SENTENZE

Processo tributario. Novità, giurisprudenza costituzionale e i diritti dell’uomo

Alcune sentenze della Corte Costituzionale (la n. 21513 /2006 e la n. 64/2008 riportate in allegato), ma anche la n. 348, la n.349 del 24 ottobre 2007 e la n. 80 del 11 marzo 2011, restano importanti capisaldi nel dibattito sulla costituzionalità delle commissioni tributarie e più in generale se sussistano ancora profili di frizione con i valori di indipendenza e imparzialità, come garantito con i parametri CEDU, per i processi tributari. Altrettanto importante resta in sottofondo alla questione quanto poi la giurisprudenza della Corte di Strasburgo continui a fornire argomento e ispirazione per la giurisprudenza Costituzionale interna.

La Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali o CEDU, è considerata il testo centrale in materia di protezione dei diritti fondamentali dell’uomo perché è l’unico dotato di un meccanismo giurisdizionale permanente che consenta ad ogni individuo di richiedere la tutela dei diritti ivi garantiti, attraverso il ricorso alla Corte Europea dei diritti dell’uomo, con sede a Strasburgo. In Italia la Legge 24 marzo 2001, n. 89 pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana – Serie Generale n. 78 del 3 aprile 2001 ed entrata in vigore il 18 aprile 2001 (cosiddetta Legge Pinto) ha introdotto il diritto a una “equa riparazione” per chi abbia visto violata la ragionevole durata del processo, così come sancito dall’art. 6 della CEDU. La sentenza n. 11984 del 2010, emessa dal Tribunale amministrativo regionale del Lazio, ha per la prima volta invocato l’effetto del Trattato di Lisbona per affermare l’effetto diretto della CEDU nell’ordinamento italiano. La Carta Costituzionale Europea e la Costituzione Italiana hanno riconosciuto il diritto di difesa anche prevedendo la possibilità di garantire l’assistenza di un difensore a chi non ha i mezzi per sostenerne il costo. Quindi occuparsi della compatibilità della organizzazione della giustizia tributaria con le previsioni della CEDU può apparire un esercizio di stile. La nota giurisprudenza della Corte ha, infatti, finora escluso proprio il giudizio tributario dalla applicazione della clausola del giusto processo di cui all’art. 6 CEDU.

slide_1La questione, tuttavia, è tutt’altro che priva di stimoli di interesse. In primo luogo, perché le regole del giusto processo sono comunque applicabili (anche) ai processi tributari in cui si discuta della applicazione di sanzioni. Poi, perché la disciplina di fonte CEDU, per quanto non direttamente applicabile al processo tributario, costituisce un modello evidentemente assai autorevole di “giusto processo”. Modello con il quale l’ordinamento italiano deve comunque confrontarsi.

Non solo, ma atteso che, ai sensi dell’art. 111 Cost., non sembrano consentite esclusioni dall’applicazione del principio per nessun tipo di giudizio e, dall’altro, tale principio sembra porsi nello stesso modo rispetto a tutti i giudizi, non pare fuor di luogo discutere che, nella misura in cui il concetto di giusto processo di fonte CEDU impatta sui processi non tributari italiani, attraverso il principio di uguaglianza e più generale con l’art. 111 Cost., o finirebbe per interessare anche il processo tributario. Il ragionamento porta alla formulazione di almeno due interrogativi.

Primo: ai sensi dell’art. 111 e 3 Cost. tutti i processi debbono essere ugualmente “giusti”.

Secondo: le norme CEDU si applicano (come parametri interposti di costituzionalità) ai processi non tributari.

Consequenzialmente si potrebbe ritenere che le norme CEDU si applicano indirettamente (per la via dell’art. 3 e 111 Cost. e come parametri di costituzionalità) anche al processo tributario i principi che si andranno ad esaminare avranno evidentemente diretta e immediata applicazione (sia pure quali norme interposte del giudizio di costituzionalità), ferma restando la giurisprudenza costituzionale italiana sul punto. La Corte ha il potere di controllare che gli Stati prevedano e applichino i tributi in modo conforme ai diritti fondamentali, ma, curiosamente, non quando manca la tutela in sede giurisdizionale in modo conforme a quanto precedentemente asserito per i diritti che devono assistere il processo. Che il diritto tributario sia il nocciolo duro delle prerogative statuali e che in esso rimanga prevalente la connotazione di relazione tra il singolo e la collettività si può anche condividere, ma che questa relazione debba essere necessariamente sbilanciata e, soprattutto, che da questa debba scaturire l’esclusione dell’applicazione delle norme sul giusto processo non convince del tutto.

Chi conosce la giurisprudenza costituzionale, anche fuori del campo tributario, sa che essa è una giurisprudenza realistica, a volte necessitata, con forti condizionamenti politici. Quella tributaria è forse ancora di più necessitata: dalle esigenze di gettito, dalle difficoltà dell’azione di governo e politica in generale. Così si spiegano non poche decisioni che hanno una preoccupazione preminentemente fiscale, come quella (134/1982) con la quale la Corte configura l’onere deducibile, ai fini dell’IRPEF, come una specie di “sconto” che lo Stato può accordare al contribuente attesa la situazione economica e finanziaria del Paese. La puntualizzazione dell’interesse fiscale come interesse pubblico è fatta in più decisioni della Corte (45/1963; 91/1963; 50/1965; 163/1974): l’interesse generale alla riscossione dei tributi è condizione di vita per la comunità, perché rende possibile il regolare funzionamento dei servizi statali. D’altronde l’interesse per la giurisprudenza costituzionale è interesse per uno dei punti più idonei per recuperare razionalità nel campo della tassazione. La soluzione in sede legislativa delle più grosse questioni giuridiche mediante la legislazione della casistica lascia come sola tutela quella davanti al giudice delle leggi. La giurisprudenza costituzionale tributaria sotto questo profilo è una giurisprudenza del tutto particolare, in quanto chiamata a far rispettare principi che normalmente il giudice di merito non sempre può richiamare.

