CASSAZIONE

Omessa presentazione della dichiarazione: via libera alle presunzioni supersemplici

Tributi – IRAP – IVA – IRPEF – Accertamento – Omessa dichiarazione – Presunzioni supersemplici – Capacità contributiva – Agente di commercio – Società estera – Riconoscimento dei costi dell’attività professionale

Con l’ordinanza n. 14064 del 21 maggio 2024, la Corte di Cassazione si è pronunciata in merito alla possibilità per l’Amministrazione finanziaria di ricorrere, in caso di omessa presentazione della dichiarazione fiscale da parte del contribuente, a presunzioni c.d. supersemplici. La Suprema Corte ha infatti citato il principio di diritto espresso conla sentenzan. 15071/2017, che aveva asserito: “… In tema di accertamento delle imposte sui redditi, nel caso di omessa dichiarazione da parte del contribuente, l’Amministrazione finanziaria, i cui poteri trovano fondamento non già nell’articolo 38 (accertamento sintetico) o nell’articolo 39 (accertamento induttivo), bensì nell’articolo 41 del Dpr 600/1973 (accertamento d’ufficio), può ricorrere a presunzioni supersemplici, anche prive, cioè, dei requisiti di gravità, precisione e concordanza, che comportano l’inversione dell’onere della prova a carico del contribuente, ma deve, comunque, determinare, sia pure induttivamente, i costi relativi ai maggiori ricavi accertati, pena la lesione del parametro costituzionale della capacità contributiva”.

Quindi, come peraltro asserito dalla pronunzia n. 15167/2020, nell’ipotesi di omessa presentazione della dichiarazione, l’ufficio può fare ricorso alle presunzioni supersemplici “… comportanti l’inversione dell’onere della prova a carico del contribuente, il quale può fornire elementi contrari intesi a dimostrare che il reddito non è stato prodotto o è stato prodotto in misura inferiore a quella indicata induttivamente dall’Amministrazione”.

I giudici di legittimità oggi si sono attenuti a questo consolidato orientamento, richiamato anche nella sentenza il principio espresso dalle SS.UU. n. 12108/2009, secondo il quale “… In tema di IRAP, a norma del combinato disposto degli artt. 2, comma 1, primo periodo e 3, comma 1, lett. c), del d.lgs. 15 dicembre 1997, n. 446, l’esercizio dell’attività di agente di commercio di cui all’art. 1, legge 9 maggio 1985, n. 204 è escluso dall’applicazione dell’imposta soltanto qualora si tratti di attività non autonomamente organizzata. Il requisito dell’autonoma organizzazione, il cui accertamento spetta al giudice di merito ed è insindacabile in sede di legittimità se congruamente motivato, ricorre quando il contribuente: a) sia, sotto qualsiasi forma, il responsabile dell’organizzazione e non sia, quindi, inserito in strutture organizzative riferibili ad altrui responsabilità ed interesse; b) impieghi beni strumentali eccedenti, secondo l’”id quod plerumque accidit”, il minimo indispensabile per l’esercizio dell’attività in assenza dell’organizzazione, oppure si avvalga in modo non occasionale di lavoro altrui”.

In considerazione di ciò la Cassazione, attraverso anche la sentenza n. 4944/2018, aveva poi avvertito che il Fisco, per presumere maggiori ricavi, può far ricorso a qualsiasi elemento probatorio, ricorrendo al metodo induttivo con il supporto di presunzioni supersemplici che portano a un’inversione dell’onere della prova. Infatti, nel caso in cui il reddito contestato non sia stato indicato in dichiarazione, trova applicazione l’art. 39, c. 2, lett. a) del DPR 600/1973, che autorizza l’Agenzia delle entrate a valersi, ai fini dell’accertamento, delle informazioni e delle notizie raccolte in qualsivoglia maniera e di cui è venuta a conoscenza, con la possibilità di beneficiare anche di presunzioni prive dei requisiti di gravità, precisione e concordanza.  In sostanza, viene così ribadito che nel caso in cui non sia stata presentata la dichiarazione annuale, l’ufficio procedente può determinare imponibile e aliquota sulla base dei dati e delle notizie comunque raccolti o venuti a conoscenza, avvalendosi delle presunzioni supersemplici.

