CASSAZIONE IVA SENTENZE

Omessa dichiarazione IVA: non è rilevante il calcolo delle fatture passive non registrate

Reati tributari – IVA- Imposta evasa – Accertamento tributario – Contenzioso – Art. 5 del DLgs. 74/2000 – Determinazione della soglia di punibilità – Giurisprudenza – Corte Costituzionale Sentenza n. 95/2019 – Sentenza Corte di Giustizia causa C-322/15

La Corte di Cassazione, con la sentenza 10382 del 18 marzo 2021, intervenendo in merito al reato di omessa dichiarazione IVA ha decretato che per la quantificazione dell’imposta evasa non si devono considerare le fatture passive non contabilizzate, che hanno invece rilevanza ai fini delle imposte sui redditi, sottolineando che nell’ambito della responsabilità penale per omessa dichiarazione IVA la determinazione della soglia di punibilità, prevista dall’art. 5 del D.lgs. 74/2000, non deve tener conto delle fatture passive sopra indicate. Può essere utile ricordare che l’art. 5, comma 1, del D.lgs. 74/2000 punisce chiunque, al fine di evadere le imposte sui redditi o l’IVA, non presenti, essendovi obbligato, una selle dichiarazioni relative a dette imposte, quando l’imposta evasa risulti superiore, con riferimento a ciascuna delle imposte stesse, a cinquantamila euro.

Inoltre, sulla pena comminata è intervenuto il DL 124/2019, che ha sostituito la reclusione da “un anno e sei mesi a quattro anni” con la reclusione da “due a cinque anni”.  Tali novelle, tuttavia, hanno avuto efficacia solo a partire dal 24 dicembre 2019, data di pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale della legge di conversione.

Dunque e in altri termini, gli Ermellini hanno nuovamente preso in esame la questione del diverso peso che assumono le fatture non contabilizzate sul calcolo della soglia di punibilità ai fini IVA e IRPEF nell’ambito della responsabilità penale per omessa dichiarazione IVA.

Resta allora possibile, per portare ulteriore chiarezza, fare riferimento al principio che si ricava dalla lettura della sentenza della Corte di Cassazione – sezione penale – n. 26084 del 16 settembre 2020, nella quale si evidenziava che la soglia di punibilità è sempre legata a ogni singola imposta per il reato di omessa dichiarazione. Da non dimenticare che sul tema ha gravato per molti anni il peso del problema che attiene alla dimensione storica delle fonti, declinata sul principio di unità della giurisdizione, che adottava il modello della “pregiudiziale tributaria” nel quale la giustizia penale era postergata a quella tributaria.

Nella diacronia del sistema, per rimediare alle criticità, il legislatore introdusse nel tempo quel regime, definito del “doppio binario”, che respingeva le soluzioni fondate sulla pregiudizialità e che indicava nel principio di specialità della fattispecie il parametro per regolare il rapporto tra le due giurisdizioni.

Il nuovo modello, consentendo di adottare pronunce discordanti, aveva per molti studiosi il vantaggio di rendere autonomi i giudizi ma comportava, secondo altri, lo svantaggio di arrecare non pochi inconvenienti, che coinvolgono i profili di certezza del diritto e il rischio di un contrasto di giudicati.

Da qui l’esigenza di un ragionevole bilanciamento dei valori e degli interessi, che consente di meglio ravvisare uno schema di “confluenze parallele” che, nel rispetto dell’autonomia delle giurisdizioni, riconosca al giudice tributario, nell’ambito del proprio giudizio, il potere di acquisire, a titolo di materiale probatorio o indiziario, atti legittimamente assunti in sede penale.

Tuttavia, la giurisprudenza di legittimità, assottigliando l’autonomia tra i due procedimenti ha attribuito alle determinazioni assunte in ambito amministrativo efficacia dirimente, anche se non vincolante, nella separata sede penal-tributaria.

