Operazioni soggettivamente inesistenti: quando le prove sono a favore del Fisco
Tributi – II.DD. IVA e IRAP – Accertamento – Operazioni soggettivamente inesistenti – Consapevolezza del contribuente di partecipare ad una frode fiscale – Elemento indiziario – Acquisto sottoscosto delle autovetture
La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 12590 del 25 giugno 2020, intervenendo in merito a presunte operazioni soggettivamente inesistenti, ha affermato che la vendita di autovetture sottocosto costituisce elemento sintomatico di una possibile frode erariale che, a prescindere dall’entità della percentuale applicata dal venditore, avrebbe dovuto comunque insospettire l’acquirente e indurlo ad accertarsi della regolarità dell’operazione commerciale.
Con la nozione di operazioni soggettivamente inesistenti si fa riferimento ai casi in cui la transazione commerciale (cessione di beni o erogazione di servizi) è effettivamente avvenuta – in tal modo non potendosi parlare di operazioni oggettivamente inesistenti – ma il fornitore reale risulta essere differente da quello che appare e che ha emesso la fattura.
In relazione alla nozione di operazione soggettivamente inesistente, si sottolinea come la Corte di Cassazione penale, sezione III, con sentenza del 23 gennaio 2009, n. 3203, ha avuto modo di chiarire che la stessa deve corrispondere, anche per esigenze di omogeneità interpretativa, a quella che è tale oggettivamente, e cioè all’operazione che non è realmente intercorsa tra i soggetti che figurano quale emittente e percettore della fattura o altra documentazione fiscalmente rilevante.
Nello specifico, ciò che caratterizza le operazioni soggettivamente inesistenti è dato dalla divergenza tra la realtà commerciale e la sua espressione documentale e, al riguardo, così si è espressa la Cassazione – Sezione tributaria, sentenza 16 maggio 2012, n. 7672: “In materia di Iva, infatti, la nozione di “fattura inesistente” va riferita, non soltanto all’ipotesi di mancanza assoluta dell’operazione fatturata, ma anche ad ogni tipo di divergenza tra la realtà commerciale e la sua espressione documentale, ivi compresa l’ipotesi – ricorrente nella specie – di inesistenza soggettiva, che ricorre quando, pur risultando i beni, o il servizio reso, entrati nella disponibilità patrimoniale dell’impresa utilizzatrice delle fatture, venga accertato che uno o entrambi i soggetti del rapporto siano falsi. In tal caso, mentre l’obbligo di corrispondere l’imposta sull’operazione soggettivamente inesistente deriva del d.P.R. n. 633 del 1972, art. 21, comma 7, resta evasa l’imposta relativa alla diversa operazione effettivamente realizzata (cfr. Cass. 15374/2002, 6378/2006, 18907/2011)”.
Il punto controverso della questione odierna attiene però alla svalutazione dell’elemento indiziario, effettuato nel giudizio di appello, costituito dall’acquisto sottoscosto delle autovetture, sostanzialmente pretendendo che l’Amministrazione offrisse una prova certa e incontrovertibile.
A tale riguardo è pacifico che in caso di contestazione di fatture soggettivamente inesistenti l’onere della prova è a carico dell’ufficio, il quale, anche tramite presunzioni, deve dimostrare che il soggetto formale che emette le fatture non sia quello reale, nonché la consapevolezza della frode da parte del contribuente: solo a quel punto l’interessato deve fornire la prova contraria, costituita dalla sussistenza della propria buona fede, circostanza che rende legittima la detrazione IVA.
