. 1, comma 2, lett. a), L. n. 516/1982 quale presupposto del riciclaggio, attesa la loro natura di reati contravvenzionali.

A tal proposito si sostiene che il tribunale con una mera petizione di principio, ipotetica e in assenza di alcun elemento di prova afferma che «l’irrevocabilità di sentenza su alcuni dei reati presupposto non esclude la configurabilità di ulteriori fatti delittuosi (anche eventualmente coevi ed antecedenti), emersi dalle ulteriori indagini aventi diverso e più ampio oggetto». In sostanza si sostiene che il Tribunale aggira la difficoltà di collegare le somme di denaro a un reato presupposto attraverso l’affermazione secondo cui la mera ipotizzabilità in astratto di una qualunque fattispecie delittuosa tiene in piedi provvisoriamente la fattispecie incriminatrice preliminare a fini cautelari, anche se priva di riscontro fattuale e di adeguato fondamento giuridico e che in forza di tale assunto si avalla -in via del tutto ipotetica- la ricostruibilità della vicenda in termini di frode fiscale.

Si aggiunge che -sempre in violazione di legge- si tenta di colmare il vuoto probatorio circa la possibilità di ricondurre alla cd truffa GATT l’intera somma trasferita con lo scudo fiscale (ossia circa 7.000.000,00 di euro) con una illegittima inversione dell’onere della prova, attuata nella parte della motivazione in cui si afferma che E. B. si è avvalso della facoltà di non rispondere e che non vi sono state produzioni documentali dimostrative di una fonte alternativa di provenienza legittima dei cespiti, così che poteva essere ritenuta corretta «la parametrazione delle somme da ritenersi provento dei delitti di truffa e di appropriazione indebita continuata a quella fatta rientrare in Italia del 2003». Si conclude il motivo sostenendosi che il Tribunale non ha svolto il ruolo di controllo e garanzia attribuitogli dal legislatore, per come precisato dalla giurisprudenza costituzionale e da quella di legittimità.

3.4. Inosservanza della legge processuale e difetto di motivazione con riferimento alla ritenuta insussistenza del fumus boni iuris ai fini del sequestro preventivo per essere intervenuta la prescrizione (art. 606, comma 1, lett. b), c) ed e), cod.proc.pen.

Sotto tale profilo si evidenzia che -fatte salve le riserve difensive sul punto l’unica condotta eventualmente inquadrabile nel reato di riciclaggio secondo la prospettazione accusatoria, potrebbe essere quella tenuta da E. B. nel 2000 e che ormai dovrebbe considerarsi prescritta già prima dell’esercizio dell’azione penale, con la conseguente illegittimità del sequestro preventivo, alla luce del principio di diritto affermato dalla Cassazione con la sentenza n. 24162 del 6 aprile 2011 (Rv. 250641).

3.5-. Inosservanza della legge penale sostanziale e difetto di motivazione in ordine alla prova del nesso di pertinenzialità fra le somme sequestrate e il reato oggetto dell’imputazione (art. 606, comma 1, lett. b) e c) del codice di rito). Si sostiene l’assenza di un’adeguata motivazione quanto al rapporto di pertinenzialità tra le somme di denaro in sequestro e il reato, mancando la prova che quello costituisca il prodotto, il profitto o il prezzo di questo. Si precisa che il Tribunale, in accoglimento dell’appello del PM, ha ordinato il sequestro preventivo di somme ulteriori rispetto a quelle considerate provento dei reati accertati con sentenza di patteggiamento n. 275/9 del Tribunale di Genova, mentre il G.i.p. lo aveva limitato a tali somme, ritenendo non sufficientemente provata la loro provenienza delittuosa. «Il tutto -si aggiunge- nel difetto di qualsiasi adeguato collegamento e senza fornire alcuna adeguata spiegazione circa la sussistenza di un rapporto di derivazione fra il quantum sequestrato, considerato apoditticamente profitto, ed il reato-presupposto del delitto di riciclaggio per cui si procede nei confronti dell’odierno impugnante. […] Né, d’altronde, si fornisce alcuna giustificazione circa un eventuale riutilizzo o reinvestimento di quelle somme, tale da accrescerne il valore e giustificare così il vincolo reale». Si precisa, infine, che l’importo da considerarsi provento delle truffe GATT non può essere superiore a quello quantificato dal giudicante della sentenza di patteggiamento e individuata in 58.898,55 marchi tedeschi alla quale va aggiunta l’ulteriore somma pari a lire 334.169.735.

