CASSAZIONE

Plusvalenza da cessione di immobile A10: se è studio adibito a casa familiare, è esclusa

Tributi – IRPEF –Redditi diversi – Plusvalenze – Cessione infraquinquennale di immobile – Principio di diritto – Immobile di categoria A10 – Abitazione principale – Definizione – Uso ufficio – Esclusione dell’assoggettamento a tassazione

La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 17528 del 25 giugno 2024 si è interessata in maniera dettagliata delle situazioni in cui le unità immobiliari sono utilizzate come abitazione principale dal venditore o dai suoi familiari, per la maggior parte del periodo tra l’acquisto e la successiva vendita, affermando che in caso di vendita, entro il quinquennio dall’acquisto, di un immobile classificato a uso ufficio ma oggettivamente classificabile anche ad altri usi abitativi, l’effettivo utilizzo dell’immobile come abitazione principale, del cedente o di un suo familiare sul quale grava il relativo onere probatorio, è idonea a escludere l’assoggettamento a tassazione dell’eventuale plusvalenza conseguita dal cedente, anche se tale destinazione sia avvenuta in contrasto con la classificazione catastale dell’immobile.

In sostanza, la Suprema Corte ha anche offerto al riguardo il seguente principio di diritto che più specificatamente ha affermato: “… in caso di cessione, entro il quinquennio dall’acquisto, di un immobile classificato ad uso ufficio, ma oggettivamente classificabile anche ad altri usi abitativi, l’effettiva adibizione di esso ad abitazione principale del cedente (sul quale grava il relativo onere probatorio) o di un suo familiare, da intendersi come destinazione a dimora abituale, ove realizzatasi per la maggior parte del periodo intercorso tra l’acquisto e la cessione, è idonea ad escludere l’assoggettamento a tassazione dell’eventuale plusvalenza conseguita dal cedente, anche se tale destinazione sia avvenuta in contrasto con la classificazione catastale dell’immobile, potendosi anche in tal caso escludere l’intento speculativo dell’operazione”.

La stessa Agenzia delle entrate, in documenti di prassi diversi da quello valorizzato in ricorso (e, precisamente, nelle risoluzioni n. 136/E e, soprattutto, n. 218/E, entrambe del 2008), aveva dichiarato, sempre con riferimento alla nozione utilizzata dall’art. 67, comma 1, lett. b), TUIR, che per abitazione principale si intende quella nella quale il contribuente o i suoi familiari dimorano abitualmente, addirittura a prescindere dalle risultanze dei registri anagrafici, che possono essere smentite da circostanze oggettive, quali l’intestazione delle utenze domestiche, l’utilizzo effettivo dei servizi connessi e l’indicazione del domicilio nella corrispondenza ordinaria. Nondimeno, la stessa risoluzione n. 105 del 2007 non esclude affatto la possibilità di tale prova contraria, in quanto precisa che l’unità immobiliare destinata ad abitazione può anche essere soltanto “classificabile” nelle categorie A1, A2, A3, A4, A5, A6, A7, A8, A9 e A11

Conseguentemente grava sul contribuente l’onere di provare l’utilizzo dell’unità immobiliare quale abitazione propria o di propri familiari, attraverso elementi di natura oggettiva quali, ad esempio certificati di residenza, copie delle fatture relative alla fornitura di gas, energia elettrica (per usi domestici) e servizio telefonico, bollettini di pagamento del canone RAI, della tassa rifiuti e delle quote condominiali.

Ricordiamo che sulla questione si era recentemente espressa la Suprema Corte (Cass. Ord. n. 9496/2024) sulla vertenza sollevata da un professionista che aveva adibito a dimora abituale l’immobile, censito in catasto nella categoria A10, dove svolgeva anche la sua attività lavorativa.

Coniugare i requisiti tecnici di due distinte tipologie di unità (ufficio e abitazione) in un unico contesto ambientale non sempre resta agevole, in quanto si possono porre alcuni problemi legati all’illuminazione dei locali, alla distribuzione delle superfici, all’utilizzo degli impianti igienico sanitari e termici e altri ancora, ma evidentemente nella fattispecie oggetto della controversia il proprietario era stato in grado di soddisfare tali esigenze (di vita quotidiana e professionale) in modo razionale a tal punto da contestare l’avviso di accertamento, relativo al versamento dell’IMU per l’anno 2013, emesso dal Comune nei suoi confronti, in quanto non gli era stata riconosciuta l’agevolazione prevista per l’abitazione principale, con il pagamento dell’imposta con l’aliquota ridotta del 4,6 per mille. Non a caso l’art. 67 del TUIR stabilisce il regime di tassazione applicabile al soggetto privato che, a seguito di cessione a titolo oneroso di beni immobili, abbia conseguito un reddito (cd. plusvalenza). Resta comunque come condizione essenziale per la tassabilità il periodo intercorrente tra l’acquisto o la costruzione dell’immobile e la vendita dello stesso, che non deve essere superiore a 5 anni. In ogni caso, è esclusa la presunzione di una plusvalenza se l’immobile è stato adibito ad abitazione principale (residenza anagrafica) del cedente o dei suoi familiari per la maggior parte del periodo intercorso tra l’acquisto (o la costruzione) e la cessione.