Il metodo induttivo è basato su un procedimento logico diretto a costruire l’imponibile globale senza analizzarne le singole parti semplici, bensì impiegando nella costruzione tutte le notizie, le prove ed i dati anche soltanto extracontabili comunque raccolti. Attraverso tale strumento accertativo l’ufficio è legittimato alla rettifica del reddito con un minor rigore rispetto all’accertamento analitico o a quello misto, e quindi l’induttivo è potenzialmente il metodo più lesivo dei diritti del contribuente: perciò il suo utilizzo è legittimo solo se ricorrono le condizioni tassative (violazioni particolarmente gravi) previste dal comma 2 dell’art 39, DPR 600/73. Al verificarsi di esse il reddito può essere determinato sulla base dei dati e delle notizie comunque raccolti o venuti a conoscenza dell’ufficio e comunque con la facoltà di prescindere in tutto o in parte dalle risultanze del bilancio e delle scritture contabili, utilizzando presunzioni prive dei requisiti di gravità, precisione e concordanza.

Tale metodo, tuttavia, rappresenta un sistema eccezionale che si pone evidentemente all’estremo opposto di quello analitico ed è applicabile, a pena di illegittimità, solo in presenza degli specifici presupposti previsti ex lege o attraverso la mancata indicazione del reddito d’impresa o di lavoro autonomo in dichiarazione.

Gli Ermellini hanno limitato infine il richiamo dei precedenti alla recente ordinanza n. 30914/2022, dove avevano riaffermato che in caso di omessa presentazione della dichiarazione dei redditi il potere di accertamento di ufficio dell’Amministrazione finanziaria ex art. 41, DPR 600/1973 prescinde dalla metodologia di cui all’art. 39 DPR cit. (in tema di accertamento induttivo), potendo l’ufficio ricorrere a presunzioni supersemplici, purché siano determinati, ancorché induttivamente, i costi relativi ai maggiori ricavi accertati, tenuto conto delle componenti negative emerse dagli accertamenti compiuti, nel qual caso l’ufficio può fare ricorso a qualsiasi elemento probatorio, spettando al contribuente la prova contraria dell’esistenza di elementi contrari tesi a provare che il reddito (risultante dalla somma algebrica di costi e ricavi) non è stato prodotto o è stato prodotto in misura inferiore a quella indicata dall’ufficio.

Analoga autorizzazione è contenuta nella successiva lett. d-bis), introdotta nel comma 2 dell’art. 25, L. 28/1999 e afferente alla circostanza nella quale il contribuente non abbia dato seguito agli inviti disposti dagli Uffici, ai sensi dell’articolo 32, co. 1, nn. 3 e 4, rilevanti ai fini dell’accertamento nei loro confronti.

Comunque, al riguardo l’Ufficio ha l’obbligo di considerare i costi relativi ai ricavi accertati, i quali, anche in assenza di indicazioni fornite dal contribuente, devono essere determinati induttivamente con il rischio di incorrere nella violazione della norma sulla determinazione del reddito se ricostruito induttivamente, senza tener conto delle spese, con la conseguente inosservanza del principio costituzionalmente garantito della capacità contributiva.

