CASSAZIONE IVA

Operazioni oggettivamente inesistenti e ripartizione dell’onere probatorio

IVA – Tributi – Accertamento – Reddito d’impresa – Frode carosello – Operazioni soggettivamente inesistenti – Onere della prova – Fornitore IVA già cessato

La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 28447 del 15 ottobre 2021è tornata a interessarsi della ripartizione dell’onere probatorio nelle contestazioni di fatture per operazioni inesistenti, in un caso che vedeva le prestazioni fatturate da un fornitore già cessato dalla partita IVA, per affermare che per quanto realmente eseguite, tali operazioni si configurano come soggettivamente inesistenti. Non risulta quindi sufficiente la sola acquisizione del certificato camerale di vigenza del fornitore, per testimoniare la validità dell’iscrizione all’interno del Registro delle Imprese, per cui l’IVA addebitata in fattura deve ritenersi indetraibile salvo prova contraria del committente, per dimostrare l’assenza di consapevolezza di partecipare ad un’evasione fiscale.

La giurisprudenza sul tema ha fornito una vasta produzione, individuando sempre che all’Agenzia delle Entrate spetta la prova, anche in forma presuntiva piuttosto che indiziaria, della circostanza che l’operazione riportata in fattura non è in realtà stata – in tutto o in parte – effettuata.

Dopodiché, l’onere di dimostrare l’effettività dell’operazione confutata compete al contribuente e tale circostanza non potrà dirsi provata unicamente deducendo la regolarità formale della fattura stessa, della contabilità o dei mezzi di pagamento, perché potrebbero essere dei mezzi fraudolenti normalmente utilizzati per fornire apparenza di realtà alla frode: invece, occorre fornire altri elementi e circostanze connessi alla sostanza dell’operazione.

Tali principi sono stati già affermati, in varie forme, dalla Suprema Corte con la sentenza Cass, sez. 5, 18 dicembre 2019, n. 33598 in linea con un orientamento piuttosto consolidato che aveva fatto propri i principi già espressi dalla Corte di Giustizia Europea (cfr. Cass. n. 17818 del 09/09/2016; Cass. n. 21953 del 2007, Cass. n. 9784 del 2010, Cass. n. 9108 del 2012, Cass. n. 15741 del 2012, Cass. n. 23560 del 2012, Cass. n. 27718 del 2013, Cass. n. 20059 del 2014, Cass. n. 26486 del 2014, Cass. n. 9363 del 2015; Cass. n. 2905 del 07.02.2018;  30 ottobre 2018, n. 27566; Cass., 24 agosto 2018, n. 21104; Cass., 14 marzo 2018, n. 6291; Cass., 28 marzo 2018, n. 7613; ).

Risulta ormai evidente che nel caso particolare la prova della consapevolezza dell’evasione richiede che l’Amministrazione finanziaria dimostri, in base a elementi oggettivi e specifici non limitati alla mera fittizietà del fornitore, che il contribuente sapeva o avrebbe dovuto sapere, con l’ordinaria diligenza e in rapporto alla qualità professionale ricoperta, che l’operazione si inseriva in una evasione fiscale, ossia che egli disponeva di indizi idonei a porre sull’avviso qualunque imprenditore onesto e mediamente esperto sulla sostanziale inesistenza del contraente.

L’Amministrazione finanziaria, dunque, non può limitarsi a dimostrare l’inidoneità operativa del cedente, ma deve dimostrare anche che il cessionario, quantomeno, fosse in grado di percepire (o “avrebbe dovuto”) tale inidoneità in base alla sua diligenza specifica quale operatore medio del settore. Più in generale l’Amministrazione finanziaria ha l’onere di provare (in base a elementi oggettivi, anche presuntivi) che il cessionario o committente si trovava di fronte a circostanze indizianti dell’esistenza di irregolarità nell’operazione.

Ancor più recentemente i Supremi Giudici sono intervenuti sul tema con l’ordinanza n. 19169 del 6 luglio 2021, fornendo ulteriori chiarimenti sul trattamento impositivo dei costi per operazioni inesistenti, citando che in relazione alla deducibilità dei costi da attività illecita, l’art. 2, comma 8, della legge 27 dicembre 2002 n. 289, ha inserito il comma 4-bis dopo il comma 4 della legge 537/1993, in base al quale “nella determinazione dei redditi di cui all’art. 6, comma 1, del testo unico delle imposte sui redditi … non sono ammessi in deduzione i costi o le spese riconducibili a fatti, atti o attività qualificabili come reato, fatto salvo l’esercizio di diritti costituzionalmente riconosciuti”.