3.6. Violazione di legge processuale e difetto di motivazione in ordine all’omesso confronto con le deduzioni difensive (art. 606, comma 1, lett. c), cod.proc.pen.). Ci si duole dell’omesso confronto del Tribunale con le deduzioni difensive esposte nel corso delle indagini preliminari e in sede di appello cautelare, corredate da produzione documentale in ordine a quanto a conoscenza di E. B. circa la provenienza delle somme detenute all’estero dalla famiglia, con particolare riferimento alla disponibilità di un importo complessivo pari a circa € 2.475.612,37 presso i conti ‘Eroismo’ e ‘Cocchiere’ oltre che su un conto della Banca Svizzera SBS, già prima che si aprisse la vicenda delle false licenze GATT, in quanto provenienti dall’ingente patrimonio e ricevuti in via ereditaria dal de cuius F. P., suocero di G. B. e padre di D. P..

Secondo la difesa, il Tribunale ha cercato di colmare il vuoto di elementi colto dal G.i.p., che ha limitato il sequestro alle somme che a suo avviso -e fatte salve le riserve difensive- erano il profitto derivante dalle truffe GATT e in relazione alle quali è stata emessa la sentenza di patteggiamento a carico di G. e Guido B. e di D. P..

La difesa segnala che il G.i.p. aveva rigettato la richiesta di sequestro delle somme ulteriori osservando che dalle dichiarazioni rese da Guido e G. B. nel procedimento che diede luogo alla sentenza di patteggiamento quanto ai versamenti effettuati nei conti correnti denominati ‘Eroismo’, ‘Cocchiere’, ‘Navarino’ e ‘Mascherina’ e avendo riguardo alla documentazione versata in atti dagli indagati a dimostrazione della provenienza delle somme di denaro, non era possibile ritenere che sui menzionati conti correnti cifrati fossero confluiti anche i proventi di attività illecite ulteriori, poste in essere da G. B. e consistenti in atti di evasione fiscale e in attività di appropriazione indebita in danno della B. s.r.l. Si nega l’esistenza di indizi che possano confortare l’accusa circa l’ipotizzata appropriazione indebita e si osserva che il Tribunale ha superato la motivazione di rigetto del Tribunale sulla base di mere postulazioni e con un provvedimento che si assume non congruamente motivato.

3.7. Violazione di legge ed illegittimità di un sequestro funzionale alla confisca per equivalente, in forza dell’art. 648 — quater, cod.pen. (art. 606, comma 1, lett. b), cod.proc.pen.).

Si osserva che il sequestro per equivalente previsto dall’art. 648- quater cod.pen., non può essere applicato alle condotte commesse in data antecedente alla sua entrata in vigore, attesane la natura sanzionatoria. Da ciò si fa discendere l’inapplicabilità di tale strumento ablatorio al caso in esame, atteso che le uniche condotte astrattamente riconducibili al paradigma del riciclaggio sono risalenti al 2000 e, perciò, antecedenti all’introduzione dell’art. 648 — quater, cod.pen., con l’art. 63, comma 4, del D.Igs. n. 231 del 2007.

3.8. ‘Con particolare riferimento al provvedimento del G.i.p. del 4.06.2019 che aveva limitato l’oggetto del sequestro all’importo di euro 1.871.184,14 […] e al provvedimento del Tribunale del riesame dell’8.7.2019 si denuncia la violazione di legge e l’illegittimità di un sequestro determinato in funzione dell’errata individuazione del profitto del reato (art. 606, comma 1, lett. B), e C), cod.proc.pen.).

