Prescrizione della tassa automobilistica: termini e decorrenze
Tributi – Tassa di circolazione – Credito erariale – Azione di recupero – Prescrizione triennale – Decorrenza – Onere probatorio – – Art. 2697 cod. civ. – Natura dispositiva del processo tributario – Perimetro di esercizio dell’acquisizione probatoria del giudice – Deposito di documenti – Art. 7, c. 3, D.lgs. 546/92 – Abrogazione
La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 10166 del 16 aprile 2024 è intervenuta sul tema della riscossione della tassa automobilistica, riaffermando inizialmente che il termine di prescrizione triennale del credito erariale non inizia a decorrere dalla scadenza del termine sancito per tale pagamento, bensì dall’inizio dell’anno successivo, in virtù dell’art. 3 del Dl 2/1986 (convertito dalla legge 60/1986), che non si è limitato a disporre l’allungamento del termine biennale previsto dalla previgente disciplina, ma ha inteso assicurare in ogni caso la riscossione, entro il nuovo termine di tre anni, della tassa di circolazione dovuta con applicazione retroattiva.
Per interrompere tale periodo di prescrizione, proseguono gli Ermellini, l’amministrazione competente deve mettere in mora il debitore/contribuente tramite la notifica dell’avviso di accertamento, non bastando la sola iscrizione a ruolo del tributo, che costituisce un mero atto interno all’amministrazione stessa: dal giorno dopo la notifica dell’avviso di accertamento inizierà a decorrere un ulteriore termine triennale di prescrizione ai fini della notifica della cartella di pagamento (v. Sent. n. 26062/2022).
Al riguardo giova anche ricordare che ai sensi del Dl 953/1982, art. 5 – che recita “L’azione dell’Amministrazione finanziaria per il recupero delle tasse dovute dal 1° gennaio 1983 per effetto dell’iscrizione di veicoli o autoscafi nei pubblici registri e delle relative penalità si prescrive con il decorso del terzo anno successivo a quello in cui doveva essere effettuato il pagamento. Nello stesso termine si prescrive il diritto del contribuente al rimborso delle tasse indebitamente corrisposte” – il termine di prescrizione si compie quindi al 31 dicembre del terzo anno successivo a quello in cui doveva essere effettuato il pagamento (v. Ord. n. 10334/2021).
Allora, come più volte chiarito dalla Corte Costituzionale con riferimento alle Regioni a statuto ordinario e nel periodo di tempo successivo alla riforma del Titolo V della parte seconda della Costituzione, la tassa automobilistica non può ritenersi un tributo proprio della Regione, ai sensi del combinato disposto degli artt. 117, quarto comma, e 119, secondo comma, Cost. in relazione alle norme regionali che incidevano sulle ipotesi di esenzione dalla tassa automobilistica (v. Sent. Cost. n. 296/2003) o modificavano la disciplina dei termini per l’accertamento del tributo (Sentenze n. 297 e n. 311 del 2003), non potendo le Regioni integrare la disciplina statale quanto ai presupposti sostanziali del tributo in questione (v. Sent. Corte Cost. n. 209/2018).
Inoltre, gli Ermellini si sono soffermati efficacemente sulla delimitazione del perimetro di esercizio dell’acquisizione probatoria del giudice tributario, ricordando che il processo tributario è informato alla regola generale di distribuzione dell’onere probatorio ex art. 2697 cod. civ., con la conseguenza che – in tema di recupero di un credito di imposta – è l’ente impositore, attore in senso sostanziale, a essere gravato dall’onere di provare i fatti costitutivi della propria pretesa, più non operando nei confronti del giudice ordinario e di quello tributario la presunzione di legittimità degli atti amministrativi e, tra questi, di quelli impositivi (Cass. n. 10166/2024, Cass. n. 955/16, Cass. n. 1946/12, Cass. n. 13665/01).
In buona sostanza, ricorda la Suprema Corte, in nessun caso il potere del giudice di disporre d’ufficio l’acquisizione di mezzi di prova può essere utilizzato per supplire a carenze delle parti nell’assolvimento del rispettivo onere probatorio, ma solo in situazioni di oggettiva incertezza, in funzione integrativa degli elementi istruttori in atti, e sempre che la parte su cui ricade l’onus probandi non abbia essa stessa la possibilità di integrare la prova già fornita.