In conclusione, appare possibile sintetizzare che se il proprietario cede, entro il quinquennio dall’acquisto, un immobile classificato a uso ufficio ma oggettivamente adibito ad abitazione principale sua e della propria famiglia, l’eventuale plusvalenza conseguita non è tassabile, dovendosi escludere l’intento speculativo dell’operazione. Grava pertanto sul contribuente l’onere di provare l’utilizzo dell’unità immobiliare quale abitazione propria o dei propri familiari attraverso elementi di natura oggettiva come quelli sopra elencati.

Tanto premesso e tornando al caso di specie, la vicenda ha inizio con la notifica a due contribuenti professionisti di due avvisi di accertamento riguardanti il presunto maggior reddito derivato dalla plusvalenza realizzata a seguito di una rivendita infraquinquennale di un immobile in comproprietà, iscritto in catasto in categoria A10. Confutati i due avvisi di accertamento, la Commissione Tributaria Provinciale di Bari accoglieva parzialmente il ricorso, mentre la Commissione Tributaria Regionale accoglieva il motivo di ricorso relativo all’insussistenza di una plusvalenza tassabile, annullando gli atti impositivi originariamente impugnati. L’Agenzia proponeva ricorso, affidato a un unico motivo in cui essenzialmente denunciava che in materia fiscale la classificazione dell’immobile assume particolare importanza, senza che possa rivestire rilievo ai fini dell’esclusione della presunzione di plusvalenza, la qualificazione “soggettiva”che i contribuenti hanno attribuito all’immobile in relazione alle esigenze connesse al proprio nucleo familiare, dovendosi avere riguardo alla natura e funzionalità dell’immobile come cristallizzate nella qualificazione catastale, che avviene – sia per la classificazione ad uso abitativo, sia per quella ad uso commerciale – in base all’accertamento di determinati requisiti tecnici e di autonomia funzionale. La Suprema Corte ha respinto le osservazioni presentate dall’Avvocatura erariale, osservando invece che “… Il punto centrale della questione agitata nel presente giudizio consiste nella definizione del concetto di “abitazione principale” utilizzato dall’art. 67, comma 1, lett. b).  8. La giurisprudenza di legittimità (Cassazione civile sez. VI, 16/07/2019, n. 18963) ha affermato che, in relazione all’applicazione dell’art. 67, comma 1, lett. b), TUIR (e del successivo art. 68, che detta i criteri per il calcolo della plusvalenza), “gli elementi che determinano l’esclusione della fattispecie normativa sono, da un lato, il non superamento di un certo intervallo temporale fra acquisto e vendita – requisito da intendersi nel senso che l’immobile de quo deve essere stato adibito ad abitazione principale del cedente “per la maggior parte del periodo intercorrente tra l’acquisto e la cessione” (Sez. 5, Sentenza n. 18846 del 10/12/2003, Rv. 568761-01) – dall’altro, la destinazione all’uso personale dell’acquirente e dei suoi familiari, secondo criteri oggettivi” (Cass. Sez. 5 -, Sentenza n. 14270 del 13/07/2016).  Occorre, in altre parole, che tale destinazione sia effettiva e non meramente intenzionale, dovendo emergere da una serie di atti aventi estrinsecazione esterna idonei a dimostrare la concreta realizzazione di tale adibizione. 9. Orbene, la tesi qui sostenuta dall’Agenzia delle entrate, che ricollega il concetto di abitazione principale esclusivamente alla classificazione catastale, non è suffragata da altri indici normativi che, nel fornire la relativa nozione, danno rilievo, invece, alla oggettiva destinazione abitativa di fatto impressa all’immobile. In disparte che, come correttamente evidenziato dalla sentenza impugnata, lo stesso art. 67, comma 1, lett. b), non fa alcun riferimento alla categoria catastale dell’immobile, richiedendo esclusivamente la destinazione dello stesso ad abitazione principale, deve evidenziarsi che l’art. 10, comma 3, TUIR, nel disciplinare la deduzione del reddito dell’unità immobiliare adibita ad abitazione principale (fino all’ammontare della rendita catastale), dispone che per quest’ultima si intende quella nella quale chi la possiede a titolo di proprietà o altro diritto reale oppure i suoi familiari dimorano abitualmente. In modo del tutto analogo, l’art. 15, comma 1, lett. b), TUIR, nel disciplinare le detrazioni per gli oneri consistenti in interessi passivi in dipendenza di mutui garantiti da ipoteca su immobili, contratti per l’acquisto di unità immobiliari da adibire ad abitazione principale entro un anno dall’acquisto stesso, dispone che per abitazione principale si intende quella nella quale il contribuente o i suoi familiari dimorano abitualmente. Risulta evidente, dunque, che, in questi casi, il legislatore tributario attribuisce rilievo ad una situazione di fatto consistente nella dimora abituale in un determinato immobile. 10. Se ciò è vero, a maggior ragione la nozione di abitazione principale deve essere ancorata all’accertamento di una situazione di fatto di oggettiva destinazione dell’immobile a dimora abituale al cospetto di una previsione che, come è riconosciuto dalla stessa ricorrente, punta a colpire la produzione di plusvalenze per intenti puramente speculativi. Poiché la finalità perseguita dal legislatore è quella anti-speculativa, come correttamente riconosciuto anche dall’Agenzia delle entrate, non appare coerente con la ratio legis far dipendere l’esclusione dall’ambito di operatività della tassazione dal mero dato formale della «classificazione catastale» dell’immobile oggetto della cessione infraquinquennale, senza consentire al contribuente di provare l’effettiva adibizione dell’immobile ad abitazione principale, nel senso sopra indicato. 