L’influsso che la giurisprudenza della Corte Costituzionale ha avuto sul diritto tributario italiano può essere considerato da diversi punti di vista:

1) si può guardare al sistema tributario italiano dal punto di vista dei suoi tributi, come previsioni di determinati fatti economici imponibili, al fine di valutare la loro idoneità a realizzare, sia come tributi singoli, che come sistema, i principi costituzionali di capacità contributiva e di progressività, previsti dall’art. 53 Cost.;

2) si può guardare ai singoli tributi, come istituti giuridici, per vagliarne la razionalità, sia sotto il profilo del fondamento che della coerenza;

3) si può considerare infine il sistema tributario italiano dal punto di vista della disciplina formale, come insieme cioè di regole che non attengono alla definizione dei tributi bensì alla loro attuazione. Contenendo spesso tali regole delle deroghe al diritto comune, diventa interessante vagliarne la coerenza con i principi dell’ordinamento alla luce della Costituzione. Per quanto riguarda il processo tributario e la conservazione di quel giudice che sono le commissioni tributarie, la giurisprudenza della Corte è stata una giurisprudenza politicamente necessitata. Si spiega così che la Corte ha potuto prima dichiarare le commissioni organi giurisdizionali, poi organi amministrativi e infine è andata a cercare col lanternino gli argomenti impliciti nelle leggi di riforma per dimostrare che il Parlamento con l’autorevolezza propria della interpretazione autentica avesse risolto il dubbio di ermeneutica in senso favorevole alla giurisdizionalità (12/1957; 41/1957; 42/1957; 81/1958; 32/1963; 103/1964; 6/1969; 10/1969; 215/1976). A questo punto è necessario un passo indietro per esaminare le strutture preposte al giudizio tributario.

Le commissioni tributarie

Il processo tributario oggi è regolato dal D.lgs. 546 del 31 dicembre 1992. In precedenza, però, era disciplinato dal DPR 636 del 26 ottobre 1972. Le Commissioni Tributarie hanno una lunga storia, che risale agli albori dello Stato Unitario nel 1865, quando, con la legge del 20 marzo, furono aboliti i tribunali del contenzioso amministrativo e furono affidate al giudice ordinario le controversie tra i cittadini e la Pubblica Amministrazione, comprese quelle tributarie. Sulle controversie di diritto, quindi, giudicava il giudice ordinario. Le Commissioni istituite inizialmente con legge 14 luglio 1864 n.1836 come organi deputati all’accertamento dell’imposta di ricchezza mobile; ben presto, però, esse vennero trasformate in organi di contenzioso amministrativo e la loro competenza venne estesa anche ad altri tributi, limitatamente, però, alle questioni di “semplice estimazione” dei redditi, mentre, per le altre questioni, si andava dinanzi al giudice ordinario. Questo perché le liti d’imposta erano considerate liti su diritti soggettivi. Le imposte, infatti, secondo l’ideologia dominante, erano una limitazione dei diritti individuali di libertà e proprietà. Sulle liti di stima non vi era alcuna tutela giurisdizionale. La questione di stima non era considerata materia di giurisdizione, ma puramente amministrativa e quindi riservata alle commissioni tributarie, le quali erano organi amministrativi. Le commissioni per l’imposta di ricchezza mobile, sorte nel 1864 con funzioni di accertamento, videro col tempo accrescere la loro funzione contenziosa. Si formò così un sistema nel quale esistevano, contemporaneamente, la giurisdizione ordinaria e le commissioni amministrative del contenzioso: sistema che via via si è sviluppato nella direzione del rafforzamento delle commissioni e della “marginalizzazione” del giudice ordinario. Nel diritto tributario, le commissioni furono inquadrate tra gli organi amministrativi contenziosi o tra le giurisdizioni speciali amministrative e non nascono come organi giurisdizionali, bensì come organi amministrativi appartenenti all’amministrazione finanziaria, e la loro competenza era inizialmente limitata alle imposte dirette, mentre per le imposte indirette era possibile il ricorso amministrativo o l’azione dinanzi al giudice ordinario. Erano previste commissioni di primo grado (comunali), contro le cui decisioni era dato ricorso alle commissioni di secondo grado (provinciali). Nel 1865 fu istituita anche una commissione centrale, alla quale si poteva ricorrere contro le decisioni delle commissioni di secondo grado per motivi concernenti l’applicazione della legge. Il sistema fu in seguito più volte modificato. L’art. 12 della legge 28 maggio 1869, n. 3719, consentì l’azione dinanzi al giudice ordinario contro le decisioni della commissione centrale (salvo che per le questioni riguardanti la semplice estimazione dei redditi). Il regio decreto 24 agosto 1877, n. 4021, coordinò i vari interventi normativi prevedendo commissioni mandamentali, provinciali e centrale e confermando la possibilità di adire all’autorità giudiziaria contro le decisioni di quest’ultima. Durante il ventennio fascista fu attuata una riforma con il regio decreto-legge 7 agosto 1936, n. 1639, convertito in legge 7 giugno 1937, n. 1016, che ampliò la competenza delle commissioni facendovi rientrare, in parte, le imposte indirette sugli affari. Le commissioni mandamentali furono sostituite commissioni distrettuali, con la stessa competenza territoriale degli uffici delle imposte dirette. Fu data la possibilità al contribuente di adire alla Regia autorità giudiziaria italiana anche dopo la decisione definitiva della commissione distrettuale o provinciale. La nomina del presidente, dei vicepresidenti e degli altri membri delle commissioni fu demandata all’amministrazione finanziaria; per le commissioni distrettuali e provinciali spettava all’intendente di finanza d’intesa col prefetto sulla base delle designazioni di associazioni, ordini professionali ed enti locali. La Costituzione repubblicana del 1948 stabilì, all’art. 102, che “non possono essere istituiti giudici straordinari o giudici speciali”, prevedendo, peraltro, con la VI disposizione transitoria, che, entro cinque anni dall’entrata in vigore della Costituzione, si procedesse alla revisione degli organi speciali di giurisdizione in allora esistenti. La norma transitoria non trovò attuazione nel termine fissato e si affermò dalla dottrina e dalla giurisprudenza che il termine era meramente ordinatorio.