Nel processo tributario vige il principio dispositivo, per cui il giudice tributario non può sopperire alle lacune probatorie delle parti cercando le prove, ma deve attenersi a quelle prodotte dalle parti; il suo intervento deve essere limitato alle prove che le parti non riescono a ottenere, ad esempio perché la Pubblica amministrazione non rilascia i documenti (Corte Cost. Sent. n. 109/2007).
Che l’onere della prova gravasse sull’ente impositore è sempre stato un onere già previsto dall’art. 2697 c.c., come affermato peraltro dalle pronunce citate della Corte Costituzionale. L’introduzione del comma 5-bis dell’art. 7 del D.lgs. 546/1992 (a opera della legge 130/2022), ha determinato poi anche un rafforzamento di tale onere a livello processuale.
Tale ragionamento era stato protagonista, anche nel recente passato, di un acceso contrasto giurisprudenziale sui poteri istruttori del giudice tributario, disciplinati dall’articolo 7 del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546, dove era stata presente una certa esitazione interpretativa che riguardava essenzialmente l’individuazione dei limiti entro i quali tali poteri devono essere esercitati. (v. Sentt. n. 330/2006, n. 366/2006 e n. 1134/ 2006).
Ricordiamo che nella prima decade degli anni 2000 la Suprema Corte era intervenuta con una sequenza di pronunce sulla materia indicando, in particolare con la sentenza n. 330, che “… nel processo tributario, a norma dell’art. 7 del D.Lgs. 31 dicembre 1992 n. 546, le Commissioni tributarie, dotate di ampio potere estimativo anche sostitutivo, avvalendosi dei larghi poteri istruttori ad esse attribuiti possono acquisire aliunde gli elementi di decisione, demandando all’Ute accertamenti ritenuti necessari, prescindendo dall’accertamento dell’ufficio e dall’eventuale difetto di prova del suo assunto”.
Parimenti, con le sentenze n. 366 e n. 1134, la Corte riteneva invece che il giudice tributario non potesse utilizzare gli strumenti di cui all’articolo 7 del decreto sul contenzioso tributario per supplire alle insufficienze probatorie della parte. In particolare, con la pronuncia n. 366, la Cassazione considerava illegittimo il comportamento del giudice che dispone l’acquisizione della stima Ute non prodotta dall’Amministrazione; con la sentenza n. 1134 viene considerata non utilizzabile la stima Ute prodotta dalle parti, fuori dei termini di legge, a seguito della richiesta di acquisizione di documenti effettuata dal giudice ex articolo 7, comma 3, D.lgs. 546/92.
Infatti, secondo i giudici di legittimità il citato articolo 7, che attribuisce alle Commissioni tributarie i poteri istruttori di ufficio, costituisce una norma eccezionale che non può essere utilizzata come rimedio ordinario per sopperire alle lacune probatorie delle parti, dal momento che il giudice tributario non è tenuto ad acquisire d’ufficio le prove a fronte del mancato assolvimento dell’onere probatorio, salvo che sia impossibile o sommamente difficile esercitarlo.
Dal disposto dell’articolo 7 si poteva dedurre che il processo tributario ha natura dispositiva quanto alla allegazione dei fatti, in quanto spetta esclusivamente alle parti la delimitazione del thema decidendum della controversia, ma ha natura inquisitoria quanto alla ricerca delle prove, in quanto il giudice tributario ha la possibilità di disporre d’ufficio di tutti i mezzi istruttori che ritiene necessari per una piena comprensione della materia del contendere, così come delineata dalle parti. Il rischio prospettato in dottrina è che le Commissioni tributarie, data l’ampiezza dei poteri istruttori a esse spettanti, non si limitino a svolgere una funzione integratrice dell’attività istruttoria delle parti, ma si sostituiscano a esse, con una travalicazione dei limiti delineati dai fatti allegati dalle parti, snaturando la natura dispositiva del processo tributario. Proprio queste osservazioni hanno portato a vagliare con maggiore attenzione l’attività interpretativa della giurisprudenza, sia per la qualificazione di tali poteri istruttori, come facoltà o obbligo del giudice tributario, sia per la individuazione dei limiti entro i quali gli stessi possono e devono essere esercitati.