11. Del resto, la stessa Agenzia delle entrate, in documenti di prassi diversi da quello valorizzato in ricorso (e, precisamente, nelle risoluzioni n. 136/E dell’8 aprile 2008 e, soprattutto, n. 218/E del 30 maggio 2008), ha affermato, sempre con riferimento alla nozione utilizzata dall’art. 67, comma 1, lett. b), TUIR, che per abitazione principale si intende quella nella quale il contribuente o i suoi familiari dimorano abitualmente, addirittura a prescindere dalle risultanze dei registri anagrafici, che possono essere smentite da circostanze oggettive, quali l’intestazione delle utenze domestiche, l’utilizzo effettivo dei servizi connessi e l’indicazione del domicilio nella corrispondenza ordinaria. 12. Peraltro, la stessa risoluzione n. 105 del 2007 citata in ricorso non esclude affatto la possibilità di tale prova contraria , in quanto precisa che l’unità immobiliare destinata ad abitazione può anche essere soltanto “classificabile”nelle categorie A1, A2, A3, A4, A5, A6, A7, A8, A9e A11.  13. Neppure giova alla ricorrente il richiamo al precedente costituito da Cass., Sez. 5, Sentenza n. 18846 del 10/12/2003 (Rv. 568761- 01). Tale pronuncia, nell’esaminare l’art. 81, comma 1 , lett. b (ora art. 67, comma 1, lett. b) TUIR, si è soffermata sul concetto di abitazione principale(ma con riferimento allo straniero che, sia pure per un limitato periodo di tempo, si fosse stabilito in Italia ) e, in primo luogo, ha affermato – in maniera del tutto condivisibile – che, vertendosi in tema di agevolazioni tributarie, si impone una esegesi rigorosamente letterale della norma in esame. Quest’ultima, tuttavia, come si è già osservato, non fa alcun riferimento alla classificazione catastale dell’immobile ceduto. In secondo luogo, il citato precedente ha dato esclusivo rilievo proprio al dato di fatto, risultante da circostanze oggettive, dell’adibizione ad abitazione principale del cedente “per la maggior parte del periodo intercorrente tra l’acquisto e la cessione”, come richiesto anche dall’altro precedente citato in ricorso – Cass., Sez. 5, sentenza 13 luglio 2016, n. 14270 – che ha escluso la rilevanza del mero atteggiamento soggettivo non speculativo dichiarato dal contribuente, non corroborato, però, da indici oggettivi.  14. Tutto ciò premesso, è certamente da ribadire che grava sul contribuente l’onere di provare l’utilizzo dell’unità immobiliare quale abitazione propria o di propri familiari (Cass. sez. V, 18 settembre 2009, n. 20094; Cass. sez. V, 5 novembre 2021, n. 31992).  Come pure occorre precisare che gli elementi di prova offerti dal contribuente devono essere di natura oggettiva e riferiti ad immobili che siano quantomeno classificabili (anche se non classificati all’attualità) per uso abitativo. In quest’ottica, la diversa classificazione catastale dell’immobile potrà solo costituire elemento indiziario da cui presumere ordinariamente l’inesistenza dei requisiti normativi che legittimano l’esclusione dalla tassazione, ma non potrà impedire al contribuente di dimostrare il contrario, nei sensi innanzi indicati, e quindi di aver comunque utilizzato quale abitazione principale un immobile classificabile come tale, per la maggior parte del periodo intercorrente tra l’acquisto e la successiva cessione. 15. Va anche ribadito che l’adibizione di un immobile ad uso abitativo, in contrasto con la destinazione corrispondente alla categoria catastale, può certamente comportare conseguenze giuridiche, anche di carattere sanzionatorio, non solo dal punto di vista della disciplina urbanistico – edilizia, ma anche sul piano fiscale (come, ad esempio, in tema di determinazione della base imponibile per le imposte legate alla rendita catastale). Tuttavia, l’adibizione di fatto ad abitazione principale è certamente rilevante ai fini contemplati dall’art. 67 TUIR, trattandosi di situazione che lo stesso legislatore fa assurgere ad indicatore oggettivo dell’inesistenza del fine speculativo, altrimenti presunto dallo scarto temporale ridotto tra acquisto e successiva cessione dell’immobile. 16. Conclusivamente, deve essere affermato il principio secondo cui, in caso di cessione,entro il quinquennio dall’acquisto, di un immobile classificato ad uso ufficio, ma oggettivamente classificabile anche ad altri usi abitativi, l’effettiva adibizione di esso ad abitazione principale del cedente (sul quale grava il relativo onere probatorio) o di un suo familiare, da intendersi come destinazione a dimora abituale, ove realizzatasi per la maggior parte del periodo intercorso tra l’acquisto e la cessione, è idonea ad escludere l’assoggettamento a tassazione dell’eventuale plusvalenza conseguita dal cedente, anche se tale destinazione sia avvenuta in contrasto con la classificazione catastale dell’immobile, potendosi anche in tal caso escludere l’intento speculativo dell’operazione. 17. La sentenza della CTR ha fatto corretta applicazione di tale principio. Sulla base di un accertamento di fatto insindacabile in sede di legittimità, la decisione impugnata, valorizzando, tra le altre circostanze offerte dal contribuente, anche la concessione della residenza nell’immobile oggetto di causa da parte del Comune di Modugno (elemento da cui è possibile desumere l’astratta idoneità dell’immobile stesso ad essere adibito ad abitazione), ha ritenuto dimostrata la destinazione a dimora abituale dei cedenti e della loro famiglia nel lasso di tempo intercorrente tra l’acquisto e la successiva cessione dell’immobile, pur se identificato in catasto con la categoria A/10, e ha coerentemente concluso per l’esclusione dalla tassazione della plusvalenza conseguita. 18. Il ricorso va quindi rigettato”.