L’art. 8 del Dl 16 del 2012, sostituendo il comma 4-bis della legge 537/1993, ha invece poi reso possibile, a determinate condizioni, la deducibilità di costi collegati a reati con esclusione, però, dei costi e delle spese “direttamente utilizzati” per il compimento di attività qualificabili come delitto non colposo per il quale il Pubblico ministero abbia esercitato l’azione penale. In particolare, il nuovo art. 14, comma 4-bis, legge 537/1993, prevede che “Nella determinazione dei redditi di cui all’art. 6, comma 1, del testo unico delle imposte sui redditi…. non sono ammessi in deduzione i costi e le spese dei beni o delle prestazioni di servizio direttamente utilizzati per il compimento di atti o attività qualificabili come delitto non colposo per il quale il Pubblico Ministero abbia esercitato l’azione penale o, comunque, qualora il giudice abbia emesso il decreto che dispone il giudizio ai sensi dell’art. 424 del codice di procedura penale, ovvero sentenza di non luogo a procedere ai sensi dell’art. 425 dello stesso codice fondata sulla sussistenza della causa di estinzione del reato prevista dall’art. 157 del codice penale. Qualora intervenga una sentenza definitiva di assoluzione ai sensi dell’art. 530 del codice di procedura penale, ovvero una sentenza definitiva di non luogo a procedere ai sensi dell’art. 425 dello stesso codice fondata sulla sussistenza di motivi diversi dalla causa di estinzione indicata nel periodo precedente, ovvero una sentenza definitiva di non doversi procedere ai sensi dell’art. 529 del codice di procedura penale, compete il rimborso delle maggiori imposte versate in relazione alla non ammissibilità in deduzione prevista dal periodo precedente e dei relativi interessi”.

Al comma 2 dell’art. 8 del Dl 16/2012 si prevede, inoltre, che “ai fini dell’accertamento delle imposte sui redditi non concorrono alla formazione del reddito oggetto di rettifica i componenti positivi direttamente afferenti a spese o altri componenti negativi relativi a beni o servizi non effettivamente scambiati o prestati, entro i limiti dell’ammontare non ammesso in deduzione delle predette spese e/o altri componenti negativi”.

Tanto premesso, e tornando al caso in dibattimento, la controversia trae origine dall’avviso di accertamento con il quale l’Agenzia delle entrate ha contestato al contribuente l’indebita detrazione di IVA, in relazione a fatture fittizie emesse dal fornitore (ditta individuale), relative a operazioni ritenute soggettivamente inesistenti. Nello specifico, la ditta fornitrice era priva di partita IVA per averla cessata anni prima e non aveva provveduto a versare la corrispondente imposta addebitata in fattura: pertanto, sebbene la fattura riguardasse operazioni oggettivamente eseguite, le Entrate le hanno considerate come soggettivamente inesistenti, recuperando così l’IVA detratta dal contribuente.

La società contribuente, rivolgendosi alla giustizia tributaria, eccepiva fra l’altro la propria buona fede presentando anche un certificato camerale dal quale non risultava la cessazione dell’impresa.

I giudici tributari hanno respinto il ricorso del contribuente motivando la decisione con il fatto che le operazioni, anche se effettivamente eseguite, devono ritenersi soggettivamente inesistenti, in quanto fatturate da un soggetto senza partita IVA e che non ha versato l’imposta corrispondente.

La società contribuente propone ricorso per cassazione, affidato a cinque motivi, in cui essenzialmente denuncia, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c., la violazione e falsa applicazione degli artt. 17, 19 e 21 del DPR 633/72, in combinato disposto con l’art. 2697 c.c., alla luce della giurisprudenza comunitaria, per avere la CTR erroneamente ritenuto indetraibile l’IVA delle fatture emesse dalla ditta E. A., “indipendentemente dalla buona fede sostenuta dalla società”. Ciò, a dire dalla parte contribuente, risulterebbe essere in contrasto con la giurisprudenza comunitaria secondo cui ricade integralmente sull’Amministrazione l’onere della prova della conoscenza/conoscibilità, da parte del contribuente, del carattere fraudolento dell’operazione, non potendosi esigere da quest’ultimo la verifica dell’adempimento da parte del fatturante dei propri obblighi di dichiarazione e di pagamento di IVA.