Premessi i risultati dell’appello del PM e la tecnica di redazione dalla motivazione, la difesa sostiene che nel provvedimento del Tribunale del riesame si ha un accoglimento implicito del motivo con cui la difesa lamentava -in sede di riesame- l’individuazione della contravvenzione ex art. 1, comma 2„ lett. a), Legge n. 516 del 1982, quale reato presupposto del riciclaggio, con la conseguenza che -in caso di rigetto del motivo sub 1 e dell’accoglimento del motivo sub 2- dovrà essere comunque ridotto l’importo oggetto del sequestro disposto dal G.i.p. anzitutto e quanto meno nella misura di euro 361.610,11 pari al provento dei reati contravvenzionali di presunta evasione fiscale, contestata dal 1991 al 1994.

Si aggiunge che gli importi relativi alle truffe GATT andavano quantomeno ridimensionati, in quanto nella somma complessiva pari a euro 1.509.574,03 erano state illegittimamente ricomprese anche le utilità ritratte dalla società GESPA di Colle Garcia, totalmente estranea alla famiglia B.. Si osserva ancora che lo stesso Giudice della sentenza di patteggiamento spiegava che la società B. s.r.l. era una sorta di tramite tra la società G. s.l. e le persone offese e che per tale ruolo percepiva una sorta di provvigione che costituiva il profitto del reato.

Secondo la difesa, pertanto, l’importo da considerarsi provento delle truffe GATT non può essere superiore a quello quantificato dal giudicante della sentenza di patteggiannento e individuata in 58.898,55 marchi tedeschi alla quale va aggiunta l’ulteriore somma pari a lire 334.169.735.

4. Con memoria depositata in Cancelleria il 28.10.2019, sono stati proposti motivi nuovi con i quali vengono ulteriormente illustrate le ragioni a sostegno del primo motivo di ricorso, con il quale si nega la possibilità di far rientrare il caso concreto nello schema del reato a formazione progressiva o a consumazione prolungata, ponendo ulteriormente l’accento sulla violazione del principio di legalità e di determinatezza configurabile allorquando venga attribuita rilevanza penale a condotte prive del requisito della tipicità.

A sostegno dell’assunto, vengono passati in rassegna una serie di casi giurisprudenziali in cui è stata riconosciuta la configurazione del reato di riciclaggio a formazione progressiva e si rimarcano le differenze rispetto al caso in giudizio, con particolare riguardo alla mancanza del requisito della intrinseca tipicità illecita di ogni condotta, in tutti i suoi elementi costituitivi. Si aggiunge che la configurazione del reato a formazione progressiva, così come ritenuto dal Tribunale, comporta la violazione della disciplina della prescrizione, con riguardo alla quale non possono essere considerate le condotte successive a quella compiuta nel 2000, in quanto prive di tipicità normativa. Si ribadisce, quindi, che il reato deve considerarsi ampiamente prescritto.

Considerato in diritto

1. Il ricorso è infondato.

1.1. Bisogna anzitutto tracciare il perimetro dell’odierna impugnazione, al fine di individuare i motivi che vi rientrano e quelli che, invece, sono estranei a essa. Tale operazione è resa necessaria in quanto il ricorso in esame -in alcuni tratti- impinge il provvedimento emesso dal Tribunale in – accoglimento dell’appello del PM e in riforma della parte della decisione del G.i.p. che rigettava la richiesta di sequestro preventivo, ritenendo l’insussistenza -tra l’altro- del reato di appropriazione indebita quale presupposto del reato di riciclaggio. L’ordinanza del Tribunale qui impugnata, invece, è quella che ha rigettato l’istanza di riesame avanzata dall’indagato e che ha confermato la parte della decisione del G.i.p. che accoglieva la richiesta di sequestro preventivo inoltrata dal PM.

Da ciò discende che non sono riferibili all’odierno esame i motivi sopra sintetizzati ai §§ 3.2, 3.3., 3.5., 3.6. in quanto riferiti alla (diversa) ordinanza del Tribunale che ha accolto l’appello del PM, per come si evince dal contenuto delle censure, principalmente riferite alla configurabilità del delitto di appropriazione indebita quale reato presupposto, ossia un tema affatto estraneo al provvedimento qui impugnato e oggi in esame, confermativo dell’ordinanza del G.i.p. che aveva escluso la configurabilità di condotte di indebita appropriazione. Tale mancanza di correlazione emerge in tutta la sua evidenza con riguardo ai motivi sintetizzati ai §§ 3.2. e 3.6., visto che il primo è specificamente intitolato alla non configurabilità dell’appropriazione indebita come reato presupposto e il secondo si duole della mancata considerazione delle deduzioni difensive esposte in sede di ‘appello cautelare’ e, dunque, necessariamente in relazione alla diversa ‘ordinanza pronunciata all’esito dell’impugnazione del PM.