Corte di Cassazione – Ordinanza 25 giugno 2024, n. 17528

sul ricorso iscritto al n. 1501/2017R.G. proposto da AGENZIA DELLE ENTRATE, con sede in Roma, in persona del Direttore Generale pro tempore , rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, nei cui uffici domicilia in Roma, alla via Dei Portoghesi, n. 12;

–ricorrente –

contro L. A. M. e N. C., rappresentati e difesi, in forza di procura speciale in calce al ricorso, dall’Avv. Gennaro Paldera (PEC: avv.paldera@pec.giuffre.it), presso il cui studio in Bari, alla piazza Garibaldi n. 67 elettivamente domiciliano

–controricorrenti–

avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale di Bari, depositata in data 8 agosto 2016, n. 2009/2016;

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del4 giugno 2024 dal Consigliere Luciano Ciafardini;

FATTI DELLA CAUSA

1. L’Agenzia delle entrate notificava a C. N. e A. M. L. due avvisi di accertamento riguardanti il presunto maggior reddito di euro 40.000 ciascuno per l’anno 2007, che sarebbe derivato dalla plusvalenza realizzata a seguito di una (ri)vendita infraquinquennale di un immobile in comproprietà, iscritto in catasto in categoria A/10.

2. Impugnati i due avvisi di accertamento, la Commissione Tributaria Provinciale di Bari accoglieva parzialmente il ricorso, ritenendo fondata solo la censura relativa al mancato conteggio da parte dell’Agenzia delle entrate delle spese documentate sostenute per l’acquisto dell’immobile successivamente ceduto, con conseguente rideterminazione della maggiore imposta dovuta.