Da ricordare, al riguardo, anche il recente arresto, dove i supremi Giudici (Terza sezione penale, sentenza n. 10389/2020), rifacendosi a parte della giurisprudenza hanno affermato che ai fini della configurabilità dei reati in materia di IVA la determinazione della base imponibile, e della relativa imposta evasa, deve avvenire solo sulla base dei costi effettivamente documentati, non rilevando l’eventuale sussistenza di costi non documentati, mentre è possibile tener conto di questi ultimi nelle ipotesi di reati concernenti le imposte dirette; l’IVA è invero collocata in un sistema chiuso di rilevanza sovranazionale che prevede la tracciabilità di tutte le fatture, attive e passive, emesse nei traffici commerciali, a nulla rilevando l’eventuale sussistenza di costi effettivi non registrati che, invece, possono essere considerati con riferimento alle imposte dirette, non vincolate al rispetto di stringenti oneri documentali (Sez. 3, n. 53980 del 16/07/2018; Sez. 3, n. 38684 del 04/06/2014).

Inoltre e sempre ai fini IVA, il calcolo non può considerare le fatture passive non registrate, seguendo la linea interpretativa asserito dalla Sentenza della Corte di Giustizia causa C-322/15, per la quale l’omessa dichiarazione IVA e l’omessa registrazione delle fatture risultano essere condotte che possono compromettere il buon funzionamento del sistema IVA.

Gli Stati membri possono equiparare tali condotte all’evasione negando il diritto a detrazione.

Lo stretto collegamento fra le violazioni in materia di IVA relative alla tenuta delle scritture e alle dichiarazioni obbligatorie e gli obblighi connessi al bilancio dell’Unione è stato di recente riconosciuto dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 95 del 2019, che seppur riferita a un reato più grave quale la dichiarazione fraudolenta con false fatture, ha ribadito il principio per cui le norme del D.lgs. 74/2000 rappresentano una visione rigorista ai fini della tutela penale del sistema tributario per il ruolo che riveste la fattura nel sistema IVA.

Così infatti riportano i Giudici della Consulta:” … Nell’art. 2 d.lgs. 74/2000 il legislatore ha inteso, quindi, far emergere lo speciale disvalore “di azione” che, nel suo apprezzamento – in sé non manifestamente irragionevole – la specifica fattispecie presenta. D’altro canto, l’affermazione del giudice a quo – stando alla quale le condotte descritte dall’art. 3 potrebbero rappresentare, per la loro particolare insidiosità, un pericolo in concreto sicuramente eguale (se non più elevato) per il bene giuridico rispetto a quelle punite dall’art. 2 – appare in sé apodittica, non essendo accompagnata nell’ordinanza di remissione dal riferimento ad alcuna ipotesi che valga a dimostrare l’assunto; così come costituisce una semplice “opinione personale” la valutazione di eguale o maggiore insidiosità per l’erario delle condotte di cui all’art. 3 d.lgs. 74/2000. Alla disomogeneità delle fattispecie corrisponde, pertanto, una ragionevole diversità di disciplina, peraltro confermata dal legislatore anche con le riforme del d.l. 138/2011 e del d.lgs. 158/2015 (in particolare con l’eliminazione dell’attenuante speciale dapprima prevista all’art. 2, comma 3, d.lgs. 74/2000), rispetto alla quale la Corte non può che ravvisare, allo stato, una carenza di argomentazione contraria da parte del remittente”.

 Tanto premesso e tornando ai fatti oggi in discussione, un amministratore di società era condannato dal Tribunale per omessa presentazione delle dichiarazioni delle imposte sui redditi e dell’IVA, essendo stata superata la soglia di punibilità per entrambi i tributi.  In sede di appello la pretesa era ridimensionata poiché i giudici aditi ritenevano che ai fini IRPEF l’evasione risultava inferiore alla soglia di punibilità, con conseguente decadenza dal reato, mentre per l’IVA si affermava la non deducibilità dei costi non fatturati.

Su tale punto l’imputato adiva alla Corte di cassazione.