La Costituzione non prevedendo le commissioni tributarie innestò diversi problemi di costituzionalità che ne hanno interessato la storia dal 1948 in poi. La Corte Costituzionale attivò di conseguenza una linea volta a salvaguardare costantemente la loro sopravvivenza. Infatti, contemporaneamente all’istituzione della Corte Costituzionale, fu subito posta la questione della “difesa” delle commissioni e della loro compatibilità con le norme costituzionali. Prevalse la tesi secondo la quale la Costituzione avrebbe autorizzato la permanenza delle giurisdizioni preesistenti, vietando solamente l’istituzione di nuove giurisdizioni speciali. La giurisprudenza della Corte Costituzionale accolse questa idea, assicurando così la sopravvivenza delle commissioni. Il loro “diritto di esistere”, nella fase che va dal 1957 al 1969, era tutelato dalla giurisprudenza costituzionale che traeva la loro legittimazione costituzionale dall’essere giurisdizioni speciali preesistenti alla Costituzione, le quali però, avevano gravi vizi di incostituzionalità, come ad esempio, la mancanza di indipendenza, visto che i membri delle commissioni erano scelti dall’Amministrazione Finanziaria.

L’anno della prima sterzata fu il 1969, che vide il “declassamento” delle commissioni tributarie. La Corte Costituzionale fu chiamata a giudicare sulla questione del difetto di indipendenza dei componenti delle commissioni, indipendenza richiesta dall’art. 108 Cost. Per evitare di dichiarare incostituzionale la disciplina delle commissioni tributarie, per violazione dell’art. 108 Cost. qualificò le commissioni come organi amministrativi, sollecitando nel contempo il legislatore ad intervenire per risolvere la situazione.