3. I contribuenti proponevano appello, eccependo l’omessa motivazione in ordine alle eccezioni preliminari avanzate in primo grado, con particolare riferimento a quella di nullità della notifica degli avvisi di accertamento. Il cuore della doglianza fatta valere con il gravame ruotava intorno all’insussistenza di una plusvalenza tassabile, dal momento che, indipendentemente dalla categoria catastale A/10, l’immobile era stato adibito ad abitazione principale della famiglia e la sua vendita non era finalizzata al perseguimento di un intento speculativo, ma era stata resa necessaria, invece, dalla situazione di crisi familiare sfociata nella separazione personale tra i coniugi.

4. La Commissione Tributaria Regionale, rigettate le eccezioni di nullità concernenti la notifica degli atti impositivi, accoglieva il motivo di ricorso relativo all’insussistenza di una plusvalenza tassabile, annullando gli atti impositivi originariamente impugnati.

Osservava, in proposito, che la disposizione di cui all’art. 67, comma 1, del d.P.R. n. 917 del 1986 (TUIR), nell’escludere dalle plusvalenze tassabili le somme ottenute dalla vendita infraquinquennale di immobili adibiti ad abitazione principale, non contiene alcun riferimento alla loro categoria catastale. Aggiungeva che l’assegnazione di un immobile ad una categoria catastale non può assumere rilevanza probatoria assoluta in ordine all’utilizzo corrispondente alla classificazione, sicché l’inclusione di un immobile in una categoria che normalmente identifica un uso diverso da quello abitativo – come appunto la categoria A/10, che identifica la destinazione ad uso ufficio o studio privato – non precludeva la possibilità di provare, da parte del contribuente, che l’immobile stesso fosse stato effettivamente adibito ad abitazione principale e, come tale, sottratto per legge all’imposizione fiscale sulla plusvalenza derivante dalla vendita prima del decorso di cinque anni dall’acquisto.

Riteneva quindi che tale prova fosse stata fornita con riguardo al periodo intercorrente tra l’acquisto (avvenuto in data 13/2/2006) e la successiva cessione dell’immobile (avvenuta in data 21/9/2007), attraverso la produzione dei certificati di residenza nell’immobile poi ceduto, delle copie delle fatture relative alla fornitura di gas, energia elettrica (per usi domestici) e servizio telefonico, delle copie dei bollettini di pagamento del canone RAI, della tassa rifiuti e delle quote condominiali.

Tale documentazione veniva considerata idonea a superare la presunzione di non utilizzo a fini abitativi derivante dall’assegnazione a tale unità immobiliare della categoria catastale prevista per gli uffici e gli studi privati.

5. Contro questa statuizione l’Agenzia delle entrate propone ricorso, affidato a un unico motivo.

6. Resistono i contribuenti con controricorso, illustrato con memoria.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con l’unico motivo di ricorso proposto ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., l’Agenzia delle entrate lamenta la violazione e/o la falsa applicazione dell’articolo 67, comma 1, del d.P.R. n. 917 del 1986. Secondo la ricorrente, non potrebbe essere considerata “abitazione principale”, sottratta al regime di tassazione delle plusvalenze per le vendite infraquinquennali, l’unità immobiliare che sia stata destinata ab origine ad usi diversi da quello abitativo, ottenendo per tale motivo una classificazione catastale differente rispetto a quelle che normalmente identificano gli immobili adibiti ad abitazione.

Osserva l’Avvocatura generale dello Stato che, in materia fiscale, la classificazione dell’immobile assume particolare importanza, senza che possa rivestire rilievo, ai fini dell’esclusione della presunzione di plusvalenza, la qualificazione “soggettiva”che i contribuenti abbiano attribuito all’immobile, in relazione alle esigenze connesse al proprio nucleo familiare, dovendosi avere riguardo alla natura e funzionalità dell’immobile come cristallizzate nella qualificazione catastale, che avviene –sia per la classificazione ad uso abitativo, sia per quella ad uso commerciale –in base all’accertamento di determinati requisiti tecnici e di autonomia funzionale.

Avrebbe dunque errato la CTR, in quanto, pur avendo constatato che i contribuenti avevano ceduto l’immobile classificato in categoria A/10 prima del decorso di cinque anni dall’acquisto, avrebbe considerato prevalente l’elemento soggettivo – desunto dalla destinazione ad abitazione mediante trasferimento di residenza ed intestazione delle utenze domestiche – su quello oggettivo dell’autonoma funzionalità e caratterizzazione tecnica dell’immobile stesso come locale commerciale in base alla corrispondente classificazione catastale.

2. Ciò premesso, vanno rigettate le eccezioni d’inammissibilità del ricorso sollevate dai controricorrenti, ai sensi dell’art. 360-bis, n. 1, c.p.c. e per difetto del requisito di autosufficienza. Sulla questione dedotta in giudizio, infatti, non si rinvengono precedenti specifici di legittimità in senso conforme alla decisione assunta dalla CTR e certamente non sussistono i presupposti per considerare violato il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione.