Sul ricorso della società contribuente la Corte di Cassazione ha confermato la decisione dei giudici tributari e, dunque, la legittimità della pretesa tributaria. La Corte Suprema ha affermato che: “… in materia, questa Corte (Cass. civ. 20 aprile 2018, n. 9851), ha affermato il condivisibile principio di diritto secondo cui «in tema di Iva, l’Amministrazione finanziaria, la quale contesti che la fatturazione attenga ad operazioni soggettivamente inesistenti, inserite o meno nell’ambito di una frode carosello, ha l’onere di provare, anche solo in via indiziaria, non solo l’oggettiva fittizietà del fornitore ma anche la consapevolezza del destinatario che l’operazione si inseriva in una evasione dell’imposta» e, inoltre, che «la prova della consapevolezza dell’evasione richiede che l’Amministrazione finanziaria dimostri, in base ad elementi oggettivi e specifici non limitati alla mera fittizietà del fornitore, che il contribuente sapeva o avrebbe dovuto sapere, con l’ordinaria diligenza in rapporto alla qualità professionale ricoperta, che l’operazione si inseriva in una evasione fiscale, ossia che egli disponeva di indizi idonei a porre sull’avviso qualunque imprenditore onesto e mediamente esperto sulla sostanziale inesistenza del contraente»; l’Amministrazione finanziaria non può limitarsi a dimostrare l’inidoneità operativa del cedente, ma deve dimostrare, altresì, che il cessionario quantomeno fosse in grado di percepire (“avrebbe dovuto”) tale inidoneità in base alla sua diligenza specifica quale operatore medio del settore (Cass., 6864/2016). Più in generale l’Amministrazione finanziaria ha l’onere di provare (in base ad elementi oggettivi, anche presuntivi; Cass., n. 155044 e n. 20059 del 2014) che il cessionario o committente si trovasse di fronte a circostanze indizianti dell’esistenza di irregolarità nell’operazione. Ove l’Amministrazione assolva a detto onere istruttorio, grava sul contribuente la prova contraria di avere adoperato, per non essere coinvolto in un’operazione volta ad evadere l’imposta, la diligenza massima esigibile da un operatore accorto, secondo criteri di ragionevolezza e di proporzionalità in rapporto alle circostanze del caso concreto, non assumendo rilievo, a tal fine, né la regolarità della contabilità e dei pagamenti, né la mancanza di benefici dalla rivendita delle merci o dei servizi (Cass., 30 ottobre 2018, n. 27566; Cass., 24 agosto 2018, n. 21104; Cass., 14 marzo 2018, n. 6291; Cass., 28 marzo 2018, n. 7613; Cass, sez. 5, 18 dicembre 2019, n. 33598); nella sentenza impugnata, la CTR ha fatto corretta applicazione dei suddetti principi, in quanto, con una motivazione congrua ed esente da vizi logici-giuridici, ha sostanzialmente ritenuto assolto l’onere probatorio a carico dell’Amministrazione, in tema di operazioni soggettivamente inesistenti, circa l’oggettiva fittizietà della ditta subappaltatrice e la consapevolezza della contribuente del meccanismo fraudatorio, avuto riguardo, da un lato, all’omesso versamento delle imposte da parte della ditta fatturante, quale circostanza rilevante per la qualificazione della società interposta come cartiera, e dall’altro, all’elemento oggettivo dell’avvenuta cessazione della partiva Iva da parte della ditta fatturante tempo prima (1999) delle operazioni in questione (2005), quale circostanza agevolmente riscontrabile dalla contribuente in base alla sua diligenza specifica quale operatore medio del settore (tramite interrogazione al servizio telematico “verifica della partita IVA”) ed elemento sintomatico non solo della fittizietà della subappaltatrice fatturante ma anche della conoscibilità da parte della contribuente del meccanismo evasivo dell’Iva (v., in tal senso, Cass., sez. 5, n. 7337/2000); a fronte di tali elementi presuntivi, il giudice di appello ha correttamente spostato sulla contribuente l’onere di fornire la prova contraria che ha ritenuto non assolto in quanto dalla prodotta visura della Camera di Commercio di Bergamo, relativa al 2005, non emergeva alcuna informazione circa la posizione IVA della ditta E. mentre emergeva che questa, alla fine del 2005 (anno in cui erano state emesse le fatture contestate) si era cancellata anche dal registro delle imprese; invero, la ritenuta irrilevanza da parte della CTR – sotto il profilo della esclusione della “buona fede” della contribuente – della visura camerale è in linea con l’orientamento di questa Corte secondo cui “il certificato camerale [è] documento che prova soltanto che una impresa è iscritta al registro delle imprese, ma non fornisce alcun elemento in ordine alla effettiva operatività delle società fornitrici” (Cass, sez. 5, 18 dicembre 2019, n. 33598); pertanto, il giudice di appello, ha ritenuto, in linea con i principi in materia, non assolto da parte della società contribuente l’onere probatorio (a contrario) dell’assenza di consapevolezza di partecipare ad un’evasione fiscale, lasciando la stessa “intravedere… un possibile coinvolgimento nell’illecito fiscale”; – in conclusione, il ricorso va complessivamente rigettato”.

