CASSAZIONE

Omessa dichiarazione IVA: le regole per far riconoscere il credito

Tributi – Cartella di pagamento – Recupero credito IVA – Dichiarazione relativa all’anno successivo in cui il diritto alla detrazione era sorto – Precedente dichiarazione IVA omessa – Documentazione contabile del contribuente

La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 8747 del 3 aprile 2024 è intervenuta al fine di comporre il trattamento da riservare alle eccedenze di credito IVA maturate in un periodo d’imposta per il quale la relativa dichiarazione annuale è stata omessa dal contribuente, sia con riguardo ai profili sostanziali e alla sorte del credito maturato, sia con riguardo alle procedure utilizzabili dall’Amministrazione finanziaria ai fini del controllo di tali fattispecie.

Sulla scia di quanto affermato dalle Sezioni Unite con le sentenze 8 settembre 2016, n. 17757 e 17758, gli Ermellini hanno ribadito che l’omissione della dichiarazione IVA da parte del soggetto passivo non comporta ex se la perdita del credito maturato nella stessa annualità (circostanza che si verifica solo in assenza dei requisiti sostanziali del diritto alla detrazione), ma è onere del contribuente, a fronte della contestazione di omissioni o irregolarità, fornire adeguata prova dell’esistenza delle condizioni sostanziali cui la normativa ricollega l’insorgenza del diritto alla detrazione.

In buona sostanza, anche alla luce della successiva giurisprudenza intervenuta, è possibile oggi affermare che la neutralità dell’imposizione armonizzata sul valore aggiunto comporta che, pur in mancanza di dichiarazione annuale per il periodo di maturazione, l’eccedenza d’imposta che risulti da dichiarazioni periodiche e regolari versamenti per un anno e sia dedotta entro il termine previsto per la presentazione della dichiarazione relativa al secondo anno successivo a quello in cui il diritto è sorto, va riconosciuta dal giudice tributario, sempre che il contribuente abbia rispettato tutti i requisiti sostanziali per la detrazione. Nello specifico del caso oggi riportato, l’Agenzia delle entrate aveva precisamente contestato la sussistenza di detto credito avendo affermato nelle controdeduzioni depositate nel giudizio di primo grado che “… la parte non fornisce la prova documentale dell’esistenza del credito, emergente dal quadro VL della dichiarazione presentata per il periodo di imposta”.

Infatti, citando la sentenza n. 18642/2023, rammentiamo che la Cassazione aveva recentemente dichiarato che anche in caso di omessa presentazione della dichiarazione IVA annuale il contribuente può comunque fruire del credito derivante dalla differenza tra l’imposta calcolata sulle vendite e quella assolta sugli acquisti, sempre che, in caso di contestazione da parte dell’Agenzia, si  riesca a fornire un’adeguata prova della sussistenza del credito per presunzioni. La Corte sul caso ha richiamato la giurisprudenza della Corte di Giustizia Ue, dando in premessa una significativa distinzione tra requisiti sostanziali e requisiti formali del diritto alla detrazione, affermando che: “… i requisiti sostanziali (…) sono quelli che stabiliscono il fondamento stesso e l’estensione di tale diritto, quali previsti dall’art. 17 della sesta direttiva”, mentre: “… i requisiti formali (…) disciplinano le modalità e il controllo dell’esercizio del diritto medesimo nonché il corretto funzionamento del sistema dell’IVA, quali gli obblighi di contabilità, di fatturazione e di dichiarazione” (di cui agli artt. 18 e 22 della sesta direttiva) (Causa C-590/13 Idexx Laboratories Italia s.r.l.).

Operata tale distinzione, occorre comprendere anche se il mancato rispetto dei requisiti formali possa determinare il disconoscimento del diritto al rimborso.

Sul punto la Suprema Corte ha specificato che: “… se il contribuente si attiene agli obblighi formali-contabili prescritti dalla normativa interna, grava sull’Amministrazione fiscale che intenda disconoscere il diritto (…) l’onere della relativa contestazione e della consequenziale prova; mentre, se a tali obblighi non si attiene, spetta al contribuente fornire adeguata prova dell’esistenza delle condizioni sostanziali cui la normativa comunitaria ricollega l’insorgenza del diritto alla detrazione, dimostrando che, in quanto destinatario di transazioni commerciali, è debitore dell’IVA e titolare del diritto di detrarre l’imposta” (cfr. Cass. 7576/2015 e 6921/2017).