I giudici della Corte di legittimità, investiti del caso, hanno sostenuto la correttezza dei principi applicati dai giudici dell’appello affermando che: “… Una corretta applicazione dei principi fissati dalla Corte di Giustizia e dalla Consulta porta a concludere che gli importi derivanti da fatture ricevute, pertinenti e pagate ma non contabilizzate possono essere calcolati ai fini della soglia di punibilità solo nei casi in cui il mancato rispetto degli obblighi tributari non comporti un complessivo quadro di illegalità incompatibile con le finalità che la Corte di Giustizia e la Consulta hanno evidenziato. Questa Corte ritiene che anche nel caso esame la Corte territoriale abbia fatto buon uso dei principi ricordati e che la condotta del ricorrente, che ha del tutto pretermesso l’esigenza di tenere una corretta contabilità per la verifica dei flussi reddituali e di presentare le periodiche dichiarazioni, rientri tra quelle che escludono la deducibilità delle fatture in contestazione (per considerazioni di analogo tenore e di esaustiva concludenza: Corte di cassazione, Sezione III penale, 7 agosto 2020, n. 23621, non massimata sul punto). Il ricorso pertanto deve essere dichiarato inammissibile ed il ricorrente va condannato, visto l’art. 616 cod. proc. pen., al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 3.000,00 in favore della Cassa delle ammende”.

Corte di Cassazione – Sentenza 18 marzo 2021, n. 10382

sul ricorso proposto da:

M. G., nato a Osimo (An) il 15 dicembre 1971; avverso la sentenza n. 212/2020 della Corte di appello di Ancona del 3 febbraio 2020;

letti gli atti di causa, la sentenza impugnata e il ricorso introduttivo;

sentita la relazione fatta dal Consigliere Dott. Andrea GENTILI;

letta la requisitoria scritta del PM, in persona del Sostituto Procuratore generale Dott.ssa Marilia DI NARDO, il quale ha concluso chiedendo l’annullamento con rinvio della sentenza impugnata.

RITENUTO IN FATTO

La Corte di appello di Ancona, con sentenza emessa in data 3 febbraio 2020, ha in parte riformato la sentenza con la quale, il precedente 2 novembre 2017 il Tribunale dì Macerata aveva condannato M. G. alla pena di giustizia, avendolo ritenuto responsabile del reato di cui all’art. 5 del dlgs n. 74 del 2000, per avere questi, nella qualità di amministratore unico della MCOne srl., al fine di evadere le imposte sui redditi e sul valore aggiunto, omesso di presentare, relativamente agli anni di imposta 2010 e 2011 le prescritte dichiarazioni fiscali, in tal modo evadendo le predette imposte in misura superiore alla prevista soglia di punibilità

La Corte dorica aveva, in particolare, osservato che, per ciò che attiene alle imposte sul reddito, la circostanza che in sede di accertamento tributario fosse stato possibile ricostruire con precisione, oltre agli elementi attivi di reddito, anche gli elementi passivi, aveva comportato, sebbene questi non fossero stati debitamente registrati dall’imputato nei documenti contabili relativi alla società commerciale da lui amministrata, che gli stessi dovevano essere considerati nella determinazione della base imponibile, costituendo, in sostanza, costi da essa deducibili. In esito, pertanto, alla ulteriore verifica compiute in sede di giudizio penale, era risultato che, dedotti i costi accertati, in relazione all’anno di imposta 2011 l’ammontare dell’imposta evasa, parti ad euro 39.319, 86, era inferiore alla prevista soglia di punibilità e, pertanto, in relazione a detto anno di imposta l’omissione della dichiarazione tributaria addebitata al M.G. non aveva alcuna rilevanza penale ed in ordine ad essa, di conseguenza, la sentenza impugnata doveva essere annullata.

Quanto all’anno di imposta 2010, invece, la soglia di punibilità era stata superata, essendo l’importo della imposta evasa pari ad euro 61.139,38; in relazione alla relativa imputazione, pertanto, l’affermazione della penale responsabilità dell’imputato doveva essere confermata.

Parimenti, ha osservato, la Corte di appello, per ciò che attiene alla omessa dichiarazione ai fini IVA, posto che per tale imposta non vale il principio di deducibilità dei costi affrontati. Sulla base dei rilievi esposti la Corte territoriale ha riformato la sentenza del Tribunale, annullandola quanto alla dichiarazione di responsabilità del M.G. in relazione all’evasione delle imposte dirette riguardante i redditi di impresa conseguiti nell’anno 2011, riducendo, convenientemente, la pena inflitta portandola a mesi 10 di reclusione e riducendo l’importo della somma confiscata sino alla concorrenza di euro 190.710,93.