In riferimento a ciò, recentemente la Suprema Corte, con la sentenza n. 19191/2019 ha ribadito un suo consolidato principio, secondo cui “… nel caso di omessa dichiarazione da parte del contribuente, l’Amministrazione finanziaria, i cui poteri trovano fondamento non già nell’articolo 38, (accertamento sintetico) o nell’articolo 39, (accertamento induttivo), bensì nel Decreto del Presidente della Repubblica n. 600 del 1973, articolo 41, (cd. accertamento d’ufficio), può ricorrere a presunzioni cd. supersemplici, anche prive, cioè, dei requisiti di gravità, precisione e concordanza, che comportano l’inversione dell’onere della prova a carico del contribuente, ma deve, comunque, determinare, sia pure induttivamente, i costi relativi ai maggiori ricavi accertati, pena la lesione del parametro costituzionale della capacità contributiva, senza che possano operare le limitazioni previste dal Decreto del Presidente della Repubblica n. 917 del 1986, articolo 75, (ora 109), in tema di accertamento dei costi, disciplinando tale norma la diversa ipotesi in cui una dichiarazione dei redditi, ancorché infedele, sia comunque sussistente (Cass., 20 gennaio 2017, n. 1506)”.

Sullo specifico argomento la Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 2581/2021 si era anche  pronunciata sul tema dei costi deducibili, statuendo che anche in caso di omessa dichiarazione l’ufficio deve determinare la base imponibile considerando i costi, anche solo induttivamente, relativi ai maggiori costi accertati.

I giudici di legittimità avevano rilevato che in conformità del dictum della Corte Costituzionale, la Corte di Cassazione si era già pronunciata con due successive pronunzie, la n. 1506/2017 e la n. 3995/2009,  così statuendo: “… in tema di accertamento delle imposte sui redditi, nel caso di omessa dichiarazione da parte del contribuente, l’Amministrazione finanziaria, i cui poteri trovano fondamento non già nel Decreto del Presidente della Repubblica n. 600 del 1973, articolo 38 (accertamento sintetico) o nel Decreto del Presidente della Repubblica n. 600 del 1973, articolo 39 (accertamento induttivo), bensì nel Decreto del Presidente della Repubblica n. 600 del 1973, articolo 41 (cd. accertamento d’ufficio), può ricorrere a presunzioni cd. supersemplici, anche prive, cioè, dei requisiti di gravità, precisione e concordanza, che comportano l’inversione dell’onere della prova a carico del contribuente, ma deve, comunque, determinare, sia pure induttivamente, i costi relativi ai maggiori ricavi accertati, pena la lesione del parametro costituzionale della capacità contributiva, senza che possano operare le limitazioni previste dal Decreto del Presidente della Repubblica n. 917 del 1986, articolo 75 (ora articolo 109), in tema di accertamento dei costi, disciplinando tale norma la diversa ipotesi in cui una dichiarazione dei redditi, ancorché infedele, sia comunque sussistente”.

A parere del Collegio di legittimità, e in riferimento all’accertamento globalmente induttivo del reddito d’impresa, vale sempre la regola che il Fisco deve ricostruire il reddito tenendo conto anche delle componenti negative emerse dagli accertamenti compiuti ovvero, in difetto, determinandole induttivamente e/o presuntivamente, al fine di evitare che in contrasto con il principio della capacità contributiva venga sottoposto a tassazione il profitto lordo, anziché quello netto (v. Cass. Sent., n. 26748/2018; sent. n. 23314/2013; Sent. n. 13119/ 2020 e la  Circ. AdE, n. 9/E/2015).

Alla luce del principio di diritto enucleato dai recenti arresti giurisprudenziali in materia di deducibilità di costi presunti, è possibile affermare che la giurisprudenza di legittimità è oramai pacifica nel ritenere che l’accertamento induttivo dei maggiori ricavi non contabilizzati presuppone l’esistenza necessaria di costi deducibili, da determinarsi anche induttivamente. In sostanza, quindi, devono essere dedotti i costi correlati ai maggiori ricavi, con la differenza che, in ipotesi di accertamento induttivo, questi devono essere riconosciuti de plano in misura forfettaria, mentre, in caso di accertamento analitico o analitico-induttivo, il contribuente deve dimostrare, con onere probatorio a suo carico, l’esistenza dei presupposti per la deducibilità degli stessi.