Corte di Cassazione – Ordinanza 15 ottobre 2021, n. 28447

sul ricorso iscritto al numero 3928 del ruolo generale dell’anno 2013, proposto Da S. s.r.I., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa, giusta procura speciale in calce al ricorso, dall’Avv.to Salvatore Marotta, elettivamente domiciliato presso lo studio dell’Avv.to Giuseppe Campanelli, in Roma, Via Dardanelli n. 37;

-ricorrente-

Contro Agenzia delle entrate, in persona del Direttore pro tempore, domiciliata in Roma, Via dei Portoghesi n. 12, presso l’Avvocatura Generale dello Stato che la rappresenta e difende;

-controricorrente-

per la cassazione della sentenza della Commissione tributaria regionale del Piemonte, n. 100/36/11, depositata in data 12 dicembre 2011, non notificata.

Udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 9 giugno 2021 al Relatore Cons. Maria Giulia Putaturo Donati Viscido di Nocera.

Rilevato che

– con sentenza n. 100/36/11, depositata in data 12 dicembre 2011, non notificata, la Commissione tributaria regionale del Piemonte accoglieva l’appello proposto dall’Agenzia delle entrate, in persona del Direttore pro tempore, nei confronti di S. s.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, avverso la sentenza n. 2/13/10 della Commissione tributaria provinciale di Torino che aveva accolto parzialmente il ricorso proposto dalla suddetta società, esercente attività di servizi ingegneria integrati, avverso l’avviso di accertamento n. R3203T601369/2008 con il quale l’Ufficio, aveva contestato, per quanto ancora di interesse, per l’anno 2005, l’indebita detrazione di Iva per euro 102.974,00, in relazione a fatture fittizie emesse dalla ditta individuale c.d. cartiera E. A., afferenti a operazioni ritenute soggettivamente inesistenti;

-in punto di diritto, per quanto di interesse, la CTR ha osservato che:

1) indipendentemente dalla buona fede sostenuta dalla società, le operazioni in questione erano soggettivamente inesistenti, in quanto, anche se oggettivamente eseguite, fatturate da un soggetto (ditta individuale E. A.) senza partita Iva e che non aveva versato l’Iva corrispondente; in particolare, la partita Iva della ditta subappaltatrice era cessata il 12.4.99 e tale controllo era facilmente esperibile con una interrogazione di verifica della partita Iva, per cui, sotto tale aspetto, non rilevava la visura della Camera di commercio di Bergamo – allegata al ricorso introduttivo e addotta dalla contribuente a sostegno della propria buona fede – dalla quale non emergeva alcuna informazione relativamente alla partita Iva cessata il 12.4.99 e risultava la cessazione dell’attività di impresa della ditta con effetto dal 31.12.2005, in corrispondenza della fine del periodo interessato dalle fatture;

2) gli elementi presuntivi forniti dall’Ufficio erano sufficienti per invertire l’onere della prova, potendo il diritto alla detrazione essere fatto valere dal committente solo se, in caso di frode, avesse dimostrato la propria estraneità e inconsapevolezza, il che nella specie, non era avvenuto, avendo “lasciato intravedere (in base agli elementi presentati dalle parti) un possibile coinvolgimento nell’illecito fiscale”;

-avverso la sentenza della CTR, la società contribuente propone ricorso per cassazione affidato a cinque motivi cui resiste, con controricorso, l’Agenzia delle entrate;

– il ricorso è stato fissato in camera di consiglio, ai sensi dell’art. 375, secondo comma, e dell’art. 380-bis.1 cod. proc. civ., introdotti dall’art. 1-bis del d.l. 31 agosto 2016, n. 168, convertito, con modificazioni, dalla legge 25 ottobre 2016, n. 197.