Su questo punto la Cassazione ha fatto rinvio a un ulteriore precedente giurisprudenziale in tema di onere della prova (Cass. 9611/2017), per cui ove il contribuente: “… dimostri di trovarsi nell’incolpevole impossibilità di produrre tali documenti e di non essere neppure in grado di acquisire copia delle fatture presso i fornitori dei beni o dei servizi, trova applicazione la regola generale prevista dall’art. 2724 c.c., n. 3, secondo cui la perdita incolpevole del documento occorrente alla parte per attestare una circostanza a lei favorevole non costituisce motivo di esenzione dall’onere della prova, né trasferisce lo stesso a carico dell’Ufficio, ma autorizza soltanto il ricorso alla prova per testimoni o per presunzioni”.

A titolo puramente informativo ricordiamo che se l’importo dell’imposta evasa supera una certa cifra l’omessa dichiarazione configura un reato penale e le sanzioni diventano ancora più severe. In particolare: per le omesse dichiarazioni, fino al 2015, come nel caso oggi in dibattimento, oltre i 30.000 euro di imposta evasa la legge prevede da uno a tre anni di reclusione.

Sull’argomento osserviamo che anche l’Agenzia delle entrate ebbe a ribadire, con la risposta a interpello n. 450/2023 (“IVA – Omessa fatturazione ed omessa presentazione della dichiarazione – Sanzioni applicabili e relativo ravvedimento operoso – Decreti legislativi 18 dicembre 1997, n. 471 e n. 472”),come i versamenti e la presentazione della dichiarazione IVA rappresentino i cardini su cui si fonda il sistema fiscale italiano e il connesso apparato di controllo, richiamando le diverse norme sanzionatorie del D.lgs. 471/1997.

Inoltre l’Agenzia, facendo  chiarezza su alcune condotte omissive della società come la mancata fatturazione delle operazioni imponibili, l’omessa dichiarazione IVA e la mancata tenuta della contabilità, specificava con puntualità quali fossero i casi in cui è ammesso il ricorso al ravvedimento operoso. In particolare, tale istituto non consente il cumulo giuridico previsto dall’articolo 12 del decreto citato e la dichiarazione presentata oltre novanta giorni dalla scadenza del termine di presentazione è da considerarsi comunque omessa. L’Amministrazione finanziaria, applicando i principi della Corte di Giustizia dell’Unione europea (direttiva 2006/112), ha anche specificato che “… il prezzo concordato (e, nel caso di specie, incassato) per il servizio reso, inizialmente non fatturato, va inteso come comprensivo dell’imposta laddove il cessionario/committente non possa esercitare la relativa detrazione e al netto della stessa in ipotesi contraria”.

L’altra violazione riguarda gli obblighi relativi alla contabilità, e la norma di riferimento è l’articolo 9 del D.lgs. 471/1997. Secondo l’Agenzia la sanzione è unica per le scritture/documenti non tenuti e poi conservati nel rispetto della legge; “altrettanto non può dirsi per la reiterazione del comportamento tra i vari periodi d’imposta; l’istante potrà dunque procedere a regolarizzare la propria posizione anche ai fini della sua contabilità, istituendo i libri e i registri necessari, nonché emettendo le fatture per le operazioni poste in essere, con contestuale versamento di una sanzione”.

Riguardo, invece, alle dichiarazioni di inizio o variazione di attività (art. 35 del decreto IVA), le Entrate ricordano che: “… la presentazione tardiva, seppur spontanea, della dichiarazione di inizio o  variazione di attività è dunque sempre sanzionabile, con l’effetto che, al fine di evitare tale esito, il ravvedimento risulta imprescindibile”.

L’ultima violazione trattata è l’omesso versamento e l’omessa dichiarazione IVA, dove sono presenti diverse norme sanzionatorie del citato decreto 471. Il contribuente che intende porre rimedio “al proprio precedente comportamento omissivo dovrebbe, tra l’altro, per ciascun periodo d’imposta, emettere le fatture trascurate e comunicare i dati delle liquidazioni periodiche cui non ha provveduto, salvo la regolarizzazione intervenga direttamente con la dichiarazione annuale IVA ovvero successivamente alla sua presentazione; presentare la relativa dichiarazione IVA e versare l’imposta eventualmente dovuta oltre interessi”.