Tanto premesso e tornando al caso oggi prospettato, la vicenda ha inizio con il rigetto, sia in primo che in secondo grado, di un ricorso relativo a un avviso di accertamento per imposte dirette e IVA, tramite cui l’Amministrazione finanziaria aveva accertato in capo al contribuente un reddito non dichiarato riconducibile all’attività di agente svolta presso una società. Ricorrendo per Cassazione, la parte contribuente contestava il fatto che il giudice di appello non avesse riconosciuto i costi sostenuti per l’esercizio della suddetta attività professionale, nonostante l’accertamento in via induttiva dei ricavi. In particolare il contribuente, con il quinto e il sesto motivo denunciava sia la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 53, Cost. E 54, TUIR in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, cod. proc. civ., per non avere la CTR riconosciuto i costi sostenuti dal contribuente per la sua attività professionale, nonostante l’accertamento in via induttiva dei ricavi e la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2, D.lgs. 446/1997, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, cod. proc. civ., per avere la CTR ritenuto sussistente il presupposto per la tassazione dei compensi ai fini IRAP. Tali elementi di ricorso presentati dalla parte contribuente hanno trovato accoglimento presso la Corte di Cassazione, la quale ha chiarito che “… – con il quinto motivo, denuncia la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 53 Cost. e 54 del TUIR, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, cod. proc. civ., per non avere la CTR riconosciuto i costi sostenuti dal contribuente per la sua attività professionale, nonostante l’accertamento in via induttiva dei ricavi; -il motivo è fondato; -occorre rammentare che, in tema di accertamento delle imposte sui redditi, nel caso di omessa dichiarazione da parte del contribuente, l’Amministrazione finanziaria, i cui poteri trovano fondamento non già nell’art. 38 (accertamento sintetico) o nell’art. 39 (accertamento induttivo), bensì nell’art. 41 del d.P.R. n. 600 del 1973 (cd. accertamento d’ufficio), può ricorrere a presunzioni cd. supersemplici, anche prive, cioè, dei requisiti di gravità, precisione e concordanza, che comportano l’inversione dell’onere della prova a carico del contribuente, ma deve, comunque, determinare, sia pure induttivamente, i costi relativi ai maggiori ricavi accertati, pena la lesione del parametro costituzionale della capacità contributiva (Cass. n.1507 del 20/01/2017); – nella specie, avendo il contribuente omesso di presentare le dichiarazioni fiscali per l’anno 2008, l’Amministrazione ha determinato d’ufficio il suo reddito, avvalendosi dei dati comunicati dalla società committente, ma senza considerare i costi relativi ai ricavi accertati che, anche in assenza di indicazioni fornite dal contribuente, dovevano essere determinati induttivamente; – con il sesto motivo, deduce la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2 del d.lgs. n. 446 del 1997, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, cod. proc. civ., per avere la CTR ritenuto sussistente il presupposto per la tassazione dei compensi ai fini IRAP; – anche questo motivo è fondato; – secondo l’ orientamento ormai pacifico di questa Corte, richiamato anche nella sentenza impugnata, “In tema di IRAP, a norma del combinato disposto degli artt. 2, comma 1, primo periodo e 3, comma 1, lett. c), del d.lgs. 15 dicembre 1997, n. 446, l’esercizio dell’attività di agente di commercio di cui all’art. 1, legge 9 maggio 1985, n. 204 è escluso dall’applicazione dell’imposta soltanto qualora si tratti di attività non autonomamente organizzata. Il requisito dell’autonoma organizzazione, il cui accertamento spetta al giudice di merito ed è insindacabile in sede di legittimità se congruamente motivato, ricorre quando il contribuente: a) sia, sotto qualsiasi forma, il responsabile dell’organizzazione e non sia, quindi, inserito in strutture organizzative riferibili ad altrui responsabilità ed interesse; b) impieghi beni strumentali eccedenti, secondo l’”id quod plerumque accidit”, il minimo indispensabile per l’esercizio dell’attività in assenza dell’organizzazione, oppure si avvalga in modo non occasionale di lavoro altrui”(Cass. S. Un. n. 12108 del 26/05/2009);  – la CTR ha ritenuto, male interpretando la decisione richiamata, che l’accertato inserimento del contribuente nella rete di agenti operanti per conto della società sanmarinese e, quindi, in una struttura organizzativa riferibile “ad altrui responsabilità ed interessi”, costituisse il presupposto per l’applicazione dell’IRAP nei confronti del M., mentre si tratta, semmai, di circostanza fattuale che esclude l’assoggettabilità del suo reddito a detta imposta, proprio perché dimostra che il contribuente non era responsabile della struttura organizzativa, ma un semplice collaboratore;  – in conclusione, vanno accolti il quinto e il sesto motivo, rigettati gli altri;la sentenza impugnata va cassata in relazione a i motivi accolti, con rinvio alla Corte di Giustizia Tributaria di secondo grado della Campania, in diversa composizione, per nuovo esame e per provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità”.