Questi principi sono stati recentemente riaffermati dalla Cassazione con la sentenza n. 20587, depositata il 31 luglio 2019, nella quale vengono indicate alcune circostanze sintomatiche della possibile inesistenza delle operazioni, nonché le cautele che il contribuente può adottare preventivamente per poi attestare la propria estraneità al meccanismo fraudolento. Dal punto di vista unionale, il precedente giurisprudenziale di riferimento insiste con la sentenza 21 giugno 2012 nelle cause riunite C-80/11 e C-142/11, nella quale il principio secondo cui il diritto a detrazione è diretto a garantire “la perfetta neutralità dell’imposizione fiscale per tutte le attività economiche, indipendentemente dallo scopo o dai risultati di dette attività, purché queste siano di per sé soggette all’IVA” e che, in buona sostanza, la detrazione dell’IVA non può essere negata, in linea di principio, a causa di irregolarità commesse dall’emittente della fattura.
La Corte di Giustizia ha in definitiva preso atto che la posizione degli organizzatori della frode non può essere assimilata a quella di coloro cui tutt’al più potrebbe rimproverarsi, sempreché tale circostanza risulti da elementi oggettivi, la conoscibilità della frode altrui. Peraltro, la stessa Corte Europea mostra di valorizzare appieno la prova indiziarla o presuntiva, laddove afferma che la sussistenza di “indizi” che consentano di sospettare l’esistenza di irregolarità o di evasioni nella sfera dell’emittente delle fatture deve indurre l’operatore avveduto ad assumere informazioni sul soggetto dal quale intenda acquistare beni o servizi. In difetto, non potrà che essere escluso – per le ragioni suindicate – il diritto del medesimo alla detrazione di imposta (C. Giust. CE, 21/6/12).
Al riguardo è bene annotare anche quanto affermato con l’ordinanza n. 5873 del 28 febbraio 2019, che ha fatto espressa applicazione di siffatta giurisprudenza unionale elaborando il principio di diritto secondo cui “non può revocarsi in dubbio che tale prova possa essere fornita anche mediante presunzioni, come espressamente prevede, per L’IVA, il D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54, comma 2 (analoga previsione è contenuta, per le imposte dirette, nel D.P.R. n. 917 del 1986, art. 39, comma 1, lett. d)” (cfr. Cass. 21953/07, Cass. 9108/12, Cass. 15741/12).
Da segnalare, infine, anche una precedente pronunzia degli Ermellini, la n. 2382 depositata il 4 febbraio 2014, che intervenendo in tema di detraibilità IVA riaffermava che nelle operazioni soggettivamente inesistenti il meccanismo dell’operazione e gli scopi che la stessa si propone fanno presumere la piena conoscenza della frode e la consapevole partecipazione all’accordo simulatorio del beneficiario finale: ne consegue che l’IVA assolta da quest’ultimo nelle operazioni commerciali con la società filtro non è detraibile, anche se le operazioni siano state effettivamente compiute e le relative fatture, al pari dell’intera documentazione contabile, sembrino perfettamente regolari.
Tanto premesso, e tornando al caso in esame, una controversia relativa all’impugnazione di un avviso di accertamento per recupero a tassazione dei costi relativi a operazioni intercorse tra società che l’Amministrazione finanziaria riteneva inesistenti, era portata davanti alla giustizia tributaria, che nei gradi di giudizio accoglieva la tesi della società contribuente ritenendo che, nella specie, l’Agenzia delle entrate non aveva adempiuto l’onere probatorio sulla stessa incombente circa la consapevolezza della società contribuente di partecipare a una frode, sostenendo che la cessione di autovetture con un sottocosto di entità variabile dal 4,40% al 13,78% era troppo modesto per autorizzare nel cessionario il sospetto di una frode fiscale.
Di qui il ricorso in Cassazione dell’Amministrazione sulla base di un unico motivo.