Più
problematica invece appare l’individuazione dei limiti entro i quali tali
poteri possono essere esercitati.
Secondo un filone giurisprudenziale peraltro minoritario, di cui è espressione
la citata sentenza n. 330/2006, le Commissioni tributarie sono dotate di larghi
poteri istruttori, esercitabili anche in sostituzione dell’iniziativa delle
parti, in modo tale che i giudici tributari possono acquisire aliunde
gli elementi di decisione prescindendo dagli accertamenti dell’ufficio e dagli
eventuali difetti di prova (cfr. Cass. sez. V, 8 maggio 2000, n. 5776; 1°
luglio 2003, n. 10374).
Altro orientamento della giurisprudenza, cui si uniformano le sentenze n. 366 e n. 1134 del 2006, riteneva invece che i poteri istruttori del giudice tributario potessero svolgere una funzione solo integrativa dell’attività probatoria delle parti, e, pertanto, non potevano costituire un rimedio alle lacune probatorie del giudizio né tanto meno espediente per una rideterminazione del thema decidendum della controversia (cfr. Cass. n. 8439/2004).
Secondo tale orientamento, infatti, riconoscere al giudice tributario la possibilità di esercitare i poteri istruttori di cui all’articolo 7 citato anche nel caso in cui le parti non abbiano ottemperato all’onere probatorio, stravolge il carattere dispositivo del processo tributario in quanto sarebbe il giudice stesso, e non le parti, a creare il supporto fattuale per la decisione della controversia; inoltre, consentire l’acquisizione d’ufficio di prove non presentate dalle parti comporterebbe un aggiramento dei termini perentori previsti dalla legge per i depositi documentali. La medesima esigenza di ricondurre i poteri istruttori delle Commissioni nei limiti del carattere dispositivo del processo tributario, oltre che dei termini perentori di produzione dei documenti, ha ispirato le recenti interpretazioni giurisprudenziali.(v. Cass. n. 16476/20 e Cass. n. 955/16).
Per i giudici di legittimità, l’acquisizione d’ufficio dei documenti necessari per la decisione costituisce una facoltà discrezionale, attribuita alle commissioni tributarie dal D.lgs. 546/1992 cit., ex art. 7, il cui esercizio peraltro non può sopperire al mancato assolvimento dell’onere della prova, che grava sull’amministrazione finanziaria quale attrice in senso sostanziale, trasferendosi a carico del contribuente soltanto quando l’ufficio abbia fornito indizi sufficienti per affermare la sussistenza dell’obbligazione tributaria. Tuttavia, quando la situazione probatoria sia tale da impedire la pronuncia ragionevolmente motivata senza l’acquisizione d’ufficio di un documento, l’esercizio di tale potere si configura come un dovere, il cui mancato assolvimento dev’essere compiutamente motivato(cfr., in termini, Cass. V, n. 905/2006, n. 725/2010, n. 25769/2014).
La giurisprudenza della suprema Corte, nel vagliare il perimetro di esercizio di questi residui poteri di acquisizione probatoria del giudice tributario, segnatamente nel prisma del primo comma dell’art. 7 cit. ha nel tempo più volte ribadito la natura dispositiva del processo tributario: “… Nel processo tributario, retto dal principio misto acquisitivo dispositivo, l’art. 7, comma 1, del d.lgs. n. 546 del 1992, stante l’abrogazione del comma 3 (che consentiva un vero e proprio potere officioso in “supplenza” della parte probatoriamente inerte), attribuisce alle commissioni tributarie, nei limiti dei fatti dedotti dalle parti, un potere di ‘soccorso istruttorio’ che, motivatamente, può essere esercitato non per supplire a carenze delle parti nell’assolvimento del rispettivo onere probatorio ma solo in funzione integrativa degli elementi di giudizio già in atti o acquisiti in quanto non sufficienti per pronunziare una sentenza ragionevolmente motivata”.
La Corte di Cassazione ha così costantemente affermato il sopra indicato principio (v. Cass. Sent. n. 34393/2019; Ord. n. 12383/2021; Ord. n. 8596/2023).
Tanto premesso e tornando alla vicenda odierna, essa ha inizio quando un contribuente professionista propone, in proprio, cinque motivi di ricorso in Cassazione per la revoca della sentenza, con la quale la Commissione Tributaria Regionale, a conferma della prima decisione della giustizia tributaria adita, aveva ritenuto legittima la cartella notificatagli il 15/10/2010 per il pagamento del bollo auto 2005 e 2006.
