CASSAZIONE IVA

Obbligo di fattura IVA se la lettera d’intento è revocata

La Corte di Cassazione, con la sentenza 28 febbraio 2017, n. 5174, ha affermato che nell’ipotesi di revoca di una dichiarazione d’intento da parte del cliente, esportatore abituale, l’effetto di esenzione dell’IVA cessa immediatamente o quantomeno dal momento in cui la revoca stessa è portata a conoscenza. Ne consegue che la fattura emessa in un momento successivo deve necessariamente essere emessa assoggettando l’intera operazione all’imposta secondo le regole ordinarie.

Le dichiarazioni di intento sono emesse dai soggetti che acquisiscono lo status di esportatore abituale, ossia che nell’anno solare precedente o negli ultimi 12 mesi hanno registrato esportazioni o altre operazioni assimilate per un ammontare superiore al 10% del volume d’affari conseguito nello stesso periodo. La dichiarazione d’intento può essere ripetuta per ogni singola operazione tra le parti oppure può includere più operazioni. Può pertanto riguardare una singola operazione oppure una serie di operazioni d’importazione, fino a concorrenza di un determinato ammontare da utilizzarsi nell’anno di riferimento. La sua validità, pur essendo ancorata a un determinato periodo di tempo prefissato, fino a revoca oppure fino a concorrenza di un determinato importo, non potrà mai andare oltre il termine del 31 dicembre di ciascun anno.

La dichiarazione d’intento, unitamente alla ricevuta di presentazione rilasciata dall’Agenzia delle entrate, deve essere consegnata al fornitore o al prestatore – ovvero in dogana – il quale deve riscontrarne telematicamente l’avvenuto rilascio tramite un’apposita funzione a libero accesso sul sito web delle Entrate. Dovrà inoltre riepilogare, nella dichiarazione IVA annuale, i dati delle operazioni effettuate senza applicazione dell’imposta contenuti nelle dichiarazioni d’intento ricevute dai singoli esportatori abituali. Inoltre, la dichiarazione deve sempre precedere l’effettuazione del primo acquisto, non sussistendo alcun obbligo in tal senso in presenza di acquisti intracomunitari in sospensione d’imposta. Se l’esportatore abituale invia tardivamente al fornitore la dichiarazione d’intento, quest’ultimo è tenuto a emettere fattura con IVA e l’esportatore avrà diritto a esercitarne la detrazione secondo le ordinarie regole in materia.

Ricordiamo, solo a puro titolo di cronaca, che dal primo marzo 2017 è stato modificato il modello di dichiarazione d’intento, come previsto nel c.d. “Decreto semplificazioni”, il DL 22 ottobre 2016 n. 193, che prevede, fra l’altro, la possibilità di richiedere acquisti in sospensione di IVA per cui resta la possibilità di indicare un importo fisso (quello della fornitura) o un importo massimo valido per più forniture, fino a concorrenza del quale il fornitore dovrà emettere fattura senza IVA.

In sostanza, gli esportatori abituali dovranno indicare, per ciascun fornitore, l’importo fino a concorrenza del quale il fornitore potrà emettere, per l’anno solare di riferimento, fatture senza applicazione dell’IVA.

Tornando al caso di specie, l’Agenzia delle Entrate ha recuperato l’IVA nei confronti del contribuente contestando l’applicazione dell’esenzione, stante la revoca della dichiarazione d’intento da parte del cliente esportatore abituale prima dell’emissione della fattura stessa.

La pretesa tributaria è stata confermata dai giudici tributari regionali, che hanno ritenuto legittimo l’operato dell’ufficio.

La società contribuente ha presentato ricorso sostenendo la corretta applicazione dell’esenzione, considerato che la revoca della lettera d’intento era stata comunicata dal cliente in modo tardivo e irrituale – a mezzo fax – e successivamente alla conclusione dell’operazione, ossia alla consegna della merce, sebbene prima dell’emissione della fattura.

I giudici della Suprema Corte non hanno ritenuto valide le ragioni proposte dalla società ricorrente, sostenendo che “L’art. 1, comma 1, lett. c), del d.l. n. 746 del 1983, conv. con mod. nella legge n. 17 del 1984, nel testo applicabile ratione temporis, fonda le condizioni legittimanti il riconoscimento dell’esenzione dell’imposta IVA e il cui nucleo essenziale è costituito dall’esistenza di una tempestiva dichiarazione d’intenti da parte del beneficiario, regolarmente comunicata con le forme ed ai destinatari previsti dalla norma, sicché, in mancanza di anche uno solo di tali elementi (o dei presupposti formali che la consentono), la fatturazione dell’imposta è dovuta. Ne consegue che, qualora la dichiarazione venga revocata, l’effetto esonerativo cessa immediatamente – o quantomeno dal momento in cui essa è portata a conoscenza – e la fatturazione che venga emessa in un momento successivo deve necessariamente tenerne conto, restando l’intera operazione soggetta al regime ordinario. Costituisce regola generale, del resto, che le operazioni economiche sono imponibili, sicché la mancanza di alcuna delle condizioni che legittimano il regime di esenzione comporta necessariamente la piena riattivazione della regola generale, non potendosi considerare logicamente estendibile – oltre che inammissibile, in quanto risultato di analogia – l’applicazione dei requisiti richiesti per la piena efficacia della dichiarazione d’intenti all’opposta situazione. Altra e diversa evenienza potrebbe essere la comunicazione della revoca della dichiarazione d’intenti dopo l’emissione della fattura, condizione questa, peraltro, che qui non ricorre, e rispetto alla quale, comunque, avrebbe dovuta essere emessa, entro il termine di un anno, variazione ex art. 26 del d.P.R. n. 633 del 1972. Sono invece inammissibili le deduzioni sull’invocata buona fede e sull’asserita assenza di danno per l’erario, trattandosi di profili nuovi, dedotti per la prima volta in sede di legittimità, che non risultano in alcun modo dalla decisione impugnata e senza che la parte abbia indicato ove eventualmente siano state in precedenza dedotti”.