In questo modo si svincolò anche da tutte le ordinanze che provenivano dalle commissioni, poiché essendo organi amministrativi, esse non erano più legittimate a sollevare questioni di costituzionalità. Questo però implicava che l’unica forma di tutela giurisdizionale in campo tributario era quella fornita dal giudice ordinario e che le questioni di stima semplice erano sottratte ad ogni forma di tutela giurisdizionale. Contemporaneamente, la Cassazione continuava ad affermare la giurisdizionalità delle commissioni. Così, in quell’epoca, le commissioni erano organi amministrativi per la Corte costituzionale e organi giurisdizionali per la Cassazione . Questa era la situazione quando ci fu la riforma tributaria degli anni ’70. Il legislatore intervenne, imponendo con la legge di delega n. 825/1971, all’art. 10, la revisione della composizione, del funzionamento e delle competenze delle commissioni tributarie, in attuazione della VI disposizione transitoria e finale della Costituzione, anche al fine di assicurarne autonomia, indipendenza e garantire l’imparzialità nell’applicazione della legge. Non potendo, a seguito di tale riforma, non porsi il problema della legittimità costituzionale di commissioni giurisdizionali che prendevano il posto di organi qualificati come amministrativi, sia in relazione all’art. 102, secondo comma, Cost., che vieta l’istituzione di nuovi giudici speciali, consentendo soltanto la creazione presso gli organi giudiziari ordinari di “sezioni specializzate per determinate materie”, sia con riguardo alla VI disposizione transitoria e finale, Cost., che pone il termine di cinque anni dall’entrata in vigore della Costituzione per effettuare la revisione degli organi di giurisdizione speciale preesistenti o per disporne la soppressione, la Corte costituzionale dovette cambiare il proprio orientamento, qualificando retroattivamente le commissioni preesistenti come organi giurisdizionali. Appunto per questo, le commissioni che furono riformate nel 1972 non potevano essere considerate un nuovo giudice (vietato dall’art. 102 Cost.). Anche nella riforma del 1991-1992, con l’entrata in vigore dei decreti legislativi n. 545 e n. 546, la questione fu riproposta dalla Commissione tributaria di Lecce, la quale sosteneva che la nuova disciplina fosse in contrasto con la VI disposizione transitoria della Costituzione, poiché il potere di revisione già esercitato con la legge di delega n. 825/1971 e con il d.p.r. n. 636 del 1972, non poteva essere suscettibile di un secondo utilizzo a distanza di oltre quarant’anni dall’entrata in vigore della Costituzione: la VI disposizione transitoria della Costituzione ammette la revisione, ma non la “revisione di una normativa già revisionata” . E’ stato considerato in contrasto con la Costituzione soprattutto l’estensione della giurisdizione delle commissioni tributarie ai tributi di ogni genere e specie (con la finanziaria per il 2002): all’ampliamento della competenza delle commissioni tributarie su ulteriori controversie, segue il carattere nuovo dell’organo chiamato a giudicare e quindi l’illegittimità delle norme che permettono questa estensione. La Corte costituzionale dichiarò manifestamente infondate le questioni di legittimità sollevate e giudicò le commissioni come giudice preesistente e non come nuovo giudice, poiché non era stato “snaturato né il sistema di estrazione dei giudici, né la giurisdizione nell’ambito delle controversie tributarie, anche se riconfigurata mediante una soluzione unitaria ed aggiornata e con l’adeguamento delle norme del processo tributario a quelle del processo civile”. Essa chiarì anche che il legislatore ordinario non è vincolato a mantenere immutato l’assetto delle Commissioni tributarie una volta revisionate, potendo bensì trasformare o riordinare i giudici speciali preesistenti o “ristrutturarli nuovamente anche nel funzionamento e nella procedura”. L’utilizzo nella Costituzione dell’espressione “revisione”, proprio per la sua ampiezza, consente l’introduzione di norme che possano adeguare la strutturazione delle giurisdizioni speciali sia ai principi costituzionali, sia alle esigenze di funzionalità ed efficienza, con il duplice limite di non snaturare le materie attribuite alla loro competenza e di assicurare la conformità alla Costituzione. La Corte costituzionale, quindi, escluse che tale riforma, ampliando la giurisdizione delle commissioni tributarie e modificando la disciplina del processo, avesse istituito un “nuovo” giudice speciale, violando l’art. 102 e la VI disp. trans. della Costituzione: la novità della fonte legislativa non può essere confusa con quella dell’organo giudicante, la quale, per configurarsi, presuppone un’entità giuridica, completamente diversa da quella preesistente per struttura, organizzazione e funzioni attribuite. Il divieto di istituire nuovi giudici speciali non riguarda organi già esistenti che vengono riordinati senza che vengano modificati i loro caratteri fondamentali. Secondo la Corte costituzionale, il divieto di istituire nuovi giudici speciali sancito dall’art. 102, 2° comma, Cost., ha consentito l’allargamento dell’ambito della giurisdizione delle commissioni tributarie, nel limite della materia tributaria. Questo ha permesso al legislatore di estendere a nuovi tributi la giurisdizione delle commissioni, fino alla sua generalizzazione. Infatti, con l’art. 12, L. n. 488/2001, ha modificato l’art. 2, D.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, estendendo la giurisdizione delle commissioni ad ogni forma di tributo, modifica che è stata attuata presupponendo di non violare l’art. 102 Cost., poiché si tratta di una semplice revisione della disciplina di una giurisdizione già esistente. La modifica del 2001, infatti, adottando una formula di portata generale, non contrasta il principio costituzionale dato che le nuove attribuzioni non eccedono il limite della materia tributaria. La giurisdizione delle Commissioni, dapprima limitata ad atti specificamente indicati, venne successivamente estesa, con due interventi legislativi del 2001 (legge n.448/01) e del 2005 (legge 248/05), alla generalità delle materie tributarie. L’art. 2 del D.L.vo 546/91, nella sua attuale configurazione, stabilisce che “appartengono alla giurisdizione tributaria le controversie aventi ad oggetto i tributi di ogni genere e specie comunque denominati, compresi quelli regionali, provinciali e comunali,…”. Restano escluse dalla giurisdizione tributaria le controversie riguardanti gli atti di esecuzione forzata tributaria successivi alla notifica della cartella di pagamento e dell’avviso di mora, tradizionalmente assegnati alla giurisdizione ordinaria. L’amplissima dizione della legge (“controversie aventi ad oggetto tributi di ogni genere e specie, comunque denominati”) e l’attribuzione di ulteriori specifiche controversie hanno suscitato notevoli perplessità in parecchi studiosi, i quali hanno temuto che, così facendo, il legislatore volesse assegnare alle Commissioni Tributarie una giurisdizione generale, se non addirittura esclusiva, in determinate materie comunque aventi attinenza con profili tributari o di entrate patrimoniali dello Stato o di enti pubblici territoriali: e ciò in evidente contrasto con il disposto costituzionale che vieta l’istituzione di giudici speciali e consente solo il mantenimento di quelli esistenti nelle materie originariamente assegnate. Si sosteneva, inoltre, che avendo il legislatore già esaurito, con la legge delega 825/71, il potere di revisione degli organi giurisdizionali speciali preesistenti alla Costituzione, come previsto dalla VI disposizione transitoria della Costituzione, non potesse ora nuovamente riorganizzare le già revisionate Commissioni se non a pena di creare un nuovo giudice speciale tributario. La questione è stata ripetutamente portata all’attenzione della Corte Costituzionale, la quale, già con la fondamentale ordinanza n.144 del 1998, ebbe a precisare che “la modifica mediante ampliamento delle competenze delle commissioni tributarie non vale a far ritenere nuovo il giudice tributario in modo tale da ravvisarsi un diverso giudice speciale, in quanto è rimasto non snaturato né il sistema di estrazione dei giudici (anzi migliorato dal punto di vista dei requisiti di idoneità e di qualificazione professionale e delle incompatibilità), né la giurisdizione nell’ambito delle controversie tributarie, anche se riconfigurata mediante una soluzione unitaria ed aggiornata con la previsione di imposte locali in aggiunta a quelle statali e con l’adeguamento delle norme del processo tributario a quelle del processo civile”. Tale orientamento, condiviso anche dalla Corte di Cassazione, è stato poi confermato da successive sentenze della Corte Costituzionale (n.73/2005, n.334/2006, n.64/2008, n.130/2008), con alcune importanti precisazioni. La Corte ha chiarito che la giurisdizione del giudice tributario “deve ritenersi imprescindibilmente collegata alla natura tributaria del rapporto”, di tal che l’attribuzione a siffatto giudice di controversie non aventi natura tributaria comporta la violazione del divieto costituzionale di istituire giudici speciali. “Tale illegittima attribuzione può derivare, direttamente, da una espressa disposizione legislativa che ampli la giurisdizione tributaria a materie non tributarie ovvero, indirettamente, dall’erronea qualificazione di tributaria data dal legislatore o dall’interprete ad una particolare materia, come avviene, ad esempio, allorché si riconducano indebitamente alla materia tributaria prestazioni patrimoniali imposte di natura non tributaria”.

E per valutare se una controversia devoluta ai giudici tributari abbia o no effettiva natura tributaria, non si può prescindere dai criteri elaborati dalla Corte per qualificare come tributarie le entrate erariali: “criteri che, indipendentemente dal nomen juris utilizzato dalla normativa che disciplina tali entrate, consistono nella doverosità della prestazione e nel collegamento di questa alla pubblica spesa, con riferimento ad un presupposto economicamente rilevante”. Il criterio indicato dalla Corte è, dunque, quello empirico, del caso per caso, ma ciò comporta dei grossi problemi per l’interprete, ed anche per il pratico, nell’individuare, di volta in volta, la natura tributaria o meno del prelievo economico. Il problema sarebbe superato se vi fosse l’auspicata garanzia costituzionale della giurisdizione tributaria, con attribuzione specifica alla stessa giurisdizione di determinate materie: i tempi sembrerebbero essere ormai maturi per una tale innovazione.