I motivi di ricorso presentati, essenzialmentem si riconducevano al punto in cui si deduceva la violazione dell’art. 32, cod. proc. civ. e di altre disposizioni concernenti la produzione documentale. In particolare, la parte contribuente indicava che la CTR aveva basato il proprio convincimento su una raccomandata che era stata illegittimamente acquisito d’ufficio, proveniente da una parte non costituita in giudizio e depositata ben oltre il termine di 90 giorni, a fronte della perentorietà del termine di 20 giorni di cui all’articolo 32 cit. Gli Ermellini hanno riconosciuto la validità delle ragioni presentate dal contribuente, affermando che “ … La giurisprudenza di questa Corte – appunto nel vagliare il perimetro di esercizio di questi residui poteri di acquisizione probatoria del giudice tributario, segnatamente nel prisma del primo co. dell’art. 7 cit. – ha più volte ribadito la natura dispositiva del processo tributario (improntato alla ‘parità delle armi’) e, in particolare, il principio per cui in nessun caso il potere del giudice di disporre d’ufficio l’acquisizione di mezzi di prova “può essere utilizzato per supplire a carenze delle parti nell’assolvimento del rispettivo onere probatorio, ma solo in situazioni di oggettiva incertezza, in funzione integrativa degli elementi istruttori in atti, e sempre che la parte su cui ricade l’’onus probandi’ non abbia essa stessa la possibilità di integrare la prova già fornita” (Cass.n. 16171/18; 16476/20; 955/16 e molte altre). Ciò premesso, nel caso di specie ci si trova proprio di fronte all’esercizio, da parte della Commissione Tributaria Regionale, di un potere di acquisizione probatoria in funzione chiaramente suppletiva ed esonerativa dell’onere probatorio gravante per regola generale sull’ente impositore. Si desume dalla sentenza che il contribuente aveva contestato la cartella di pagamento (notificatagli il 15.10.2010) per l’intervenuta decadenza (o prescrizione) triennale dell’azione di recupero, e questa contestazione è stata disattesa dal collegio regionale in considerazione del fatto che la Regione Lazio gli aveva notificato in data 25 ottobre 2008 un avviso di accertamento ad effetto interruttivo per l’anno 2005; sennonché né l’agente per la riscossione (privo di ogni documentazione in proposito) né la Regione Lazio (parte del giudizio, anche se rimasta contumace) avevano fornito la prova di questa notificazione, la cui acquisizione agli atti è avvenuta proprio su iniziativa del collegio ed in forza dell’ordinanza del 12 febbraio 2014; ordinanza in esecuzione della quale la Regione Lazio ebbe appunto a depositare copia del relativo avviso di ricevimento (sent. pag.2), sul quale la Commissione Tributaria Regionale ha poi basato per intero il proprio convincimento escludente la perenzione della pretesa. E’ evidente che, a fronte della contestazione cosi’ mossa dal B. in ragione del tempo trascorso tra l’annualità dovuta e la notificazione della cartella impugnata (a suo dire, primo atto di richiesta ed esazione), era onere dell’Amministrazione fornire la prova contraria del non-decorso dei termini legali. E’ pur vero che l’interruzione della prescrizione da parte dell’Amministrazione finanziaria rappresentava una mera difesa o un’eccezione in senso improprio – potendo essere anche rilevata dall’ufficio, ove emergente dagli atti processuali – e tuttavia è anche vero che la rilevabilità d’ufficio dell’evento interruttivo presupponeva comunque la sua emersione fattuale dalle prove ritualmente introdotte in giudizio dalle parti secondo la regola generale di ripartizione dell’onere probatorio (Cass. nn. 24214/16; 23261/20 ed altre). Ne consegue che, stante la inutilizzabilità della documentazione così acquisita (profilo che assorbe anche la deduzione del Procuratore Generale in punto autosufficienza dei motivi di ricorso), la sentenza va sul punto cassata ed il ricorso originario del B. – relativamente