Con specifico riguardo ai § 3.3., 3.4. e 3.5. si registra una promiscuità dei motivi, in quanto indistintamente rivolti all’intera vicenda, ma con argomentazioni sempre intese a esporre rilievi critici all’ordinanza impugnata quanto all’estensione del sequestro oltre i limiti delineati dal G.i.p. e, quindi, orientate all’impugnazione dell’ordinanza emessa in accoglimento dell’appello del PM. Tale puntualizzazione viene confortata e confermata dall’intitolazione del motivo sunteggiato al § 3.8., che così recita: ‘Con particolare riferimento al provvedimento del G.i.p. del 4.06.2019 che aveva limitato l’oggetto del sequestro all’importo di euro 1.871.184,14 […] e al provvedimento del Tribunale del riesame dell’8.7.2019’.

Tale intitolazione chiarisce che il motivo sintetizzato al § 3.8. è riferito all’Ordinanza qui impugnata e, al contempo, lo differenzia dai precedenti motivi che, in assenza della specifica riferibilità all’Ordinanza oggetto della presente impugnazione, risultano privi della necessaria correlazione tra ricorso e provvedimento impugnato. Da quanto esposto consegue che non vengono esaminati i motivi indicati ai § 3.2., 3.3., 3.4., 3.5., 3.6. e 3.7., in quanto estranei ai temi attinenti al provvedimento del G.i.p. del 4.06.2019 -che aveva limitato l’oggetto del sequestro all’importo di euro 1.871.184,14- e al provvedimento del Tribunale del riesame dell’8.7.2019 che lo confermava rigettando la richiesta di riesame avanzata nell’interesse di E. B..

1.1.1. Il primo motivo di ricorso (sintetizzato al § 3.1.) è infondato.

Con esso non si dubita della possibilità astratta di configurare il reato di riciclaggio come reato a formazione progressiva ovvero a consumazione prolungata o con condotte frazionate, ma si sostiene che tale schema non può ritenersi configurato nel caso concreto, in ragione dell’autonomia dei singoli atti, della loro autonomia e della loro liceità. Si sostiene che -a tal fine- è necessario che ogni singolo atto compiuto successivamente alla prima consumazione deve essere conforme alla fattispecie incriminatrice astratta, contenendo in sé tutti gli elementi strutturali necessari alla configurazione tipica del reato. Si aggiunge che «la giurisprudenza è tassativa nel richiedere la reiterazione in ogni caso degli elementi costitutivi del reato, nonché la sua progettazione o esecuzione con modalità frammentarie e progressive nel medesimo contesto fattuale». Si eccepisce, quindi, la violazione del principio di legalità e di determinatezza della fattispecie nel caso in cui i singoli atti non abbiano tutti gli elementi costitutivi della fattispecie. L’assunto è infondato perché si scontra con le caratteristiche del riciclaggio che, come la stessa difesa ha sottolineato, è un reato a forma libera, con la conseguente impossibilità di una preventiva tipizzazione delle condotte che -in concreto- vengono strumentalizzate o possono essere strumentalizzate al perseguimento della finalità di occultare la provenienza delittuosa del denaro, dei beni o delle altre utilità. Proprio l’impossibilità di una preventiva tipizzazione delle condotte astrattamente orientabili verso lo scopo di occultare la provenienza delittuosa del denaro (o dei beni o delle altre utilità) impedisce l’accesso all’assunto difensivo secondo cui il reato di riciclaggio non può essere commesso con atti di disposizione leciti (come il ricorso al cd scudo fiscale ovvero il rispetto del regolamento) ovvero pubblici (come la donazione). In realtà, ciò che fa ricadere una condotta nel tipo del reato di riciclaggio non è la liceità o l’illiceità in sé dell’atto compiuto, quanto la direzione finalistica che a questo viene impressa dal soggetto agente, che lo usa per schermare la provenienza delittuosa del denaro (del bene o dell’utilità) oggetto dell’atto medesimo.