I Supremi Giudici hanno riconosciuto validi i motivi di lagnanza segnalati dall’Avvocatura erariale, ritenendo che: “… Questa Corte (cfr. Cass. Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 5873 del 28/02/2019, Rv. 653071 – 01) ha fatto espressa applicazione di siffatta giurisprudenza unionale elaborando il principio di diritto secondo cui «non può revocarsi in dubbio che tale prova possa essere fornita anche mediante presunzioni, come espressamente prevede, per L’IVA, il D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54, comma 2 (analoga previsione è contenuta, per le imposte dirette, nel D.P.R. n. 917 del 1986, art. 39, comma 1, lett. d)» (cfr. Cass. 21953/07, che fa riferimento alla possibilità che l’amministrazione produca elementi anche indiziari, a sostegno della pretesa fiscale azionata; Cass. 9108/12, Cass. 15741/12, che osserva con chiarezza – in motivazione – come costituisca principio di carattere generale che la prova dei fatti possa essere data anche mediante presunzioni). Peraltro, la stessa Corte Europea mostra di valorizzare appieno la prova indiziarla o presuntiva, laddove afferma che la sussistenza di “indizi”, che consentano di sospettare l’esistenza di irregolarità o di evasioni nella sfera dell’emittente delle fatture, deve indurre l’operatore avveduto ad assumere informazioni sul soggetto dal quale intenda acquistare beni o servizi. In difetto, non potrà che essere escluso – per le ragioni suindicate – il diritto del medesimo alla detrazione di imposta (C. Giust. CE, 21.6.12, cit.)» (Cass. 14 dicembre 2012 n.23078; Cass. 14 dicembre 2012 n. 23560; Cass. 24 maggio 2013 n.12963). Orbene, la sentenza impugnata è eccentrica rispetto alla giurisprudenza unionale e di questa stessa Corte sopra richiamata, in quanto, da un lato, svaluta ingiustificatamente l’elemento indiziario costituito dall’acquisto sottoscosto delle autovetture, facendone discendere la mancanza di prova della conoscibilità da parte della società contribuente che l’operazione invocata a fondamento del diritto a detrazione si inscriveva in un’evasione o in una frode, sostanzialmente pretendendo che l’Amministrazione offrisse una prova certa ed incontrovertibile; dall’altro, non valuta in alcun modo analiticamente gli elementi della fattispecie per verificare se ricorressero gli indizi che avrebbero dovuto rendere edotta la contribuente, con la diligenza media richiesta ad un imprenditore onesto che opera sul mercato. A tale riguardo si consideri che la vendita di autovetture sottocosto costituisce elemento sintomatico di una possibile frode erariale che, a prescindere dall’entità della percentuale applicata dal venditore, avrebbe dovuto comunque insospettire l’acquirente ed indurlo ad accertarsi della regolarità dell’operazione commerciale. Peraltro, nell’appello l’Agenzia delle entrate aveva dato atto anche di altri elementi sintomatici di frode fiscale, tra cui la mancanza di struttura organizzativa della cedente. Tali elementi, complessivamente considerati, chiaramente indicativi di evasione e/o frode fiscale, sono stati erroneamente svalutati e, addirittura, nemmeno considerati dai giudici di appello, che avrebbero dovuto invece ritenerli sintomatici dell’inesistenza delle operazioni commerciali accertate e porre a carico della società contribuente e dei suoi soci l’onere di provarne l’effettività. La sentenza impugnata va, quindi, cassata con rinvio alla competente CTR per nuova disamina, in particolare sull’assolvimento in capo ai contribuenti dell’onere probatorio sui medesimi incombenti, alla stregua dei principi giurisprudenziali sopra citati, e per la regolamentazione delle spese del presente giudizio di legittimità”.

Corte di Cassazione – Ordinanza 25 giugno 2020, n. 12590
sul ricorso iscritto al n. 16518/2018 R.G. proposto da:
AGENZIA DELLE ENTRATE, C.F. 06363391001, in persona del Direttore pro tempore, rappresentata e difesa dall’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, presso la quale è domiciliata in Roma, alla via dei Portoghesi n. 12;
– ricorrente –
contro C. M. e C. R.;
– intimati –
avverso la sentenza n. 3165/10/2017 della Commissione tributaria regionale dell’EMILIA ROMAGNA, depositata in data 20/11/2017;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 27/02/2020 dal Consigliere Lucio LUCIOTTI.