all’anno 2005 – deve trovare accoglimento. § 2.3 Venendo al quarto e quinto motivo di ricorso, relativi alla annualità 2006, se ne riscontra parimenti la fondatezza. Posto che per tale annualità non vi fu alcuna notifica di avviso di accertamento o altro atto interruttivo, è dirimente osservare che il termine di prescrizione qui applicabile era quello dettato dall’art. 5 co. 51 d.l. 953/82 conv. in l. 53/83 (come mod. dall’art. 3 d.l. 2/1986 conv. in legge n. 60/1986), secondo cui: “ l’azione dell’Amministrazione finanziaria per il recupero delle tasse dovute dal 1^ gennaio 1983 per effetto dell’iscrizione di veicoli o autoscafi nei pubblici registri e delle relative penalità si prescrive con il decorso del terzo anno successivo a quello in cui doveva essere effettuato il pagamento. Nello stesso termine si prescrive il diritto del contribuente al rimborso delle tasse indebitamente corrisposte” . Su questa disposizione si è formato un costante indirizzo di legittimità secondo cui (Cass n. 24595/22): “la prescrizione triennale del credito erariale, avente ad oggetto il pagamento della tassa di circolazione dei veicoli, non inizia a decorrere dalla scadenza del termine sancito per tale pagamento, bensì dall’inizio dell’anno successivo, in virtù dell’art. 3 del d.l. n. 2 del 1986 (conv., con modif., dalla l. n. 60 del 1986), che non si è limitato a disporre l’allungamento del termine biennale previsto dalla previgente disciplina (art. 5, comma 31, del d.l. n. 953 del 1982, conv., con modif., dalla l. n. 53 del 1983), ma ha inteso assicurare in ogni caso la riscossione, entro il nuovo termine di tre anni, della tassa di circolazione dovuta per il 1983 con applicazione retroattiva”; nello stesso senso: Cass. n. 9120/09, n. 10067/14. Facendo applicazione di questo principio (prescrizione triennale decorrente dall’inizio dell’anno successivo a quello del pagamento) nel caso di specie, risulta che la pretesa riscossiva della Regione fosse in effetti prescritta, vertendosi di cartella notificata il 15.10.2010 a fronte di un termine estintivo triennale spirato il 1^ gennaio 2010. Ne segue l’accoglimento del ricorso e la cassazione della sentenza impugnata, con decisione nel merito ex art. 384 cod.proc.civ. (non essendo necessari accertamenti fattuali ulteriori rispetto a quelli già in atti) di accoglimento del ricorso originario del contribuente. Le spese dei gradi di merito vanno compensate in ragione del sopravvenire in corso di causa dei su richiamati indirizzi interpretativi, con accollo solidale alle parti intimate di quelle di legittimità”.
Corte di Cassazione – Sentenza 16 aprile 2024, n. 10166
sul ricorso iscritto al n.8754/2015 R.G. proposto da :
B. G., elettivamente domiciliato in ROMA PIAZZA ESCHILO 37, presso lo studio dell’avvocato B. G. (BGNGNN55M20D451R) che lo rappresenta e difende
– ricorrente –
contro REGIONE LAZIO, EQUITALIA SUD SPA
– intimati –
avverso SENTENZA di COMM.TRIB.REG. ROMA n. 5723/2014 depositata il 25/09/2014.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 27 marzo 2024 dal Consigliere Giacomo Maria Stalla;
udito il Procuratore Generale che ha concluso per l’inammissibilità del ricorso;
Udito il ricorrente.
Fatti rilevanti di causa
§ 1. L’avv. G. B. propone, in proprio, cinque motivi di ricorso per la cassazione della su indicata sentenza, con la quale la Commissione Tributaria Regionale, a conferma della prima decisione, ha ritenuto legittima la cartella notificatagli il 15.10.2010 per il pagamento del bollo auto 2005 e 2006.
La Commissione Tributaria Regionale ha ritenuto, nel contraddittorio con Equitalia Sud e previa acquisizione documentale presso la Regione Lazio, che la pretesa in questione non fosse prescritta per decorso del triennio, risultando la regolare notificazione in data 25.10.2008 di atto interruttivo (avviso accertamento n. 94102) per il bollo auto 2005 sul veicolo tg. CV271DP.
Il ricorrente ha depositato memoria.