Corte di Cassazione – Ordinanza 21 maggio 2024, n. 14064

sul ricorso iscritto al n. 11981/2016R.G. proposto da

M. M., rappresentato e difeso da gli avvocati Oreste e Guglielmo Cantillo, elettivamente domiciliato presso il loro studio in Roma, Lungotevere dei Mellini n. 17 , giusta procura speciale a margine del ricorso;

 – ricorrente –

Contro Agenzia delle entrate, rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso la quale è domiciliata in Roma, via dei Portoghesi n. 12;

 – resistente –

avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della Campania – sezione staccata di Salerno n. 9616/04/2015, depositata il 4.11.2015.

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 22 novembre 2023dal consigliere Tania Hmeljak.

RILEVATO CHE

– La CTP di Salerno rigettava il ricorso proposto da M. M. avverso un avviso di accertamento, per imposte dirette e IVA, in relazione all’anno 2008, con il quale era stato accertato un reddito non dichiarato pari ad € 13.984,00, riconducibile alla sua attività di agente della società sanmarinese Karnak S.A. – c on la sentenza indicata in epigrafe, la Commissione tributaria regionale della Campania – sezione staccata di Salerno rigettava l’appello proposto dal contribuente , rilevando , per quanto ancora qui interessa,che:

– la pretesa occasionalità dell’attività prestata dal contribuente era smentita dal volume degli affari procurati, come si evinceva dalla contabilità della società committente, e dal fatto che il predetto non svolgesse alcuna altra attività lavorativa;

– l’attività di agente di commercio, pertanto, era stata esercitata in maniera professionale e abituale, sicchè il contribuente aveva l’obbligo di tenere le scritture contabili obbligatorie e adempiere agli obblighi fiscali;

– in ordine alla territorialità delle prestazioni, l’Ufficio aveva correttamente applicato la disposizione di cui all’art. 7, comma 1,lett. d) del d.P.R. n. 633 del 1972, avendo condiviso le risultanze dell’indagine condotta dalla Guardia di Finanza, secondo la quale la Karnak aveva una stabile organizzazione in Italia, come era dimostrato dall’esistenza di una fitta rete di agenti residenti in Italia, che procacciavano clienti tutti italiani;

-il M. era comunque tenuto a versare l’IVA, in quanto operava in Italia, anche se per conto di un committente stabilito all’estero;

 -era infondato l’assunto secondo il quale l’opera prestata dal M. sarebbe stata priva di quel minimo apparato logistico costituente presupposto necessario ai fini IRAP, in quanto il contribuente era inserito in una struttura organizzativa (la Karnak) che aveva in Italia una base organizzativa stabile e, quindi, “in strutture organizzative riferibile ad altrui responsabilità ed interessi”;

– l’ammontare delle provvigioni percepite dal M., ai fini IRPEF, era stato calcolato sulla base dei dati forniti dalla società committente; -non si poteva tenere conto né dei costi né dell’assoggettamento dei redditi alla ritenuta del 6%, non avendo il contribuente fornito alcuna prova al riguardo; – il contribuente impugnava la sentenza della CTR con ricorso per cassazione, affidato a sei motivi; – l ‘Agenzia delle entrate si costituiva al solo fine di partecipare all’eventuale udienza di discussione.