3. Nel merito, il motivo è tuttavia infondato .

4. Il legislatore annovera tra i “redditi diversi” assoggettabili a tassazione -sempre che gli stessi non costituiscano redditi di capitale o se non siano conseguiti nell’esercizio di arti e professioni o di imprese commerciali o da società in nome collettivo e in accomandita semplice, né in relazione alla qualità di lavoratore dipendente – le plusvalenze da cessione di immobili.

Per queste ultime, l’art. 67, comma 1, lett. b), TUIR ne prevede la tassazione ove “realizzate mediante cessione a titolo oneroso di beni immobili acquistati o costruiti da non più di cinque anni, esclusi quelli acquisiti per successione e le unità immobiliari urbane che per la maggior parte del periodo intercorso tra l’acquisto o la costruzione e la cessione sono state adibite ad abitazione principale del cedente o dei suoi familiari[…] “.

La ragione della imposizione fiscale sulla plusvalenza prodotta tramite un trasferimento infraquinquennale -riconosciuta, del resto, dalle stesse risoluzioni dell’Agenzia delle entrate richiamate in ricorso – consiste nell’esigenza di tassare una ricchezza prodotta attraverso operazioni di cui si presume un intento speculativo: secondo l’id quod plerumque accidit, infatti, lo speculatore ha interesse a smobilizzare in tempi ragionevolmente brevi l’investimento immobiliare, e la previsione del termine quinquennale costituisce, come è stato osservato in dottrina, una sorta di “oggettivazione legale” dell’animus speculandi. Coerentemente, dunque, la stessa norma esclude dal proprio ambito di operatività gli acquisti di immobili poi adibiti ad abitazione principale, proprio perché in questi casi tale destinazione esclude, per sua natura, un intento speculativo all’origine (in tal senso, anche Corte cost., sentenza n. 171 del 2001), trattandosi di acquisto verosimilmente effettuato per soddisfare l’interesse primario di provvedere al bisogno abitativo, al cospetto del quale il legislatore si disinteressa dell’eventuale plusvalenza generata dalla successiva cessione dell’immobile, anche se perfezionata entro il quinquennio dall’originario acquisto.

Se ne trae che la normativa autorizza a tassare solo ed esclusivamente le plusvalenze derivanti da operazioni immobiliari potenzialmente speculative e tali sono presuntivamente considerate dal legislatore le rivendite di immobili operate nel quinquennio dall’acquisto, salvo che, appunto, per la maggior parte del periodo intercorrente tra l’acquisto e la cessione, tali immobili non siano stati adibiti ad abitazione principale del cedente o dei suoi familiari.

Tale ultima previsione, quindi,concorre a definire il perimetro della fattispecie impositiva, delimitando l’ambito oggettivo del relativo presupposto.

5. Per la ricorrente, non assumerebbe rilievo l’utilizzazione di fatto diversa dalla classificazione catastale, sicché la cessione infraquinquennale dell’immobile non accatastato ad uso abitativo, se produttiva di una plusvalenza, dovrebbe sempre essere assoggettata a tassazione,anche se il bene sia stato di fatto adibito ad abitazione principale per gran parte del periodo intercorso fra acquisto e cessione.

A sostegno di tale assunto, viene richiamata la risoluzione n. 105 del 21 maggio 2007 della stessa Agenzia delle entrate, secondo cui, ai fini della tassazione delle plusvalenze di cui si sta trattando, un immobile rileverebbe come “abitazione principale” solo se (e a partire dal momento in cui) sia stato accatastato come tale.

6. Tale impostazione non appare convincente, nella sua assolutezza.

7. Il punto centrale della questione agitata nel presente giudizio consiste nella definizione del concetto di “abitazione principale” utilizzato dall’art. 67, comma 1, lett. b).

8. La giurisprudenza di legittimità (Cassazione civile sez. VI, 16/07/2019, n. 18963) ha affermato che, in relazione all’applicazione dell’art. 67, comma 1, lett. b), TUIR (e del successivo art. 68, che detta i criteri per il calcolo della plusvalenza), “gli elementi che determinano l’esclusione della fattispecie normativa sono, da un lato, il non superamento di un certo intervallo temporale fra acquisto e vendita – requisito da intendersi nel senso che l’immobile de quo deve essere stato adibito ad abitazione principale del cedente “per la maggior parte del periodo intercorrente tra l’acquisto e la cessione” (Sez. 5, Sentenza n. 18846 del 10/12/2003, Rv. 568761-01) – dall’altro, la destinazione all’uso personale dell’acquirente e dei suoi familiari, secondo criteri oggettivi” (Cass. Sez. 5 -, Sentenza n. 14270 del 13/07/2016).