La forma libera del reato di riciclaggio, nei termini ora evidenziati, implica che quell’effetto di oscuramento – possa essere astrattamente realizzato cori singoli atti leciti, ma anche con una pluralità di distinti atti leciti, anche realizzati a distanza di tempo, purché siano ricondotti a unità dall’obiettivo comune cui essi sono finalizzati, ossia l’occultamento della provenienza delittuosa del denaro che costituisce il loro oggetto. Non è essenziale, inoltre, che l’agente individui e preveda fin dall’inizio del proprio progetto delittuoso i singoli atti che andrà a compiere per perseguire la finalità di occultamento, ben potendo accadere che i singoli atti siano individuati nel corso della sua attuazione, in base alle eventuali sopravvenienze ovvero in base allo sviluppo concreto degli eventi che rendono preferibile un atto piuttosto che un altro ovvero mettono a disposizione atti precedentemente non previsti dall’ordinamento giuridico, che possono rendere più efficace l’azione nella prospettiva di rendere definitiva e/o di consolidare l’acquisizione del provento del delitto. Risultano infondate, perciò, le obiezioni difensive che lamentano l’impossibilità di configurare il riciclaggio in ragione dell’autonomia delle singole condotte, della loro liceità e in quanto non previste e non prevedibili al momento del compimento della primigenia condotta di riciclaggio.

1.1.2. Il secondo e il terzo motivo di ricorso (sintetizzati, rispettivamente, ai §§ 3.4. e 3.6.) sono infondati. Tali motivi possono essere esaminati congiuntamente in quanto attengono entrambi alla collocazione temporale del reato, con specifico riferimento al tempo della sua commissione. Il tema è rilevante in quanto dalla sua soluzione discendono conseguenze in punto di prescrizione e di applicabilità della confisca così come disciplinata dall’art. 648-quater, cod.pen., in quanto norma sanzionatoria sfavorevole e, in quanto tale, soggetta alla disciplina al divieto di irretroattività.

Le censure difensive suppongono che il reato si sia consumato nel 2000, ossia al tempo in cui veniva realizzata la prima condotta di riciclaggio. Tale assunto è, però, infondato per le ragioni esposte al precedente paragrafo. Infatti, una volta stabilito che l’ipotesi concreta si è sviluppata lungo più atti compiuti nel tempo, si deve far riferimento all’insegnamento della giurisprudenza di legittimità, là dove chiarisce che «in tema di riciclaggio, ove più siano le condotte consumative del reato, attuate in un medesimo contesto fattuale e con riferimento ad un medesimo oggetto, si configura un unico reato a formazione progressiva, che viene a cessare con l’ultima delle operazioni poste in essere» (Sez. 2, Sentenza n. 29869 del 23/06/2016 ; Rv. 267856; Sez. 2, Sentenza n. 52645 del 20/11/2014, Rv. 261624).

In tale ipotesi, dunque, il delitto di riciclaggio, si atteggia a reato permanente (Sez. 2, Sentenza n. 29611 del 27/04/2016, Rv. 267511; Sez. 2, Sentenza n. 34511 del 29/04/2009) e, conseguentemente, deve considerarsi consumato con il compimento dell’ultimo della sequenza di atti incriminata.

Nel caso concreto, tale ultimo atto viene individuato nell’atto di donazione del 14 settembre 2015, con la duplice conseguenza che il reato non è prescritto e che esso deve considerarsi commesso nello spazio di vigenza temporale dell’art. 648, quater, cod.pen.

1.1.4. Il quarto motivo di ricorso (sintetizzato al § 3.8.) attiene alla quantificazione delle somme sequestrabili e implica esclusivamente valutazioni di mero fatto non consentite in sede di legittimità. Da qui la sua inammissibilità in questa sede.

2. Da quanto esposto consegue il rigetto del ricorso e la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

p.q.m.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Così deciso il 13 novembre 2019

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