CONSIDERATO CHE

-Con il primo motivo di ricorso, il contribuente denuncia la nullità della sentenza impugnata per violazione dell’art. 112 cod. proc. civ., in relazione all’art. 360, comma 1, n. 4, cod. proc. civ., per vizio di ultrapetizione, avendo la CTR respinto l’eccezione di non imponibilità ai fini dell’IVA dei servizi di intermediazione resi dal contribuente, proposta da questi ai sensi dell’art. 9, comma 1, n. 7, del d.P.R. n. 633 del 1972, sulla base di un accertamento di fatto, contenuto nelle controdeduzioni dell’Ufficio (l’esistenza di una stabile organizzazione in Italia della Karnak S.A.), che non era indicato nell’atto impositivo impugnato e nel PVC da cui il primo scaturiva;

-il motivo è inammissibile per carenza di interesse;

– secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, infatti, quando la sentenza di merito impugnata si fonda – come nel caso in esame – su più “ rationes decidendi “ autonome, nel senso che ognuna di esse è sufficiente, da sola, a sorreggerla, perché possa giungersi alla cassazione della stessa è indispensabile che il soccombente censuri tutte le “rationes”; l’omessa impugnazione di una di essere rende, dunque, inammissibile, per difetto di interesse, le censure relative alle altre, le quali, essendo divenuta definitiva l’autonoma motivazione non impugnata, non potrebbero produrre in nessun caso l’annullamento della sentenza (Cass. 27.07.2017, n. 18641; Cass.14.02.2012, n. 2108; Cass. 3.11.2011, n. 22753);

– la CTR non si è limitata a respingere l’eccezione di non imponibilità ai fini IVA, in base all’art. 7, comma 1, lett. d) del d.P.R. n. 633 del 1972, ma ha anche precisato che il M., “proprio in quanto operante in Italia per conto di un committente non soggetto passivo dell’imposta perché stabilito all’estero, sia comunque tenuto al versamento dell’imposta stessa”, ravvisando l’ulteriore fattispecie di cui all’art. 7, comma 3, del d.P.R. n. 633 del 1972; – il ricorrente non ha contestato questa ulteriore ratio decidendi , per cui il predetto motivo è inammissibile;

 – con il secondo motivo, deduce l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 5, cod. proc. civ., per non avere la CTR esaminato la doglianza relativa al regime di non imponibilità ai fini IVA delle prestazioni rese, in quanto relative a servizi di intermediazione riferibili a beni in importazione, in applicazione dell’art. 9, comma 1, n. 7, del d.P.R. n. 633 del 1972, trattandosi di beni trasferiti in Italia solo in conto deposito, al fine di essere custoditi prima della cessione al cliente finale;

– con il terzo motivo, denuncia la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 9, comma 1, n. 7, del d.P.R. n. 633 del 1972, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, cod. proc. civ., per non avere la CTR rilevato che i servizi di intermediazione prestati dal contribuente costituivano servizi internazionali non imponibili;

-con il quarto motivo, lamenta l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 5, cod. proc. civ., per non avere la CTR esaminato la doglianza relativa al calcolo errato delle provvigioni;

– il secondo e il quarto motivo, che vanno esaminati unitariamente, riguardando lo stesso tipo di vizio, sono inammissibili, operando il limite della c.d. “doppia conforme” di cui all’art. 348-ter, comma 5, cod. proc. civ., introdotto dall’articolo 54, comma 1, lett. a), del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, convertito, con modificazioni, nella legge 7 agosto 2012, n. 134, espressamente eccepito dalla controricorrente ed applicabile ratione temporis nel presente giudizio, atteso che l’appello avverso la sentenza di primo grado risulta depositato in data 8.11.2013, non avendo il ricorrente dimostrato che le ragioni di fatto, poste a base, rispettivamente, della decisione di primo grado e della sentenza di appello, erano fra loro diverse (ex multis, Cass. n. 266860 del 18/12/2014; Cass. n. 11439 dell’11/05/2018);