Le commissioni tributarie sono suddivise in un numero variabile di sezioni. Possono anche essere istituite sezioni staccate delle commissioni tributarie regionali, con sede in comuni diversi dal capoluogo di regione (aventi i requisiti di cui all’art. 1, comma 1-bis, del d.lgs. 545/1992). A ciascuna commissione tributaria è preposto un presidente che presiede anche la prima sezione. A ciascuna sezione sono assegnati un presidente, un vicepresidente e non meno di quattro giudici tributari. Il collegio giudicante è però costituito da tre membri, tra cui il presidente o il vicepresidente di sezione, che lo presiede, sicché nell’ambito di una sezione possono essere costituiti due collegi.

Le commissioni tributarie sono supportate da uffici di segreteria, dipendenti dal Ministero dell’Economia e delle Finanze, che svolgono attività preparatorie dell’udienza e di assistenza ai collegi giudicanti, secondo le disposizioni del codice di procedura civile concernenti il cancelliere, nonché attività amministrative proprie. Presso ciascuna commissione tributaria regionale opera, inoltre, un ufficio del massimario, che provvede a rilevare, classificare e ordinare in massime le decisioni della stessa e delle commissioni tributarie provinciali aventi sede nella sua circoscrizione.

A seguito del riordino attuato con decreto legislativo 31 dicembre 1992 n. 545, le commissioni tributarie si articolano in:

  • commissioni tributarie provinciali, aventi sede in ciascun capoluogo di ogni provincia, che giudicano in primo grado;
  • commissioni tributarie regionali, aventi sede in ciascun capoluogo di regione, che giudicano definitivamente in appello, salvo il ricorso alla Corte Suprema di Cassazione per questioni di legittimità.

Nel Trentino-Alto Adige al posto delle commissioni provinciali e della commissione regionale vi sono una commissione tributaria di primo grado e una commissione tributaria di secondo grado in ciascuna delle province autonome di Trento e Bolzano.

Prima della riforma del 1992, il previgente D.P.R. 26 ottobre 1972 n. 636 prevedeva anche una commissione tributaria centrale con sede in Roma, presso il quale era previsto un terzo grado di giudizio. Il d.lgs. 545/1992 ha soppresso detta commissione, ma l’ha mantenuta in funzione per i giudizi pendenti fino al 1º gennaio 1996.

A seguito della legge 24 dicembre 2007, n. 244 (legge finanziaria 2008), la commissione tributaria centrale è stata suddivisa in 21 sezioni, con sede in tutti i capoluoghi di regione o provincia autonoma, alle quali sono stati riassegnati i procedimenti pendenti per accelerare lo smaltimento del pesante arretrato. I componenti delle commissioni tributarie sono nominati con decreto del Presidente della Repubblica, su proposta del Ministro dell’economia e delle finanze, previa deliberazione del Consiglio di presidenza della giustizia tributaria, organo di autogoverno introdotto dal d.lgs. 545/1992 in analogia al Consiglio Superiore della Magistratura. La nomina avviene secondo l’ordine di collocazione in elenchi formati per ogni commissione tributaria, nei quali sono inseriti coloro che hanno i requisiti per ottenere l’incarico ed hanno comunicato la loro disponibilità; tale ordine di collocazione è stabilito in base ai titoli posseduti (si tratta, quindi, di un concorso per soli titoli). I presidenti delle commissioni tributarie e delle loro sezioni sono scelti tra i magistrati ordinari, amministrativi o militari, in servizio o a riposo. I vicepresidenti tra gli stessi magistrati o tra i componenti “non togati” che hanno esercitato per almeno cinque anni (per le commissioni provinciali) o dieci anni (per le commissioni regionali) le funzioni di giudice tributario, se laureati in giurisprudenza o in economia e commercio.

Gli altri componenti, tra gli appartenenti alle categorie indicate negli att. 4 (per le commissioni provinciali) e 5 (per le commissioni regionali) del d.lgs. 545/1992, comprendenti, tra gli altri, oltre ai predetti magistrati, funzionari civili dello stato in servizio o a riposo, ufficiali della Guardia di finanza a riposo, coloro che possiedono determinate abilitazioni professionali (notai, avvocati, dottori commercialisti, ecc.) e, limitatamente alle commissioni provinciali, coloro che hanno conseguito da almeno due anni la laurea in giurisprudenza o economia e commercio.

I componenti delle commissioni tributarie cessano dall’incarico al compimento del 75º anno di età, ma non possono essere assegnati alla stessa sezione per più di cinque anni consecutivi. La nomina non costituisce rapporto di pubblico impiego (si tratta, in altri termini, di giudici onorari), ma detti componenti percepiscono un compenso fisso mensile e un compenso aggiuntivo per ogni ricorso deciso. Per delimitare la giurisdizione delle commissioni tributarie, è intervenuta la Corte Costituzionale con due importanti sentenze. Una di queste è la n. 64 del 14 marzo 2008 in tema di COSAP (canone per l’occupazione di spazi ed aree pubbliche), con la quale ha spiegato che attribuire alle commissioni tributarie controversie non aventi natura tributaria comporta la violazione dell’art. 102 della Costituzione, il quale sancisce il divieto di istituire nuovi giudici speciali. Ci deve essere quindi un collegamento imprescindibile tra la giurisdizione tributaria e la natura tributaria del rapporto. Pertanto, per comprendere se una controversia rientra o meno nella giurisdizione del giudice tributario, occorre analizzare se essa abbia o meno natura tributaria. Il legislatore non ha stabilito espressamente quale sia il concetto di tributo ed è per questo che la Corte Costituzionale con questa sentenza ha offerto riferimenti concreti, fissando dei criteri che prescindono dal nomen iuris che viene attribuito all’entrata dalla normativa che la disciplina, ma “consistono nella doverosità della prestazione e nel collegamento di questa alla spesa pubblica con riferimento ad un presupposto economicamente rilevante”.

Peraltro risulta nell’osservazione di alcune materie sulle quali dottrina e giurisprudenza si sono maggiormente dibattute a seguito della modifica operata all’art. 2, d.lgs. n. 546/1992, dall’art. 12, comma 2, L. 28 dicembre 2001, n. 448, ovvero i diritti aeroportuali, la tariffa di igiene ambientale e i contributi ai consorzi di bonifica, al fine di comprendere se avverso le controversie relative a dette materie quanto sia legittimo proporre ricorso dinanzi al giudice tributario.