lettere in volo

CORTE DI CASSAZIONE

Sentenza 28 febbraio 2017, n. 5174

Ritenuto in fatto

  1. Con avviso di accertamento l’Agenzia delle Entrate rettificava il reddito della S. Spa per l’anno 2006, ritenendo l’avvenuta dichiarazione di costi indeducibili, l’indebita utilizzazione del fondo svalutazione crediti per perdite, nonché una maggiore imposta IVA, attesa, con particolare riguardo alla fattura n. 574 del 29 novembre 2003, la mancata fatturazione per inapplicabilità del regime di esenzione stante la tempestiva comunicazione da parte del cliente di non poterne fruire.
  2. Sul ricorso della contribuente, la CTP di Ascoli Piceno annullava l’atto impositivo. La decisione, peraltro, era parzialmente riformata dalla CTR delle Marche, che riteneva dovuta l’IVA quanto alla fattura n. 574 del 2003.
  3. Con un unico motivo, limitato alla questione residua, la S. Spa ha proposto ricorso per cassazione. Resiste con controricorso l’Agenzia delle entrate.

Il collegio delibera l’utilizzazione di una motivazione semplificata.

Ragioni della decisione

  1. Con un articolato motivo la S. Spa denuncia, ai sensi dell’art. 360, n. 3, c.p.c., violazione e falsa applicazione dell’art. 1, comma 1, lett. c) del d.l. n. 746 del 1983, conv. con modif. in legge n. 17 del 1984, e dell’art. 6 del d.P.R. n. 633 del 1972, nonché del principio presuntivo di “affidamento e buona fede del contribuente” e di irrilevanza del comportamento tenuto da quest’ultimo “in assenza di danno erariale”, censurando altresì l’insufficiente motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio ex art. 360, n. 5, c.p.c.

Rileva, in particolare, che la CTR non ha considerato che la fatturazione dell’IVA era stata omessa perché il cliente, esportatore abituale, aveva comunicato, a mezzo fax e solo in data 18 novembre 2013, che l’operazione non era esente, così disponendo là revoca della lettera d’intenti del 2 gennaio 2003. Tale comunicazione era tardiva ed irrituale rispetto a quanto previsto dall’art. 1, comma 12, lett. c, del d.l. n. 746 del 1983 perché intervenuta dopo l’operazione, che, quale cessione di beni mobili, doveva ritenersi compiuta al momento della consegna o spedizione. La mancata applicazione dell’IVA, peraltro, sarebbe avvenuta in buona fede, sull’affidamento generato dalla lettera d’intenti, tanto più che, in ogni caso, era assente ogni danno per l’erario poiché, ove applicata, sul relativo pagamento la società avrebbe potuto esercitare il diritto di detrazione.

4.1. Il motivo è in parte infondato in parte inammissibile.

L’art. 1, comma 1, lett. c), del d.l. n. 746 del 1983, conv. con mod. nella legge n. 17 del 1984, nel testo applicabile ratione temporis, fonda le condizioni legittimanti il riconoscimento dell’esenzione dell’imposta IVA e il cui nucleo essenziale è costituito dall’esistenza di una tempestiva dichiarazione d’intenti da parte del beneficiario, regolarmente comunicata con le forme ed ai destinatari previsti dalla norma, sicché, in mancanza di anche uno solo di tali elementi (o dei presupposti formali che la consentono), la fatturazione dell’imposta è dovuta.

Ne consegue che, qualora la dichiarazione venga revocata, l’effetto esonerativo cessa immediatamente – o quantomeno dal momento in cui essa è portata a conoscenza – e la fatturazione che venga emessa in un momento successivo deve necessariamente tenerne conto, restando l’intera operazione soggetta al regime ordinario.

Costituisce regola generale, del resto, che le operazioni economiche sono imponibili, sicché la mancanza di alcuna delle condizioni che legittimano il regime di esenzione comporta necessariamente la piena riattivazione della regola generale, non potendosi considerare logicamente estendibile – oltre che inammissibile, in quanto risultato di analogia – l’applicazione dei requisiti richiesti per la piena efficacia della dichiarazione d’intenti all’opposta situazione. Altra e diversa evenienza potrebbe essere la comunicazione della revoca della dichiarazione d’intenti dopo l’emissione della fattura, condizione questa, peraltro, che qui non ricorre, e rispetto alla quale, comunque, avrebbe dovuta essere emessa, entro il termine di un anno, variazione ex art. 26 del d.P.R. n. 633 del 1972.

Sono invece inammissibili le deduzioni sull’invocata buona fede e sull’asserita assenza di danno per l’erario, trattandosi di profili nuovi, dedotti per la prima volta in sede di legittimità, che non risultano in alcun modo dalla decisione impugnata e senza che la parte abbia indicato ove eventualmente siano state in precedenza dedotti.

  1. Il ricorso va pertanto rigettato.

Le spese, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, che liquida in euro 1500,00 per compensi, oltre spese generali nella misura del 15%, accessori di legge ed eventuali spese prenotate a debito.

Desidero ricevere in abbonamento gratuito il vostro periodico FiscotoDay