Rilevato che
1. In controversia relativa ad impugnazione di un avviso di accertamento ai fini delle II.DD., IVA ed IRAP emesso dall’Agenzia delle entrate nei confronti della M. s.n.c. di C.M. & C., nonché dei soci M. e R.C., per recupero a tassazione dei costi relativi ad operazioni intercorse con la B. s.r.I., nell’anno d’imposta 2006, che l’amministrazione finanziaria riteneva inesistenti, la CTR, pur prendendo atto della riduzione della pretesa fiscale (a seguito di annullamento parziale dell’atto impositivo, adottato in autotutela dall’amministrazione finanziaria in applicazione dell’art. 8 della legge n. 44 del 2012), accoglieva l’appello dei contribuenti ritenendo che nella specie l’Agenzia delle entrate non aveva adempiuto l’onere probatorio sulla medesima incombente circa la consapevolezza della società contribuente di partecipare ad una frode, sostenendo che la cessione di autovetture con un sottocosto di entità variabile dal 4,40% al 13,78% era troppo modesto per autorizzare nel cessionario il sospetto di una frode fiscale.
2. Avverso tale statuizione l’Agenzia delle entrate ricorre per cassazione sulla base di un unico motivo, cui non replicano gli intimati.
3. Sulla proposta avanzata dal relatore ai sensi del novellato art. 380 bis cod. proc. civ., risulta regolarmente costituito il contraddittorio nei confronti dei due soci, essendo medio tempore cessata la società.
Considerato che
1. Con il primo motivo di ricorso la ricorrente deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 19, 21, comma 7, del d.P.R. n. 633 del 1972, 2697, 2727 e 2729 cod. civ., sostenendo che aveva errato la CTR a ritenere l’insussistenza dei requisiti richiesti dalla giurisprudenza in materia di inesistenza soggettiva delle operazioni commerciali contestate.
2. Al riguardo va reiterato l’insegnamento della Corte di Giustizia reso con la sentenza 21 giugno 2012 nelle cause riunite C-80/11 e C-142/11 (Mahagében Kft e Péter Dàvid) secondo cui: «Gli articoli 167, 168, lettera a), 178, lettera a), 220, punto 1, e 226 della direttiva 2006/112/CE del Consiglio, del 28 novembre 2006, relativa al sistema comune d’imposta sul valore aggiunto, devono essere interpretati nel senso che ostano a una prassi nazionale in base alla quale l’amministrazione fiscale nega ad un soggetto passivo il diritto di detrarre, dall’importo dell’imposta sul valore aggiunto di cui egli è debitore, l’importo dell’imposta dovuta o versata per i servizi che gli sono stati forniti, con la motivazione che l’emittente della fattura correlata a tali servizi, o uno dei suoi fornitori, ha commesso irregolarità, senza che detta amministrazione dimostri, alla luce di elementi oggettivi, che il soggetto passivo interessato sapeva o avrebbe dovuto sapere che l’operazione invocata a fondamento del diritto a detrazione si iscriveva in un’evasione commessa dal suddetto emittente o da un altro operatore intervenuto a monte nella catena di prestazioni».
Inoltre, «Gli articoli 167, 168, lettera a), 178, lettera a), e 273 della direttiva 2006/112 devono essere interpretati nel senso che ostano a una prassi nazionale in base alla quale l’amministrazione fiscale nega il diritto a detrazione con la motivazione che il soggetto passivo non si è assicurato che l’emittente della fattura correlata ai beni a titolo dei quali viene richiesto l’esercizio del diritto a detrazione avesse la qualità di soggetto passivo, che disponesse dei beni di cui trattasi e fosse in grado di fornirli e che avesse soddisfatto i propri obblighi di dichiarazione e di pagamento dell’imposta sul valore aggiunto, o con la motivazione che il suddetto soggetto passivo non dispone, oltre che di detta fattura, di altri documenti idonei a dimostrare la sussistenza delle circostanze menzionate, benché ricorrano le condizioni di sostanza e di forma previste dalla direttiva 2006/112 per l’esercizio del diritto a detrazione e sebbene il soggetto passivo non disponga di indizi che giustifichino il sospetto dell’esistenza di irregolarità o evasioni nella sfera del suddetto emittente».