Il Procuratore Generale ha concluso per l’inammissibilità del ricorso, stante la carenza di autosufficienza “per non essere stato trascritto neanche in estratto il contenuto della relata di notifica di cui si controverte, né indicati i dati necessari per il suo reperimento nel fascicolo”.
Motivi della decisione
§ 2.1 Con il primo motivo di ricorso si propone “ Disconoscimento della sottoscrizione riportata nell’avviso di ricevimento (prodotto in fotocopia) della raccomandata AR n. 773682958343 con cui veniva notificato il 25 ottobre 2008 l’avviso di accertamento”. La Commissione Tributaria Regionale aveva basato il proprio convincimento di mancato decorso del termine prescrizionale sull’avvenuta notificazione di idoneo atto interruttivo (avviso di accertamento citato), nonostante che il contribuente non avesse mai ricevuto tale atto, il cui AR della lettera raccomandata veniva da lui disconosciuto (per la prima volta avanti a questa Corte di Cassazione, trattandosi di deposito effettuato dalla Regione Lazio in ottemperanza ad ordine di acquisizione del collegio regionale in giorno, 12.6.2014, a ridosso dell’udienza di discussione, 17.6.2014), sia perché versato in atti soltanto in fotocopia, sia perché il suo nominativo di ricezione era stato su di esso scritto in stampatello, ed in evidente difformità dalle altre sottoscrizioni da lui apposte sugli atti del processo.
Con il secondo motivo di ricorso si lamenta violazione e falsa applicazione degli articoli 2697 e 2698 del cod. civ., nonché degli articoli 113 e seguenti del codice di procedura civile, oltre che carenza di motivazione.
Per avere la Commissione Tributaria Regionale erroneamente ritenuto che la Regione Lazio avesse provato la notificazione dell’atto interruttivo della prescrizione, nonostante che quanto depositato dall’amministrazione regionale fosse costituito unicamente dall’avviso di ricevimento di una raccomandata, senza che ciò provasse l’effettiva notificazione dell’avviso di accertamento, la cui riferibilità alla raccomandata risultava attestata unicamente dalla nota di deposito proveniente dalla Regione stessa.
Con il terzo motivo di ricorso si deduce violazione dell’art. 32 cod.proc.civ. e di altre disposizioni concernenti la produzione documentale.
Per avere la Commissione Tributaria Regionale basato il proprio convincimento su un documento (la suddetta raccomandata) che era stato illegittimamente acquisito d’ufficio, proveniente da una parte non costituita in giudizio e depositato ben oltre il termine di 90 giorni assegnato con l’ordinanza istruttoria del 12 febbraio 2014 (per giunta, nell’imminenza dell’udienza di discussione, a fronte della perentorietà del termine di 20 giorni di cui all’articolo 32 cit.).
Con il quarto motivo di ricorso si lamenta violazione e falsa applicazione degli articoli 112 e seguenti cod.proc.civ., nonché degli artt. 2697 e 2698 del cod. civ., oltre ad omesso esame.
Per non avere la Commissione Tributaria Regionale pronunciato alcunché sul tributo relativo all’anno 2006, pure dedotto tanto nella cartella quanto nel ricorso introduttivo.
Con il quinto motivo di ricorso si deduce violazione e falsa applicazione dell’articolo 5 del decreto l. n.953 del 1982 come modificato dall’articolo 3 del decreto l. n. 2 del 1986 convertito nella legge n. 60 del 1986; dovendosi il termine estintivo triennale applicare tanto alla fase di accertamento quanto a quella di riscossione. Né era consentito alle Regioni di prorogare o prolungare i termini di decadenza e prescrizione in materia di bollo auto (C.Cost. n.311/03).
§ 2.2 Quanto all’anno 2005, è fondato il terzo motivo di ricorso, con assorbimento dei motivi precedenti.
Va premesso che anche il processo tributario è informato alla regola generale di distribuzione dell’onere probatorio ex art. 2697 cod. civ., con la conseguenza che – in tema di recupero di un credito di imposta – è l’ente impositore, attore in senso sostanziale, ad essere gravato dall’onere di provare i fatti costitutivi della propria pretesa, più non operando nei confronti del giudice ordinario e di quello tributario la presunzione di legittimità degli atti amministrativi e, tra questi, di quelli impositivi (Cass. nn. 955/16, 1946/12, 13665/01 ed altre).