Occorre, in altre parole, che tale destinazione sia effettiva e non meramente intenzionale, dovendo emergere da una serie di atti aventi estrinsecazione esterna idonei a dimostrare la concreta realizzazione di tale adibizione.

9. Orbene, la tesi qui sostenuta dall’Agenzia delle entrate, che ricollega il concetto di abitazione principale esclusivamente alla classificazione catastale, non è suffragata da altri indici normativi che, nel fornire la relativa nozione, danno rilievo, invece, alla oggettiva destinazione abitativa di fatto impressa all’immobile. In disparte che, come correttamente evidenziato dalla sentenza impugnata, lo stesso art. 67, comma 1, lett. b), non fa alcun riferimento alla categoria catastale dell’immobile, richiedendo esclusivamente la destinazione dello stesso ad abitazione principale, deve evidenziarsi che l’art. 10, comma 3, TUIR, nel disciplinare la deduzione del reddito dell’unità immobiliare adibita ad abitazione principale (fino all’ammontare della rendita catastale), dispone che per quest’ultima si intende quella nella quale chi la possiede a titolo di proprietà o altro diritto reale oppure i suoi familiari dimorano abitualmente.

In modo del tutto analogo, l’art. 15, comma 1, lett. b), TUIR, nel disciplinare le detrazioni per gli oneri consistenti in interessi passivi in dipendenza di mutui garantiti da ipoteca su immobili, contratti per l’acquisto di unità immobiliari da adibire ad abitazione principale entro un anno dall’acquisto stesso, dispone che per abitazione principale si intende quella nella quale il contribuente o i suoi familiari dimorano abitualmente. Risulta evidente, dunque, che, in questi casi, il legislatore tributario attribuisce rilievo ad una situazione di fatto consistente nella dimora abituale in un determinato immobile.

10. Se ciò è vero, a maggior ragione la nozione di abitazione principale deve essere ancorata all’accertamento di una situazione di fatto di oggettiva destinazione dell’immobile a dimora abituale al cospetto di una previsione che, come è riconosciuto dalla stessa ricorrente, punta a colpire la produzione di plusvalenze per intenti puramente speculativi. Poiché la finalità perseguita dal legislatore è quella anti-speculativa, come correttamente riconosciuto anche dall’Agenzia delle entrate, non appare coerente con la ratio legis far dipendere l’esclusione dall’ambito di operatività della tassazione dal mero dato formale della «classificazione catastale» dell’immobile oggetto della cessione infraquinquennale, senza consentire al contribuente di provare l’effettiva adibizione dell’immobile ad abitazione principale, nel senso sopra indicato.

11. Del resto, la stessa Agenzia delle entrate, in documenti di prassi diversi da quello valorizzato in ricorso (e, precisamente, nelle risoluzioni n. 136/E dell’8 aprile 2008 e, soprattutto, n. 218/E del 30 maggio 2008), ha affermato, sempre con riferimento alla nozione utilizzata dall’art. 67, comma 1, lett. b), TUIR, che per abitazione principale si intende quella nella quale il contribuente o i suoi familiari dimorano abitualmente, addirittura a prescindere dalle risultanze dei registri anagrafici, che possono essere smentite da circostanze oggettive, quali l’intestazione delle utenze domestiche, l’utilizzo effettivo dei servizi connessi e l’indicazione del domicilio nella corrispondenza ordinaria.

12. Peraltro, la stessa risoluzione n. 105 del 2007 citata in ricorso non esclude affatto la possibilità di tale prova contraria , in quanto precisa che l’unità immobiliare destinata ad abitazione può anche essere soltanto “classificabile”nelle categorie A1, A2, A3, A4, A5, A6, A7, A8, A9e A11 .

13. Neppure giova alla ricorrente il richiamo al precedente costituito da Cass., Sez. 5, Sentenza n. 18846 del 10/12/2003 (Rv. 568761- 01). Tale pronuncia, nell’esaminare l’art. 81, comma 1 , lett. b (ora art. 67, comma 1, lett. b) TUIR, si è soffermata sul concetto di abitazione principale(ma con riferimento allo straniero che, sia pure per un limitato periodo di tempo, si fosse stabilito in Italia ) e, in primo luogo, ha affermato – in maniera del tutto condivisibile – che, vertendosi in tema di agevolazioni tributarie, si impone una esegesi rigorosamente letterale della norma in esame. Quest’ultima, tuttavia, come si è già osservato, non fa alcun riferimento alla classificazione catastale dell’immobile ceduto. In secondo luogo, il citato precedente ha dato esclusivo rilievo proprio al dato di fatto, risultante da circostanze oggettive, dell’adibizione ad abitazione principale del cedente “per la maggior parte del periodo intercorrente tra l’acquisto e la cessione”, come richiesto anche dall’altro precedente citato in ricorso – Cass., Sez. 5, sentenza 13 luglio 2016, n. 14270 – che ha escluso la rilevanza del mero atteggiamento soggettivo non speculativo dichiarato dal contribuente, non corroborato, però, da indici oggettivi.