Sin qui i chiarimenti e le soluzioni fornite dal Fisco: tuttavia, tornando alla recente giurisprudenza appare decisiva la soluzione sugli argomenti trattati offerti dalla Suprema Corte a Sezioni Unite con la pronunzia n. 21765/2021, nella quale, colmando un notevole vuoto normativo, aveva preso posizione sull’applicabilità ai dinieghi degli uffici finanziari, in materia di rimborsi IVA, del termine decadenziale previsto, per l’attività di accertamento, dall’art. 57 del DPR 633/1972. Le Sezioni Unite si sono fatte carico, in primo luogo, di fornire un senso di coerenza con quanto affermato dal secondo periodo del comma 1 dell’art. 57, nel quale  l’attività di controllo, che ha come oggetto la dichiarazione IVA nella quale l’eccedenza detraibile richiesta a rimborso scaturisce come risultato differenziale tra l’IVA detraibile sugli acquisti e l’IVA a debito sulle vendite, con la conseguenza che “… gli effetti dell’omesso esercizio del potere di accertamento e di rettifica della dichiarazione si producono … sulla liquidazione che la dichiarazione ha operato…”.

Quando invece la contestazione investe il credito originato dall’IVA sugli acquisti spetta comunque al contribuente dimostrarne la fondatezza, anche quando l’Amministrazione, entro il termine di decadenza per l’accertamento, si sia rivelata inerte, secondo il già citato principio generale ”onus probandi incumbit ei qui dicit” (cfr. art. 2697 del codice civile): “… incombe sul contribuente, il quale invochi il riconoscimento di un credito d’imposta, l’onere di provare i fatti costitutivi dell’esistenza del credito, e, a tal fine, non è sufficiente l’esposizione della pretesa nella dichiarazione, poiché il credito fiscale non nasce da questa, ma dal meccanismo fisiologico di applicazione del tributo” (cfr. C. Cass. sent. 30 ottobre 2018 n. 27580).

In particolare, il quadro così delineato trova compatibilità con i principi costituzionali sia della capacità contributiva sia dell’oggettiva correttezza dell’azione amministrativa. Ciò avviene perché un sistema legislativo che neghi alla dichiarazione la semplice natura di dichiarazione di scienza e di atto non negoziale e non dispositivo e che, quindi, ne neghi il carattere di retrattabilità e di emendabilità, sottoporrebbe il contribuente a un prelievo fiscale sostanzialmente e legalmente indebito, in quanto gli obblighi risultanti dalla dichiarazione stessa avrebbero come presupposto la sua erroneità (v. C. Cass. SS. UU. sent. del 25 n. 15063/2002; Cass. SS. UU. Sent. n. 13378/2016).

Infine, con riguardo all’art. 3 della Costituzione che sancisce il principio di uguaglianza, gli Ermellini ricordano che  “… il fisco può contestare in ogni tempo il proprio debito, ossia la sussistenza del diritto al rimborso che non derivi dalla sottostima dell’imposta dovuta; ma il contribuente può far valere, anche direttamente in sede contenziosa – salvo il limite suindicato, l’errore di fatto o di diritto che abbia infirmato la propria dichiarazione e dal quale sia scaturita l’indicazione di un minor credito d’imposta e, quindi, pur sempre del proprio maggior debito” (Cass., S. U. Sent. n. 21765/2021).

Tanto premesso e tornando al caso oggi dibattuto, la vicenda processuale prendeva le mosse da una cartella di pagamento emessa a seguito di controllo ex art. 54-bis, DPR 633/1972 della dichiarazione IVA per l’anno d’imposta 2007, riguardante il recupero di un credito IVA maturato nell’anno 2006 esposto nella dichiarazione relativa all’anno 2007 ma disconosciuto dall’Amministrazione finanziaria, in quanto la dichiarazione IVA relativa all’anno 2006 era stata presentata solo nel 2009. La società contribuente avrebbe potuto ottenere il riconoscimento del credito solo attraverso la procedura di rimborso nei termini di decadenza previsti dalla legge, che nella specie non era stata attivata. La società si rivolgeva alla giustizia tributaria ricevendo l’arresto della pretesa, mentre la CTR accoglieva l’appello proposto dalla contribuente rilevando che la mancata esposizione del credito IVA nella dichiarazione annuale non comportava la decadenza dal diritto a farlo valere, se lo stesso emergeva dalle scritture contabili.