Ha interposto ricorso per cassazione la difesa del prevenuto che ha articolato un solo motivo di ricorso, afferente alla ritenuta violazione di legge in cui sarebbe incorsa la Sezione della Corte di appello di Ancona nel non considerare suscettibile di deduzione dei costi anche l’ammontare non versato dall’imputato della imposta sul valore aggiunto.

CONSIDERATO IN DIRITTO

Il ricorso proposto è manifestamente infondato e, pertanto, lo stesso deve essere dichiarato inammissibile.

Come, infatti, questa Corte ha, ancora di recente ribadito, è inaccettabile la tesi interpretativa articolata dalla difesa della parte ricorrente per ciò che attiene alla deducibilità dei costi sostenuti in regime IVA sebbene non riportati in contabilità.

Correttamente, infatti, i giudici del merito hanno concluso che nel caso in esame, a differenza di quanto avvenuto pei costi sostenuti e per la determinazione delle soglie di punibilità ai fini delle imposte dirette, il relativo calcolo ai fini IVA non può tener conto delle fatture passive non contabilizzate. Come già rilevato da questa Sezione in altra, analoga, occasione, la decisione della Corte di appello fa buon uso dei principi fissati dalla sentenza emessa dalla Corte di Giustizia EU nella causa C-322/15, depositata il 28 luglio 2016, e dalla relativa interpretazione della direttiva n.2006/112/CE. In particolare, la Corte di Giustizia ha posto in relazione la mancata dichiarazione IVA e la “omessa registrazione delle fatture emesse e pagate” alla “esatta riscossione delle imposte” e ricordato che tali condotte sono “atte a compromettere il buon funzionamento del sistema comune dell’IVA”, con la conseguenza che gli Stati membri ben possono equiparare tali condotte alla evasione fiscale e “negare … il beneficio del diritto a detrazione”.

Lo stretto collegamento fra le violazioni in materia di IVA relative alla tenuta delle scritture e alle dichiarazioni obbligatorie e gli obblighi connessi al bilancio dell’Unione è stato di recente riconosciuto dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 95 del 2019, che ha dichiarato non fondata la questione di costituzionalità dell’art. 2 del d.lgs. n. 74 del 2000, sotto il profilo della mancata previsione di soglie di punibilità in ragione dell’importo delle imposte fraudolentemente non dichiarate; pur nel contesto di diversa e più grave ipotesi di reato, la Consulta ha ribadito il principio generale secondo cui le norme fissate dal dlgs n.74 del 2000 dimostrano un particolare rigore del legislatore nella tutela penale del sistema tributario, dato il ruolo che la fattura riveste nel sistema dell’IVA (tributo armonizzato di diritto europeo in base alla direttiva 2006/112/CE del Consiglio del 28 novembre 2006, relativa al sistema comune d’imposta sul valore aggiunto), sistema che garantisce l’attuazione del principio della neutralità dell’imposta rispetto ai soggetti passivi, mediante il meccanismo della rivalsa e della detrazione.

Una corretta applicazione dei principi fissati dalla Corte di Giustizia e dalla Consulta porta a concludere che gli importi derivanti da fatture ricevute, pertinenti e pagate ma non contabilizzate possono essere calcolati ai fini della soglia di punibilità solo nei casi in cui il mancato rispetto degli obblighi tributari non comporti un complessivo quadro di illegalità incompatibile con le finalità che la Corte di Giustizia e la Consulta hanno evidenziato.

Questa Corte ritiene che anche nel caso esame la Corte territoriale abbia fatto buon uso dei principi ricordati e che la condotta del ricorrente, che ha del tutto pretermesso l’esigenza di tenere una corretta contabilità per la verifica dei flussi reddituali e di presentare le periodiche dichiarazioni, rientri tra quelle che escludono la deducibilità delle fatture in contestazione (per considerazioni di analogo tenore e di esaustiva concludenza: Corte di cassazione, Sezione III penale, 7 agosto 2020, n. 23621, non massimata sul punto).

Il ricorso pertanto deve essere dichiarato inammissibile ed il ricorrente va condannato, visto l’art. 616 cod. proc. pen., al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 3.000,00 in favore della Cassa delle ammende.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 3.000,00 in favore della Cassa delle ammende. Così deciso in Roma, il 17 novembre 2020

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