Considerato che

-con il primo motivo, la ricorrente denuncia, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c., la violazione e falsa applicazione dell’art. 19 del d.P.R. n. 633/1972, in combinato disposto con l’art. 2697 c.c., per avere la CTR erroneamente negato alla contribuente la detraibilità dell’Iva richiedendo, in aggiunta agli obblighi espressamente previsti dall’art. 19 del d.P.R. n. 600/73, anche quello, non previsto da tale norma, di esperire ogni tipo di indagine per superare i dubbi sul possesso della partita Iva da parte del fornitore;

-con il secondo motivo, la ricorrente denuncia, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c., la violazione e falsa applicazione degli artt. 17, 19 e 21 del d.P.R. n. 633/72, per avere la CTR erroneamente ritenuto la sussistenza di operazioni soggettivamente inesistenti nell’ipotesi in cui, come nella specie, le operazioni fossero state oggettivamente eseguite e il fatto che il fatturante (la ditta E.A.) non fosse attributario di partita Iva e non avesse versato l’Iva corrispondente costituiva circostanza posta al di fuori della sfera di controllo della contribuente;

– con il terzo motivo, la ricorrente denuncia, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c., la violazione e falsa applicazione degli artt. 17, 19 e 21 del d.P.R. n. 633/72, in combinato disposto con l’art. 2697 c.c., alla luce della giurisprudenza comunitaria, per avere la CTR erroneamente ritenuto indetraibile l’Iva portata dalle fatture emesse dalla ditta E. A., “indipendentemente dalla buona fede sostenuta dalla società”; ciò in contrasto con la giurisprudenza comunitaria secondo cui ricade integralmente sull’Amministrazione l’onere della prova della conoscenza/conoscibilità da parte del contribuente del carattere fraudolento dell’operazione, non potendosi esigere da quest’ultimo la verifica dell’adempimento da parte del fatturante dei propri obblighi di dichiarazione e di pagamento di Iva;

– con il quarto motivo, la ricorrente denuncia, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c., l’omessa, insufficiente motivazione su un fatto decisivo e controverso per il giudizio, avendo la CTR, con difetto di motivazione, ritenuto indetraibile l’Iva, ancorché la contribuente avesse, comunque, provato la sua buona fede producendo la visura camerale attestante l’esistenza della ditta individuale nel 2005, in ordine alla quale non rilevava la cessazione dell’attività con effetto dal 31.12.2005 (peraltro, denunciata solo il 13 marzo 2006), dato che il riscontro sulla regolarità della fatturazione del 2005 non poteva che avvenire in corso di esercizio, senza che potesse essere addossato alla contribuente l’onere di controllare la cessazione di una precedente partita Iva della fatturante nel 1999;

– con il quinto motivo, la ricorrente denuncia in relazione all’art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c., l’omessa motivazione su un fatto decisivo e controverso per il giudizio, per avere la CTR affermato, con una espressione sfuggente ed estranea al linguaggio tecnico-giuridico, che “la società resistente [aveva] lasciato intravedere…un possibile coinvolgimento nell’illecito fiscale”, omettendo di pronunciarsi su un profilo fondamentale della controversia;

 – i motivi- da trattarsi congiuntamente, per connessione- sono infondati per le ragioni di seguito indicate;

– in materia, questa Corte (Cass. civ. 20 aprile 2018, n. 9851), ha affermato il condivisibile principio di diritto secondo cui «in tema di Iva, l’Amministrazione finanziaria, la quale contesti che la fatturazione attenga ad operazioni soggettivamente inesistenti, inserite o meno nell’ambito di una frode carosello, ha l’onere di provare, anche solo in via indiziaria, non solo l’oggettiva fittizietà del fornitore ma anche la consapevolezza del destinatario che l’operazione si inseriva in una evasione dell’imposta» e, inoltre, che «la prova della consapevolezza dell’evasione richiede che l’Amministrazione finanziaria dimostri, in base ad elementi oggettivi e specifici non limitati alla mera fittizietà del fornitore, che il contribuente sapeva o avrebbe dovuto sapere, con l’ordinaria diligenza in rapporto alla qualità professionale ricoperta, che l’operazione si inseriva in una evasione fiscale, ossia che egli disponeva di indizi idonei a porre sull’avviso qualunque imprenditore onesto e mediamente esperto sulla sostanziale inesistenza del contraente»; l’Amministrazione finanziaria non può limitarsi a dimostrare l’inidoneità operativa del cedente, ma deve dimostrare, altresì, che il cessionario quantomeno fosse in grado di percepire (“avrebbe dovuto”) tale inidoneità in base alla sua diligenza specifica quale operatore medio del settore (Cass., 6864/2016). Più in generale l’Amministrazione finanziaria ha l’onere di provare (in base ad elementi oggettivi, anche presuntivi; Cass. n. 155044 e n. 20059 del 2014) che il cessionario o committente si trovasse di fronte a circostanze indizianti dell’esistenza di irregolarità nell’operazione.