Prospettive e sviluppi per un giusto processo tributario europeo

Così delineato, nelle sue grandi linee, l’assetto ordinamentale della magistratura tributaria, occorre fare qualche breve conclusione sulla sua rispondenza ai principi del giusto processo, quale delineati nell’art. 111 Costituzione. Com’è noto, l’art. 111 Cost., modificato dalla legge costituzionale 23.11.1999, n. 2, dispone, al comma 1, che “la giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge” ed al comma 2, che “ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti ad un giudice terzo ed imparziale. La legge ne assicura la ragionevole durata”. La norma risulta dal recepimento in Costituzione dei principi di cui all’art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), sottoscritta a Roma il 4.11.1950, ma comunque riassume e meglio definisce concetti che erano già presenti nella Costituzione italiana e nell’interpretazione giurisprudenziale delle regole di ogni modello di processo, compreso quello tributario. Tralasciando gli aspetti del contraddittorio e della parità delle parti nel processo tributario secondo la giurisprudenza della Corte Edu (sentenza Ferrazzini, 12.7.1982) e della Corte di Cassazione (sentenza 21653/2005), il principio della responsabilità dello Stato per violazione del canone della ragionevole durata del processo non si applica al processo tributario (salvo che per le sanzioni tributarie aventi carattere particolarmente afflittivo, assimilabili a quelle penali), ci si deve soffermare, in particolare, ancora sul quesito iniziale e cioè se l’attuale configurazione della figura del giudice tributario rispetti il principio della “terzietà ed imparzialità” richiesti dal dettato costituzionale. I due concetti sono strettamente legati tra loro, anche se concettualmente distinti. La terzietà attiene al profilo organizzativo ed all’assenza di legami, vincoli o condizionamenti del giudice nei confronti di una delle parti; l’imparzialità attiene al modo con cui egli esercita o è messo in grado di esercitare le sue funzioni.

A rimedio di possibili inquinamenti delle caratteristiche di terzietà ed imparzialità del singolo giudice tributario, sono già previsti, sul modello del processo civile, i rimedi dell’astensione e ricusazione del giudice. Ma, al di là delle situazioni singole, occorre che soprattutto istituzionalmente sia assicurata l’indipendenza del giudice: non è infatti sufficiente che il giudice sia imparziale, ma occorre anche che all’esterno appaia tale. Il principio di terzietà corrisponde, nel vocabolario corrente ed anche in quello legislativo e giurisprudenziale, al requisito di indipendenza del giudice. La nostra Costituzione, già prima del recepimento nell’art. 111 delle regole della CEDU, stabiliva che “i giudici sono soggetti soltanto alla legge” (art. 101) e che “la legge assicura l’indipendenza dei giudici delle giurisdizioni speciali” (art. 108). Il Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa, con raccomandazione agli Stati membri sui giudici del 17 novembre 2010, ha sottolineato che “l’indipendenza dei giudici non è una prerogativa o un privilegio accordati nel loro interesse personale, ma nell’interesse dello Stato di diritto e di ogni persona che richiede ed attende una giustizia imparziale. L’indipendenza dei giudici deve essere considerata come garanzia di libertà e di applicazione imparziale del diritto. L’imparzialità e l’indipendenza dei giudici sono essenziali per garantire la parità delle parti dinanzi ai Tribunali”.

I principi di terzietà, o indipendenza, e di imparzialità si legano strettamente all’altro requisito, immanente nella figura del giudice, della competenza tecnico-giuridica. Solo un giudice preparato e competente può essere realmente imparziale ed è effettivamente indipendente nei confronti delle parti processuali e degli stessi componenti del Collegio decidente nella camera di consiglio. Ai giudici tributari si richiedono conoscenze sempre più approfondite, non solo del diritto tributario, ma anche, per le inevitabili implicazioni e ricadute nel processo tributario, del diritto civile, commerciale, amministrativo, processuale, comunitario, ecc…

Come ricordato dal Presidente della Repubblica (messaggio per la Giornata Celebrativa della Giustizia Tributaria 2010), “i processi di crescita dell’economia in Italia, come altrove, rendono particolarmente complesso il rapporto tra fisco, cittadini e soggetti economici, richiedendo al giudice tributario competenze e sensibilità sempre più affinate”. La competenza tecnico-giuridica può essere assicurata soltanto se l’organismo magistratuale è nel suo complesso, in tutto o almeno in parte, di estrazione professionale, assunto in ruolo mediante un pubblico concorso che garantisca la serietà della preparazione per un compito estremamente complesso e delicato. Il buon giudice, inoltre, si forma anche con l’esperienza maturata sul campo, con un’attività di studio e ricerca assidua e continuata negli anni, oggi incompatibile con il limitato impegno che il giudice tributario onorario ed a tempo parziale riesce, pur con le apprezzabili eccezioni di taluni, a dedicare all’esame degli atti processuali, alla celebrazione delle udienze ed alla redazione delle sentenze.

Secondo i dati statistici contenuti nel Monitoraggio Mef dell’anno 2013 sul contenzioso tributario, il giudice tributario ha partecipato, nella media, a 22,8 udienze nell’anno ed ha avuto in assegnazione, nello stesso arco di tempo, 124,3 ricorsi. La Corte Edu (30.11.2010, Henryk e Ryszard) e la stessa Corte costituzionale italiana (sentenza 103/1964) hanno sempre negato che la nomina dei giudici, effettuata non in base ad un pubblico concorso, ma riservata all’autorità amministrativa sulla base di una generico profilo culturale, potesse pregiudicare il requisito dell’indipendenza del giudice, dovendosi piuttosto aver riguardo al modo concreto di esercizio della giurisdizione, fondato su una particolare specializzazione del giudice. Tale concetto va ora, però, rimeditato alla luce del novellato art. 111 della Costituzione, perché nella figura del giudice tributario la specialità della materia trattata, che, secondo la Corte Costituzionale, è l’unica giustificazione per la sopravvivenza di un giudice speciale accanto a quello ordinario, richiede inevitabilmente una particolare competenza tecnico-giuridica, la cui assenza finisce per inficiare la validità del richiamato presupposto di permanenza.