Il carattere dispositivo, e non inquisitorio né acquisitivo, del processo tributario è stato dal legislatore nel tempo rafforzato attraverso l’abrogazione (art. 3 bis, co. 5^, d.l. 203/2005 conv. in legge 248/05) dell’art. 7, co. 3^, d.lgs. 546/92, il quale sanciva che: “è sempre data alle commissioni tributarie facoltà di ordinare alle parti il deposito di documenti ritenuti necessari per la decisione della controversia”.
Per quanto non direttamente applicabile alla fattispecie qui dedotta, si osserva come questa linea evolutiva dell’ordinamento sia recentemente culminata nell’introduzione del co. 5 bis nell’art. 7 in esame, da parte della legge 130/2022.
Come osservato dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 109/07 (dichiarativa della infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 7, comma 1, d.lgs. 546/92, ex artt. 3 e 24 della Costituzione) “ la rilevanza pubblicistica dell’obbligazione tributaria giustifica ampiamente i penetranti poteri che la legge conferisce all’amministrazione nel corso del procedimento destinato a concludersi con il provvedimento impositivo, ma certamente non implica affatto – nè consente – che tale posizione si perpetui nella successiva fase giurisdizionale e che, in tal modo, sia contaminata l’essenza stessa del ruolo del giudice facendone una sorta di longa manus dell’amministrazione: in particolare, attribuendo al giudice poteri officiosi che, per la indeterminatezza dei presupposti del loro esercizio (o non esercizio), sono potenzialmente idonei a risolversi in una vera e propria supplenza dell’amministrazione”.
All’esito della suddetta abrogazione, sono in effetti residuati in capo al giudice tributario determinati poteri istruttori di natura acquisitiva ed informativa, ma ciò nei soli limiti del 1^ co. del medesimo art. 7 (però insuscettibile di determinare la strumentale ed indiretta reviviscenza della disposizione abrogata) e, stante il richiamo ex art. 1, co. 2^, d.lgs. 546/92, nei limiti di cui agli artt. 210 (con necessità di una richiesta di parte) e 213 (informativa presso una PA che non sia parte del giudizio) del codice di rito.
La giurisprudenza di questa Corte – appunto nel vagliare il perimetro di esercizio di questi residui poteri di acquisizione probatoria del giudice tributario, segnatamente nel prisma del primo co. dell’art. 7 cit. – ha più volte ribadito la natura dispositiva del processo tributario (improntato alla ‘parità delle armi’) e, in particolare, il principio per cui in nessun caso il potere del giudice di disporre d’ufficio l’acquisizione di mezzi di prova “può essere utilizzato per supplire a carenze delle parti nell’assolvimento del rispettivo onere probatorio, ma solo in situazioni di oggettiva incertezza, in funzione integrativa degli elementi istruttori in atti, e sempre che la parte su cui ricade l’’onus probandi’ non abbia essa stessa la possibilità di integrare la prova già fornita” (Cass.n. 16171/18; 16476/20; 955/16 e molte altre).
Ciò premesso, nel caso di specie ci si trova proprio di fronte all’esercizio, da parte della Commissione Tributaria Regionale, di un potere di acquisizione probatoria in funzione chiaramente suppletiva ed esonerativa dell’onere probatorio gravante per regola generale sull’ente impositore.
Si desume dalla sentenza che il contribuente aveva contestato la cartella di pagamento (notificatagli il 15.10.2010) per l’intervenuta decadenza (o prescrizione) triennale dell’azione di recupero, e questa contestazione è stata disattesa dal collegio regionale in considerazione del fatto che la Regione Lazio gli aveva notificato in data 25 ottobre 2008 un avviso di accertamento ad effetto interruttivo per l’anno 2005;
sennonché né l’agente per la riscossione (privo di ogni documentazione in proposito) né la Regione Lazio (parte del giudizio, anche se rimasta contumace) avevano fornito la prova di questa notificazione, la cui acquisizione agli atti è avvenuta proprio su iniziativa del collegio ed in forza dell’ordinanza del 12 febbraio 2014; ordinanza in esecuzione della quale la Regione Lazio ebbe appunto a depositare copia del relativo avviso di ricevimento (sent. pag.2), sul quale la Commissione Tributaria Regionale ha poi basato per intero il proprio convincimento escludente la perenzione della pretesa.