L’Amministrazione finanziaria si rivolgeva alla Cassazione con un ricorso basato su due motivi, nei quali essenzialmente denunciava, nel secondo motivo, l’omesso esame circa fatti decisivi per il giudizio, che erano stati oggetto di discussione fra le parti, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, cod. proc. civ., per non avere la CTR rilevato che l’Agenzia aveva contestato la sussistenza del credito IVA già nelle controdeduzioni depositate nel giudizio di primo grado, affermando erroneamente che l’Amministrazione finanziaria non aveva messo in discussione il pagamento dell’imposta da parte della contribuente, e che non era stata provata la circostanza della presentazione dell’istanza di annullamento in autotutela, peraltro tardivamente dedotta dalla contribuente solo nelle memorie illustrative depositate in appello. Gli Ermellini hanno convalidato la tesi esposta dall’Avvocatura erariale affermando che “ … il secondo motivo è fondato, non avendo la CTR accertato l’esistenza del credito IVA; – contrariamente a quanto ha sostenuto il giudice di appello, infatti, l’Agenzia delle entrate ha specificatamente contestato la sussistenza di detto credito, avendo affermato nelle controdeduzioni depositate nel giudizio di primo grado (riprodotte in parte qua nel testo del ricorso per cassazione) che “la parte non fornisce la prova documentale dell’esistenza del credito, emergente dal quadro VL della dichiarazione presentata per il periodo di imposta 2007”; – la CTR avrebbe dovuto, quindi, verificare, sulla base della documentazione contabile prodotta in giudizio dalla contribuente, se l’eccedenza IVA risultava provata;  – in conclusione, va accolto il secondo motivo di ricorso, rigettato il primo; la sentenza va cassata, in relazione al motivo accolto , con rinvio, per nuovo esame e per le spese del giudizio di legittimità, alla Corte di Giustizia Tributaria di secondo grado del Lazio in diversa composizione”.

CORTE DI CASSAZIONECorte di Cassazione – Ordinanza 3 aprile 2024

sul ricorso iscritto al n. 24167/2015R.G. proposto da

Agenzia delle entrate, rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso la quale è domiciliata in Roma, via dei Portoghesi n. 12;

– ricorrente –

Contro R. Italia s.p.a. (già M. Italia s.p.a.) , rappresentata e difesa da gli avvocati Agostino Clemente, Roberto Leccese e Antonello Lupo, elettivamente domiciliata presso lo studio del secondo (Studio legale Ughi e Nunziante) in Roma, via Venti Settembre n. 1, giusta procura speciale in calce al controricorso;

– controricorrente –

E nei confronti di Equitalia Sud s.p.a. – intimata –

avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale del Lazio n. 1509/37/2015, depositata il 12.03.2015.Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 3 ottobre 2023 dal consigliere Tania Hmeljak.

RILEVATO CHE

– La CTP di Roma rigettava il ricorso proposto dalla M. Italia s.p.a. (ora R. Italia s.p.a.) avverso la cartella di pagamento, emessa a seguito di controllo ex art. 54-bis del d.P.R. n. 633 del 1972 della dichiarazione IVA per l’anno d’imposta 2007 e riguardante il recupero di un credito IVA maturato nell’anno 2006, esposto nella dichiarazione relativa all’anno 2007, ma disconosciuto dall’Amministrazione finanziaria, in quanto la dichiarazione IVA relativa all’anno 2006era stata presentata solo nel 2009;

– con la sentenza indicata in epigrafe, la Commissione tributaria regionale del Lazio accoglieva l’appello proposto dalla contribuente rilevando che la mancata esposizione del credito IVA nella dichiarazione annuale non comportava la decadenza dal diritto a farlo valere, se lo stesso emergeva dalle scritture contabili;

nella specie, peraltro, la contribuente aveva presentato istanza di annullamento in autotutela, mai riscontrata, che avrebbe posto l’Ufficio nelle condizioni di verificare l’esistenza del credito;

osservava, inoltre, che l’Ufficio non aveva contestato la sussistenza del credito, ma le modalità utilizzate per farlo valere;

– l ‘Agenzia delle entrate impugnava la sentenza della CTR con ricorso per cassazione, affidato a due motivi;

– la società contribuente resisteva con controricorso, illustrato con memoria;

– Equitalia Sud rimaneva intimata.