Solo un giudice di ruolo ed a tempo pieno potrebbe assicurare il rispetto dei principi su cui è fondato il giusto processo: è questa la conclusione cui da tempo è pervenuta la dottrina più qualificata. Un’ulteriore lesione del requisito di indipendenza del giudice tributario va ravvisata nella circostanza che tutto l’apparato amministrativo di segreteria delle Commissioni, quale momento organizzativo della funzione giudicante, è sottratto alle direttive ed alla vigilanza del Presidente della Commissione Tributaria e dei Presidenti di sezione ed è, invece, riservato al Dipartimento delle Finanze del M.E.F. cioè ad un soggetto che, attraverso il controllo sulle agenzie fiscali, ha comunque un interesse, sia pure non immediato, all’esito del processo.

Il rispetto dei canoni costituzionali del giusto processo richiederebbe, invece, che la struttura servente del processo tributario, funzionale all’esercizio delle funzioni giurisdizionali, venisse gestita, come per il processo ordinario, dal Ministero della Giustizia e che i Capi degli Uffici del contenzioso tributario avessero effettivi poteri di vigilanza ed intervento sulla struttura di segreteria per assicurare l’efficienza del servizio. Torna in proposito attuale il monito a suo tempo lanciato dalla Corte Costituzionale: “nell’ambito del principio del giusto processo di cui questa Corte, in numerose occasioni, ha definito i profili sulla base delle disposizioni costituzionali che attengono alla disciplina della giurisdizione, posto centrale occupa l’imparzialità-neutralità del giudice, in carenza del quale tutte le altre regole e garanzie processuali perderebbero di concreto significato” (Sentenza 306/1997).

contenzioso tributario

 

Contenzioso tributario: le novità del D.Lgs. n. 156/2015

Dopo tanti dibattiti e discussioni sulla possibile riforma del processo tributario e sul ruolo del giudice tributario, qualcosa di concreto si sta muovendo negli ultimi tempi. Il Consiglio dei Ministri del 26 giugno 2015 ha approvato il decreto legislativo di parziale riforma del processo tributario alla luce dell’art. 10 della legge delega n. 23 dell’11/03/2014 (in G.U. n. 59 del 12/03/2014).  A decorrere dal primo gennaio 2016 inizierà la progressiva introduzione delle novità introdotte. Fanno eccezione sia quelle attinenti all’esecutività delle sentenze, che troveranno invece applicazione dal  primo giugno 2016, nonché quella relativa al pagamento delle somme dovute fino a 20.000 euro in caso di giudizio di ottemperanza.

Tra le più rilevanti modifiche che il decreto legislativo apporta quelle inerti il contenzioso tributario. Innanzitutto, a differenza di quanto attualmente disposto dall’articolo 4, D.Lgs. n. 546/1992, la competenza del giudice tributario va sempre individuata con riferimento alla sede dell’ente impositore o dell’agente della riscossione. In merito, poi, alle parti del giudizio e alla capacità di stare in giudizio, il legislatore individua le parti del processo tributario. Viene inoltre estesa la possibilità di essere assistiti con i propri funzionari, senza dover per forza fare riferimento ad un difensore abilitato, a tutti gli enti impositori, in particolare all’Agente della riscossione e ai cosiddetti “concessionari locali”. Il legislatore convalida la disposizione generale dell’obbligatorietà dell’assistenza tecnica nelle controversie tributarie, ad eccezione dei casi di contenzioso di modico valore. Si alza, invece, da 2582,28 a 3.000 euro la soglia al di sotto della quale il contribuente può stare in giudizio personalmente. Il decreto, per i soggetti abilitati all’assistenza tecnica, introduce nuovi criteri di distinzione per materia, differenziando tra: coloro che possono assistere i contribuenti nella generalità delle controversie (avvocati); quelli abilitati alla difesa per controversie che hanno ad oggetto materie specifiche (periti agrari, ingegneri); e infine coloro che possono assistere soltanto alcune categorie di contribuenti (dipendenti del CAF, dipendenti di associazioni di categoria rappresentate nel CNEL). Per le spese di giudizio si conferma che la parte soccombente è condannata a rimborsare le spese del giudizio liquidate con la sentenza. Si introduce, poi, il principio secondo cui le spese di giudizio possono essere compensate, totalmente o parzialmente, dalla Commissione tributaria solo se vi sia soccombenza reciproca o se sussistano gravi ed eccezionali motivazioni che devono essere comunque giustificate dal giudice. Inoltre,  le spese di giudizio arrivano ad includere, oltre al contributo unificato, gli onorari e i diritti del difensore, le spese generali e gli esborsi sostenuti, oltre al contributo previdenziale e IVA, se dovuti. In base al decreto, nella liquidazione delle spese a favore dell’ente impositore e dell’Agente della riscossione, se assistiti da propri funzionari, vengono applicate le disposizioni per la liquidazione del compenso che spetta agli avvocati, con una riduzione pari al 20% dell’importo globalmente previsto. Le spese di giudizio subiscono, invece, una maggiorazione del 50% nelle controversie proposte contro atti reclamabili. Nel caso in cui, poi, una parte rifiuti, senza giustificata ragione, la proposta conciliativa, è chiamata a sostenere le spese processuali qualora il riconoscimento delle sue pretese risulti inferiore al contenuto della proposta conciliativa.