– occorre in ogni caso rammentare che alla fattispecie in esame si applica l’art. 360, comma 1, n. 5 cod. proc. civ. nel testo novellato dall’art. 54 del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv. in legge 7 agosto 2012, n. 134 (essendo stata la sentenza impugnata pubblicata in data 4.11.2015).

A seguito di detta modifica normativa, non trovano più accesso al sindacato di legittimità della Corte le censure riguardanti il vizio di insufficienza o incompletezza della motivazione della sentenza di merito impugnata, essendo denunciabile con il ricorso per cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione (Cass. Sez. U. 7.04.2014, n. 8053);

– la nuova formulazione del vizio di legittimità, introdotta dall’art. 54 del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv. in legge 7 agosto 2012, n. 134, che ha sostituito l’art. 360, comma 1, n. 5 cod. proc. civ. (con riferimento alle impugnazioni proposte avverso le sentenze pubblicate dopo l’11.09.2012), ha limitato il ricorso alla sola ipotesi di “omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”, con la conseguenza che, al di fuori dell’indicata omissione, il controllo del vizio di legittimità rimane circoscritto alla sola verifica della esistenza del requisito motivazionale nel suo contenuto “minimo costituzionale” richiesto dall’art. 111, comma 6, Cost. ed individuato “in negativo” dalla consolidata giurisprudenza della Corte – formatasi in materia di ricorso straordinario – in relazione alle note ipotesi (mancanza della motivazione quale requisito essenziale del provvedimento giurisdizionale; motivazione apparente; manifesta ed irriducibile contraddittorietà; motivazione perplessa od incomprensibile) che si convertono nella violazione dell’art. 132, comma 2, n. 4), c.p.c. e che determinano la nullità della sentenza per carenza assoluta del prescritto requisito di validità (Cass. 2.10.2017, n. 23940);

 -laddove non si contesti la inesistenza del requisito motivazione della provvedimento impugnato, quindi, il vizio di motivazione può essere dedotto solo in caso di omesso esame di un “fatto storico” controverso, che sia stato oggetto di discussione ed appaia “decisivo” ai fini di una diversa decisione, non essendo più consentito impugnare la sentenza per contestare la sufficienza della sua argomentazione sulla base di elementi fattuali ritenuti dal giudice di merito determinanti ovvero scartati in quanto non pertinenti o recessivi (Cass. Sez. U. n. 8053/2014 cit. e Cass. Sez. U. 22.09.2014, n. 19881);

-è stato poi precisato che il controllo previsto dal nuovo n. 5 dell’art. 360, comma 1, cod. proc. civ. concerne l’omesso esame di un fatto “storico”, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia);

– si tratta di censura che, tuttavia, impone a chi la denunci di indicare, nel rigoroso rispetto delle previsioni degli artt. 366, comma 1, n. 6, e 369, secondo comma, n. 4, cod. proc. civ., il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività” (ex multis, Cass. Sez. U. n. 8053/2014 cit.);

– resta fermo che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (ex plurimis, Cass. Sez. U. n. 8053/2014 cit.);

– il ricorrente ha, invece, denunciato il vizio sotto il paradigma previgente di cui all’art. 360, comma 1, n. 5 cod. proc. civ., avendo censurato, nella sostanza, una motivazione insufficiente della sentenza impugnata;

– il terzo motivo è inammissibile per mancanza di specificità, non avendo il contribuente riportato nel ricorso, anche per estratto, il contenuto dei documenti (e non avendoli neppure localizzati) dai quali risulti la sussistenza della asserita non imponibilità delle prestazioni;