Ove l’Amministrazione assolva a detto onere istruttorio, grava sul contribuente la prova contraria di avere adoperato, per non essere coinvolto in un’operazione volta ad evadere l’imposta, la diligenza massima esigibile da un operatore accorto, secondo criteri di ragionevolezza e di proporzionalità in rapporto alle circostanze del caso concreto, non assumendo rilievo, a tal fine, né la regolarità della contabilità e dei pagamenti, né la mancanza di benefici dalla rivendita delle merci o dei servizi (Cass., 30 ottobre 2018, n. 27566; Cass., 24 agosto 2018, n. 21104; Cass., 14 marzo 2018, n. 6291; Cass., 28 marzo 2018, n. 7613; Cass, sez. 5, 18 dicembre 2019, n. 33598);

-nella sentenza impugnata, la CTR ha fatto corretta applicazione dei suddetti principi, in quanto, con una motivazione congrua ed esente da vizi logici-giuridici, ha sostanzialmente ritenuto assolto l’onere probatorio a carico dell’Amministrazione, in tema di operazioni soggettivamente inesistenti, circa l’oggettiva fittizietà della ditta subappaltatrice e la consapevolezza della contribuente del meccanismo fraudatorio, avuto riguardo, da un lato, all’omesso versamento delle imposte da parte della ditta fatturante, quale circostanza rilevante per la qualificazione della società interposta come cartiera, e dall’altro, all’elemento oggettivo dell’avvenuta cessazione della partiva Iva da parte della ditta fatturante tempo prima (1999) delle operazioni in questione (2005), quale circostanza agevolmente riscontrabile dalla contribuente in base alla sua diligenza specifica quale operatore medio del settore (tramite interrogazione al servizio telematico “verifica della partita IVA”) ed elemento sintomatico non solo della fittizietà della subappaltatrice fatturante ma anche della conoscibilità da parte della contribuente del meccanismo evasivo dell’Iva (v., in tal senso, Cass., sez. 5, n. 7337/2000);

a fronte di tali elementi presuntivi, il giudice di appello ha correttamente spostato sulla contribuente l’onere di fornire la prova contraria che ha ritenuto non assolto in quanto dalla prodotta visura della Camera di Commercio di Bergamo, relativa al 2005, non emergeva alcuna informazione circa la posizione IVA della ditta E. mentre emergeva che questa, alla fine del 2005 (anno in cui erano state emesse le fatture contestate) si era cancellata anche dal registro delle imprese;

invero, la ritenuta irrilevanza da parte della CTR – sotto il profilo della esclusione della “buona fede” della contribuente – della visura camerale è in linea con l’orientamento di questa Corte secondo cui “il certificato camerale [è] documento che prova soltanto che una impresa è iscritta al registro delle imprese, ma non fornisce alcun elemento in ordine alla effettiva operatività delle società fornitrici” (Cass, sez. 5, 18 dicembre 2019, n. 33598);

pertanto, il giudice di appello, ha ritenuto, in linea con i principi in materia, non assolto da parte della società contribuente l’onere probatorio (a contrario) dell’assenza di consapevolezza di partecipare ad un’evasione fiscale, lasciando la stessa “intravedere… un possibile coinvolgimento nell’illecito fiscale”; – in conclusione, il ricorso va complessivamente rigettato;

 – le spese seguono la soccombenza e vengono liquidate come in dispositivo;

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso

Condanna la ricorrente al pagamento in favore dell’Agenzia delle entrate delle spese di giudizio di legittimità che liquida in euro 5.600,00, oltre spese prenotate a debito. Così deciso in Roma il 9 giugno 2021.

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