Le spese si considerano compensate se è intervenuta la conciliazione. Nuove disposizioni sono introdotte per incrementare il ricorso alla posta elettronica certificata per effettuare le comunicazioni e le notificazioni nel processo tributario. L’indirizzo di posta elettronica del difensore o delle parti va indicato nel ricorso o nel primo atto difensivo. In caso di mancata indicazione ovvero di mancata consegna del messaggio di posta per cause imputabili al destinatario, le comunicazioni vengono esclusivamente eseguite attraverso deposito in segreteria della Commissione tributaria (anche in via telematica). Riguardo agli istituti deflativi del contenzioso, il legislatore allarga l’applicabilità del reclamo, oltre alle controversie che coinvolgono l’Agenzia delle Entrate, a tutte le controversie, indipendentemente dall’ente impositore. Il ricorso non è procedibile fino a 90 giorni dalla rispettiva notifica, termine entro il quale la mediazione va conclusa. Trascorsi i 90 giorni, ne decorrono altri 30 per la costituzione in giudizio da parte del contribuente. Per la mediazione si stabilisce che, se questa ha ad oggetto un atto impositivo o di riscossione, si perfeziona con il versamento, entro 20 giorni dalla firma dell’accordo, delle somme dovute o della prima rata. Se, invece, la stessa ha ad oggetto la restituzione di somme, si perfeziona con la sottoscrizione dell’accordo in cui sono riportate le somme dovute e con i termini e le modalità di pagamento. L’accordo rappresenta il titolo per il pagamento delle somme che sono dovute al contribuente. La nuova formulazione dell’art. 18, comma 3, stabilisce che il ricorso deve contenere la firma del difensore, cancellando l’attuale previsione per cui la firma deve essere apposta sia sull’originale che sulla copia, oltre alla categoria professionale a cui lo stesso appartiene e il rispettivo indirizzo PEC. Tra le altre novità, viene totalmente rivista la disciplina della conciliazione giudiziale, introducendone due tipologie: conciliazione fuori dall’udienza (art. 48) e conciliazione in udienza (art. 49-bis).

Le sanzioni si continuano ad applicare nella misura del 40% del minimo edittale in caso di perfezionamento della conciliazione nel corso del primo grado di giudizio, mentre nella misura del 50% del minimo edittale in caso di perfezionamento nel corso del secondo grado di giudizio. Sono impugnabili direttamente in Cassazione le sentenze pronunciate in grado d’appello o in unico grado dalle Commissioni tributarie. Il decreto dispone l’immediata esecutività delle sentenze di condanna in favore del contribuente e di quelle che sono emesse avverso gli atti relativi alle operazioni catastali, il cui pagamento può essere subordinato dal giudice alla prestazione di valida garanzia se l’importo supera i 10.000 euro e se si accerti in sentenza la solvibilità del contribuente. Se non viene effettuato il rimborso degli importi a seguito di sentenza favorevole al contribuente, quest’ultimo ha diritto ad agire in ottemperanza. L’ottemperanza può essere richiesta sia alla CTP sia alla CTR, a seconda della sentenza oggetto del giudizio.

foto conclusione

Conclusioni

In conclusione, appare sempre più necessario, nel contesto di un rapporto improntato ai doveri di lealtà e correttezza e ispirato alla tax compliance, che l’affidamento legittimo venga tutelata in modo pieno. Il diritto tributario italiano deve imboccare la strada del giusto contemperamento fra l’interesse fiscale, come interesse della comunità, e il diritto del contribuente ad essere tassato secondo la legge. Quello fiscale è un dovere di solidarietà civile. Il rapporto tributario deve essere pertanto un rapporto di buona fede, secondo un principio che in altri Paesi è stato codificato e che anche in Italia viene valorizzato dalla Cassazione in termini di diritto costituzionale (Cass., sez. trib., 21513/2006). La legalità dell’imposizione richiede non solo la disciplina dei rapporti, ma l’organizzazione necessaria per attuarla, sia dell’amministrazione che del giudice adeguato. Senza una adeguata tutela giurisdizionale tutta l’imposizione prevista dalle leggi tributarie sarebbe costituzionalmente illegittima. Anche nella materia tributaria la Corte, a volte non ha potuto far altro che preservare “certe condizioni minime” di giustizia, ma a differenza di quanto ha prodotto per gli altri campi del diritto, non ha supportato, nella vita collettiva, lo spirito e la logica che si rifanno ai grandi presupposti del costituzionalismo.

Ciò è dovuto al fatto che gli ideali del costituzionalismo tributario moderno non sono comuni ai diversi ordinamenti come gli altri principi, per la stretta connessione che vi è fra tali ideali e le caratteristiche politiche, e io direi ancora di più con il costume civile dei singoli Stati.

Di conseguenza la Corte, pur dando una interpretazione in generale dell’interesse fiscale come interesse della comunità, una definizione quindi costituzionalmente corretta di tale interesse, nelle singole decisioni ne ha dato una versione più antica, che in pratica coincide con la vecchia “ragion di Stato”.

A cura di Redazione

Bibliografia di riferimento

  1. ALTIERI L’applicazione del diritto comunitario nella giurisprudenza della Sezione tributaria della Corte di Cassazione, in Fisconline
  2. De Mita, I cinquant’anni della Corte Costituzionale. Diritto Tributario, Roma 2006 a cura di L. Perrone e C. Berliri.
  3. GALLO , L’applicazione d’ufficio del diritto comunitario da parte del giudice nazionale nel processo tributario e nel giudizio di cassazione, in L’applicazione del diritto comunitario nella giurisprudenza della Sezione tributaria della Corte di Cassazione, cap. II, in Fisconline.
  4. NATOLI, Contenzioso tributario e finanza pubblica, in La giustizia tributaria italiana e la sua Commissione centrale – Studi per il centoquarantennio, a cura di G. Paleologo, Giuffrè, Milano, 2005

CONSIGLIO DI PRESIDENZA DELLA GIUSTIZIA TRIBUTARIA, Relazione al Ministro dell’economia e delle finanze sull’andamento della giustizia tributaria per l’anno 2014, del 02.12.2015

A. MARCHESELLI, Giustizia tributaria italiana e statuto europeo del giudice: un assetto ordinamentale da rivedere al più presto. Tratto da: Seminario di aggiornamento professionale per i Magistrati delle CCTT della regione Liguria – “Ordinamento e Processo: verso nuove regole per la Giustizia Tributaria”. Genova 27.06.2014

 

Corte di Cassazione 6 ottobre 2006 n. 21513

Corte Costituzionale Sentenza n. 64 ANNO 2008

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