3. Questa Corte (cfr. Cass. Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 5873 del 28/02/2019, Rv. 653071 – 01) ha fatto espressa applicazione di siffatta giurisprudenza unionale elaborando il principio di diritto secondo cui «non può revocarsi in dubbio che tale prova possa essere fornita anche mediante presunzioni, come espressamente prevede, per L’IVA, il D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54, comma 2 (analoga previsione è contenuta, per le imposte dirette, nel D.P.R. n. 917 del 1986, art. 39, comma 1, lett. d)» (cfr. Cass. 21953/07, che fa riferimento alla possibilità che l’amministrazione produca elementi anche indiziari, a sostegno della pretesa fiscale azionata; Cass. 9108/12, Cass. 15741/12, che osserva con chiarezza – in motivazione – come costituisca principio di carattere generale che la prova dei fatti possa essere data anche mediante presunzioni).
4. Peraltro, la stessa Corte Europea mostra di valorizzare appieno la prova indiziarla o presuntiva, laddove afferma che la sussistenza di “indizi”, che consentano di sospettare l’esistenza di irregolarità o di evasioni nella sfera dell’emittente delle fatture, deve indurre l’operatore avveduto ad assumere informazioni sul soggetto dal quale intenda acquistare beni o servizi. In difetto, non potrà che essere escluso – per le ragioni suindicate – il diritto del medesimo alla detrazione di imposta (C. Giust. CE, 21.6.12, cit.)» (Cass. 14 dicembre 2012 n.23078; Cass. 14 dicembre 2012 n. 23560; Cass. 24 maggio 2013 n.12963).
5. Orbene, la sentenza impugnata è eccentrica rispetto alla giurisprudenza unionale e di questa stessa Corte sopra richiamata, in quanto, da un lato, svaluta ingiustificatamente l’elemento indiziario costituito dall’acquisto sottoscosto delle autovetture, facendone discendere la mancanza di prova della conoscibilità da parte della società contribuente che l’operazione invocata a fondamento del diritto a detrazione si inscriveva in un’evasione o in una frode, sostanzialmente pretendendo che l’Amministrazione offrisse una prova certa ed incontrovertibile; dall’altro, non valuta in alcun modo analiticamente gli elementi della fattispecie per verificare se ricorressero gli indizi che avrebbero dovuto rendere edotta la contribuente, con la diligenza media richiesta ad un imprenditore onesto che opera sul mercato. A tale riguardo si consideri che la vendita di autovetture sottocosto costituisce elemento sintomatico di una possibile frode erariale che, a prescindere dall’entità della percentuale applicata dal venditore, avrebbe dovuto comunque insospettire l’acquirente ed indurlo ad accertarsi della regolarità dell’operazione commerciale. Peraltro, nell’appello l’Agenzia delle entrate aveva dato atto anche di altri elementi sintomatici di frode fiscale, tra cui la mancanza di struttura organizzativa della cedente. Tali elementi, complessivamente considerati, chiaramente indicativi di evasione e/o frode fiscale, sono stati erroneamente svalutati e, addirittura, nemmeno considerati dai giudici di appello, che avrebbero dovuto invece ritenerli sintomatici dell’inesistenza delle operazioni commerciali accertate e porre a carico della società contribuente e dei suoi soci l’onere di provarne l’effettività.
6. La sentenza impugnata va, quindi, cassata con rinvio alla competente CTR per nuova disamina, in particolare sull’assolvimento in capo ai contribuenti dell’onere probatorio sui medesimi incombenti, alla stregua dei principi giurisprudenziali sopra citati, e per la regolamentazione delle spese del presente giudizio di legittimità.
P.Q.M.
accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa alla Commissione tributaria regionale dell’Emilia Romagna, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità. Così deciso in Roma il 27/02/2020