14. Tutto ciò premesso, è certamente da ribadire che grava sul contribuente l’onere di provare l’utilizzo dell’unità immobiliare quale abitazione propria o di propri familiari (Cass. sez. V, 18 settembre 2009, n. 20094; Cass. sez. V, 5 novembre 2021, n. 31992).

 Come pure occorre precisare che gli elementi di prova offerti dal contribuente devono essere di natura oggettiva e riferiti ad immobili che siano quantomeno classificabili (anche se non classificati all’attualità) per uso abitativo. In quest’ottica, la diversa classificazione catastale dell’immobile potrà solo costituire elemento indiziario da cui presumere ordinariamente l’inesistenza dei requisiti normativi che legittimano l’esclusione dalla tassazione, ma non potrà impedire al contribuente di dimostrare il contrario, nei sensi innanzi indicati, e quindi di aver comunque utilizzato quale abitazione principale un immobile classificabile come tale, per la maggior parte del periodo intercorrente tra l’acquisto e la successiva cessione.

15. Va anche ribadito che l’adibizione di un immobile ad uso abitativo, in contrasto con la destinazione corrispondente alla categoria catastale, può certamente comportare conseguenze giuridiche, anche di carattere sanzionatorio, non solo dal punto di vista della disciplina urbanistico – edilizia, ma anche sul piano fiscale (come, ad esempio, in tema di determinazione della base imponibile per le imposte legate alla rendita catastale). Tuttavia, l’adibizione di fatto ad abitazione principale è certamente rilevante ai fini contemplati dall’art. 67 TUIR, trattandosi di situazione che lo stesso legislatore fa assurgere ad indicatore oggettivo dell’inesistenza del fine speculativo, altrimenti presunto dallo scarto temporale ridotto tra acquisto e successiva cessione dell’immobile.

16. Conclusivamente, deve essere affermato il principio secondo cui, in caso di cessione,entro il quinquennio dall’acquisto, di un immobile classificato ad uso ufficio, ma oggettivamente classificabile anche ad altri usi abitativi, l’effettiva adibizione di esso ad abitazione principale del cedente (sul quale grava il relativo onere probatorio) o di un suo familiare, da intendersi come destinazione a dimora abituale, ove realizzatasi per la maggior parte del periodo intercorso tra l’acquisto e la cessione, è idonea ad escludere l’assoggettamento a tassazione dell’eventuale plusvalenza conseguita dal cedente, anche se tale destinazione sia avvenuta in contrasto con la classificazione catastale dell’immobile, potendosi anche in tal caso escludere l’intento speculativo dell’operazione.

17. La sentenza della CTR ha fatto corretta applicazione di tale principio.

Sulla base di un accertamento di fatto insindacabile in sede di legittimità, la decisione impugnata, valorizzando, tra le altre circostanze offerte dal contribuente, anche la concessione della residenza nell’immobile oggetto di causa da parte del Comune di Modugno (elemento da cui è possibile desumere l’astratta idoneità dell’immobile stesso ad essere adibito ad abitazione), ha ritenuto dimostrata la destinazione a dimora abituale dei cedenti e della loro famiglia nel lasso di tempo intercorrente tra l’acquisto e la successiva cessione dell’immobile, pur se identificato in catasto con la categoria A/10, e ha coerentemente concluso per l’esclusione dalla tassazione della plusvalenza conseguita.

18. Il ricorso va quindi rigettato.

19. Le spese del giudizio di legittimità, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza di parte ricorrente, nei cui confronti non sussistono, però, i presupposti processuali per il versamento di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso principale (d.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, c. 1-quater).

P.Q.M.

Rigetta il ricorso.

Condanna l’AGENZIA DELLE ENTRATE al pagamento delle spese del giudizio di legittimità in favore dei controricorrenti, che si liquidano in euro 5.000 per compensi, euro 200,00 per esborsi, oltre spese forfettarie al 15 per cento e accessori se dovuti, da distrarsi in favore del difensore Avv. Gennaro Paldera, che ne ha fatto richiesta dichiarandosene anticipatario.

Così deciso, in Roma, il 4 giugno 2024

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