E’ evidente che, a fronte della contestazione cosi’ mossa dal B. in ragione del tempo trascorso tra l’annualità dovuta e la notificazione della cartella impugnata (a suo dire, primo atto di richiesta ed esazione), era onere dell’Amministrazione fornire la prova contraria del non-decorso dei termini legali.
E’ pur vero che l’interruzione della prescrizione da parte dell’Amministrazione finanziaria rappresentava una mera difesa o un’eccezione in senso improprio – potendo essere anche rilevata dall’ufficio, ove emergente dagli atti processuali – e tuttavia è anche vero che la rilevabilità d’ufficio dell’evento interruttivo presupponeva comunque la sua emersione fattuale dalle prove ritualmente introdotte in giudizio dalle parti secondo la regola generale di ripartizione dell’onere probatorio (Cass. nn. 24214/16; 23261/20 ed altre).
Ne consegue che, stante la inutilizzabilità della documentazione così acquisita (profilo che assorbe anche la deduzione del Procuratore Generale in punto autosufficienza dei motivi di ricorso), la sentenza va sul punto cassata ed il ricorso originario del B. – relativamente all’anno 2005 – deve trovare accoglimento.
§ 2.3 Venendo al quarto e quinto motivo di ricorso, relativi alla annualità 2006, se ne riscontra parimenti la fondatezza. Posto che per tale annualità non vi fu alcuna notifica di avviso di accertamento o altro atto interruttivo, è dirimente osservare che il termine di prescrizione qui applicabile era quello dettato dall’art. 5 co. 51 d.l. 953/82 conv. in l. 53/83 (come mod. dall’art. 3 d.l. 2/1986 conv. in legge n. 60/1986), secondo cui: “ l’azione dell’Amministrazione finanziaria per il recupero delle tasse dovute dal 1^ gennaio 1983 per effetto dell’iscrizione di veicoli o autoscafi nei pubblici registri e delle relative penalità si prescrive con il decorso del terzo anno successivo a quello in cui doveva essere effettuato il pagamento. Nello stesso termine si prescrive il diritto del contribuente al rimborso delle tasse indebitamente corrisposte” .
Su questa disposizione si è formato un costante indirizzo di legittimità secondo cui (Cass n. 24595/22): “la prescrizione triennale del credito erariale, avente ad oggetto il pagamento della tassa di circolazione dei veicoli, non inizia a decorrere dalla scadenza del termine sancito per tale pagamento, bensì dall’inizio dell’anno successivo, in virtù dell’art. 3 del d.l. n. 2 del 1986 (conv., con modif., dalla l. n. 60 del 1986), che non si è limitato a disporre l’allungamento del termine biennale previsto dalla previgente disciplina (art. 5, comma 31, del d.l. n. 953 del 1982, conv., con modif., dalla l. n. 53 del 1983), ma ha inteso assicurare in ogni caso la riscossione, entro il nuovo termine di tre anni, della tassa di circolazione dovuta per il 1983 con applicazione retroattiva”;
nello stesso senso: Cass. n. 9120/09, n. 10067/14.
Facendo applicazione di questo principio (prescrizione triennale decorrente dall’inizio dell’anno successivo a quello del pagamento) nel caso di specie, risulta che la pretesa riscossiva della Regione fosse in effetti prescritta, vertendosi di cartella notificata il 15.10.2010 a fronte di un termine estintivo triennale spirato il 1^ gennaio 2010.
Ne segue l’accoglimento del ricorso e la cassazione della sentenza impugnata, con decisione nel merito ex art. 384 cod.proc.civ. (non essendo necessari accertamenti fattuali ulteriori rispetto a quelli già in atti) di accoglimento del ricorso originario del contribuente. Le spese dei gradi di merito vanno compensate in ragione del sopravvenire in corso di causa dei su richiamati indirizzi interpretativi, con accollo solidale alle parti intimate di quelle di legittimità.
P.Q.M.
La Corte
– accoglie il ricorso;
– cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, accoglie il ricorso originario del contribuente;
– compensa le spese dei gradi di merito e condanna le parti intimate, tra loro in solido, al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, che liquida in euro 1100,00, oltre euro 200,00 per esborsi, rimborso forfettario ed accessori di legge. Così deciso nella camera di consiglio della Sezione Tributaria