CONSIDERATO CHE

– Con il primo motivo, la ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 54-bis, 30 e 55 del d.P.R. n. 633 del 1972, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, cod. proc. civ.,per avere la CTR ritenuto erroneamente che la società contribuente potesse portare in detrazione nell’anno 2007 il credito IVA asseritamente maturato nel 2006, ma non tempestivamente esposto nella dichiarazione fiscale per l’anno 2006, che era stata presentata solo nel corso dell’anno 2009 (e, quindi, da ritenersi omessa), potendo in tal caso il contribuente ottenere il riconoscimento del credito solo attraverso la procedura di rimborso nei termini di decadenza previsti dalla legge, che nella specie non era stata attivata;

aggiunge di non avere mai riconosciuto la sussistenza di detto credito, avendolo contestato già nelle controdeduzioni depositate in sede di costituzione nel giudizio di primo grado;

– con il secondo motivo, deduce l’omesso esame circa fatti decisivi per il giudizio, che sono stati oggetto di discussione fra le parti, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, cod. proc. civ., per non avere la CTR rilevato che l’Agenzia aveva contestato la sussistenza del credito IVA già nelle controdeduzioni depositate nel giudizio di primo grado, affermando erroneamente che l’Amministrazione finanziaria non aveva messo in discussione il pagamento dell’imposta da parte della contribuente, e che non era stata provata la circostanza della presentazione dell’istanza di annullamento in autotutela, peraltro tardivamente dedotta dalla contribuente solo nelle memorie illustrative depositate in appello;

-il primo motivo è infondato;

– secondo l’orientamento ormai consolidato di questa Corte, a cui questo collegio intende dare continuità,”La neutralità dell’imposizione armonizzata sul valore aggiunto comporta che, pur in mancanza di dichiarazione annuale per il periodo di maturazione, l’eccedenza d’imposta, che risulti da dichiarazioni periodiche e regolari versamenti per un anno e sia dedotta entro il termine previsto per la presentazione della dichiarazione relativa al secondo anno successivo a quello in cui il diritto è sorto, va riconosciuta dal giudice tributario se il contribuente abbia rispettato tutti i requisiti sostanziali per la detrazione, sicché, in tal caso, nel giudizio d’impugnazione della cartella emessa dal fisco a seguito di controllo formale automatizzato non può essere negato il diritto alla detrazione se sia dimostrato in concreto, ovvero non sia controverso, che si tratti di acquisti compiuti da un soggetto passivo d’imposta, assoggettati ad IVA e finalizzati ad operazioni imponibili” (Cass. Sez. U. 8.09.2016, n. 17757 e Cass.3.04.2018, n. 8131);

– il giudice del gravame si è attenuto al principio sopra enunciato riconoscendo la correttezza dell’esposizione del credito IVA nella dichiarazione relativa all’anno successivo in cui il diritto alla detrazione era sorto, benché proveniente da una precedente dichiarazione omessa, fermo restando che, in caso di contestazione, doveva essere verificata la sussistenza di detto credito;

– il secondo motivo è fondato, non avendo la CTR accertato l’esistenza del credito IVA;

– contrariamente a quanto ha sostenuto il giudice di appello, infatti, l’Agenzia delle entrate ha specificatamente contestato la sussistenza di detto credito, avendo affermato nelle controdeduzioni depositate nel giudizio di primo grado (riprodotte in parte qua nel testo del ricorso per cassazione) che “la parte non fornisce la prova documentale dell’esistenza del credito, emergente dal quadro VL della dichiarazione presentata per il periodo di imposta 2007”;

 – la CTR avrebbe dovuto, quindi, verificare, sulla base della documentazione contabile prodotta in giudizio dalla contribuente, se l’eccedenza IVA risultava provata;

 – in conclusione, va accolto il secondo motivo di ricorso, rigettato il primo;

la sentenza va cassata, in relazione al motivo accolto , con rinvio, per nuovo esame e per le spese del giudizio di legittimità, alla Corte di Giustizia Tributaria di secondo grado del Lazio in diversa composizione.

P.Q.M.

La Corte accoglie il secondo motivo di ricorso e rigetta il primo;

cassa la sentenza impugnata, in relazione al motivo accolto, e rinvia anche per le spese del giudizio di legittimità alla Corte di Giustizia Tributaria di secondo grado del Lazio in diversa composizione. Così deciso in Roma, nell’adunanza camerale del 3 ottobre 2023

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