– con il quinto motivo, denuncia la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 53 Cost. e 54 del TUIR, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, cod. proc. civ., per non avere la CTR riconosciuto i costi sostenuti dal contribuente per la sua attività professionale, nonostante l’accertamento in via induttiva dei ricavi;

-il motivo è fondato;

-occorre rammentare che, in tema di accertamento delle imposte sui redditi, nel caso di omessa dichiarazione da parte del contribuente, l’Amministrazione finanziaria, i cui poteri trovano fondamento non già nell’art. 38 (accertamento sintetico) o nell’art. 39 (accertamento induttivo), bensì nell’art. 41 del d.P.R. n. 600 del 1973 (cd. accertamento d’ufficio), può ricorrere a presunzioni cd. supersemplici, anche prive, cioè, dei requisiti di gravità, precisione e concordanza, che comportano l’inversione dell’onere della prova a carico del contribuente, ma deve, comunque, determinare, sia pure induttivamente, i costi relativi ai maggiori ricavi accertati, pena la lesione del parametro costituzionale della capacità contributiva (Cass. n.1507 del 20/01/2017);

– nella specie, avendo il contribuente omesso di presentare le dichiarazioni fiscali per l’anno 2008, l’Amministrazione ha determinato d’ufficio il suo reddito, avvalendosi dei dati comunicati dalla società committente, ma senza considerare i costi relativi ai ricavi accertati che, anche in assenza di indicazioni fornite dal contribuente, dovevano essere determinati induttivamente;

– con il sesto motivo, deduce la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2 del d.lgs. n. 446 del 1997, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, cod. proc. civ., per avere la CTR ritenuto sussistente il presupposto per la tassazione dei compensi ai fini IRAP;

-anche questo motivo è fondato;

– secondo l’ orientamento ormai pacifico di questa Corte, richiamato anche nella sentenza impugnata, “In tema di IRAP, a norma del combinato disposto degli artt. 2, comma 1, primo periodo e 3, comma 1, lett. c), del d.lgs. 15 dicembre 1997, n. 446, l’esercizio dell’attività di agente di commercio di cui all’art. 1, legge 9 maggio 1985, n. 204 è escluso dall’applicazione dell’imposta soltanto qualora si tratti di attività non autonomamente organizzata. Il requisito dell’autonoma organizzazione, il cui accertamento spetta al giudice di merito ed è insindacabile in sede di legittimità se congruamente motivato, ricorre quando il contribuente: a) sia, sotto qualsiasi forma, il responsabile dell’organizzazione e non sia, quindi, inserito in strutture organizzative riferibili ad altrui responsabilità ed interesse; b) impieghi beni strumentali eccedenti, secondo l’”id quod plerumque accidit”, il minimo indispensabile per l’esercizio dell’attività in assenza dell’organizzazione, oppure si avvalga in modo non occasionale di lavoro altrui”(Cass. S. Un. n. 12108 del 26/05/2009);

– la CTR ha ritenuto, male interpretando la decisione richiamata, che l’accertato inserimento del contribuente nella rete di agenti operanti per conto della società sanmarinese e, quindi, in una struttura organizzativa riferibile “ad altrui responsabilità ed interessi”, costituisse il presupposto per l’applicazione dell’IRAP nei confronti del M., mentre si tratta, semmai, di circostanza fattuale che esclude l’assoggettabilità del suo reddito a detta imposta, proprio perché dimostra che il contribuente non era responsabile della struttura organizzativa, ma un semplice collaboratore;

– in conclusione, vanno accolti il quinto e il sesto motivo, rigettati gli altri;la sentenza impugnata va cassata in relazione a i motivi accolti, con rinvio alla Corte di Giustizia Tributaria di secondo grado della Campania, in diversa composizione, per nuovo esame e per provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte accoglie il quinto e il sesto motivo, rigettati gli altri; cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia alla Corte di Giustizia Tributaria di secondo grado della Campania, in diversa composizione, anche per provvedere sulle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, nell’adunanza camerale del 22 novembre 2023

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