FOCUS

Novità in tema di false comunicazioni sociali

18 gennaio 2016

Sono note le funzioni che il bilancio assolve sui versanti civilistico e tributario e le regole giuridiche e contabili conseguenti che devono essere rispettate in sede di redazione.

Il loro rilievo giustifica la particolare attenzione, da parte di tutti i più avanzati ordinamenti giuridici, per l’adozione di adeguate misure di contrasto di un reato insidioso (c.d. falso in bilancio).

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E’ utile ricordare che dal bilancio devono essere tratte le chiare e veritiere informazioni necessarie perchè tutti coloro che abbiano interesse possano compiere consapevoli scelte di carattere economico o finanziario.

Inoltre, il risultato del bilancio di esercizio, costituendo la base di partenza di un processo di variazioni operate in forza di disposizioni fiscali volte a determinare la materia imponibile, è suscettibile di alterazioni e falsificazioni che ne minano il valore segnaletico.

La strategia nazionale di lotta ai comportamenti delittuosi delle false comunicazioni sociali non può però prescindere dalla percepibilità delle condotte offensive e dalla sensibilità della compagine sociale, elementi che mutano nel tempo e che risentono a loro volta di una disciplina che può impattare anche in modo severo e diffuso sull’intero sistema economico domestico.

Anche in Italia le false comunicazioni sociali – punite ancora oggi dagli articoli 2621 e 2622 del Codice Civile – sono state interessate nel tempo da profonde modifiche che hanno mutato la portata sanzionatoria delle condotte, sino a giungere alla più recente disciplina.

Un sintetico quadro storico può essere di ausilio ad una più piena comprensione.

Sin dal 1882 (all’interno del “Codice del Commercio”) era stata avvertita la necessità di prevedere una sanzione indirizzata al contrasto dei comportamenti ritenuti dannosi per un corretto esercizio dell’attività commerciale svolta in forma societaria, contemplando in prevalenza pene di natura pecuniaria; solo dopo la crisi finanziaria mondiale del 1929 (L. 4 giugno 1931, n. 66), in un’ottica pubblicistica di tutela dell’economia nazionale, vennero introdotte pene gravi per chi esponeva – o occultava – fatti falsi relativi alle condizioni economiche della società.

Le esperienze maturate e l’esigenza di razionalizzazione del sistema penale societario condussero alla legge 16 febbraio 1942, n.l07, poi trasfusa nel titolo XI del libro V del Codice Civile entrato in vigore il 21 aprile 1942 (R.D. 16 marzo 1942, n. 262)., con la previsione di fattispecie che tutelavano la fede pubblica, intesa come fiducia e sicurezza nelle relazioni giuridiche, sebbene parte della dottrina ritesse, quale interesse tutelato, quello dell’economia pubblica.

La ulteriore e significativa riforma degli illeciti penali ed amministrativi riguardanti le società commerciali è stata realizzata attraverso la legge delega   3 ottobre 2001, n. 366 e la successiva pubblicazione del D.Lgs. n. 61/2002.

I criteri ispiratori erano quelli di alleggerire le fattispecie già in essere, riducendone il numero, adeguando le pene al danno effettivamente cagionato e di sanare le criticità emerse.

In sostanza, all’art 2621 c.c. vennero attribuite caratteristiche di contravvenzione (reato di pericolo con funzione di tutela e salvaguardia della fiducia nella veridicità dei bilanci) mentre al 2622 c.c. di delitto (reato di danno a tutela del patrimonio, con trattamento sanzionatorio più forte e condizioni di procedibilità differenti a seconda che la società in esame fosse o meno quotata)

Le numerose difficoltà applicative emerse indussero il legislatore (L. n. 262 del 2005) ad introdurre modifiche, ampliando l’area dei potenziali soggetti attivi, introducendo sanzioni più afflittive, anche sul versante amministrativo, con la temporanea interdizione dagli uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese e da altre funzioni specificatamente previste.

Ulteriori critiche e censure mosse all’impianto repressivo esistente e le spinte ad un inasprimento sanzionatorio provenienti da più parti hanno da ultimo ispirato la recente riforma del “falso in bilancio” ( L. 27 maggio 2015, n. 69, c.d. “Legge Anticorruzione”).

Il primo dato di rilievo è costituito dalle pene comminate per tutte e due le fattispecie (delitti), con entità differenti a seconda che l’impresa sia quotata in borsa (reclusione da tre a otto anni) o meno (reclusione da uno a cinque anni). La grande novità è costituita dall’ipotesi che nel primo caso possono essere disposte intercettazioni telefoniche o telematiche.

Giova rammentare che l’art. 2621 c.c. antemodifica puniva la condotta con l’arresto (contravvenzione) fino a un massimo di due anni e la stessa punibilità era esclusa se falsità e omissioni non alteravano in modo sensibile la rappresentazione della situazione economica, patrimoniale o finanziaria della società o del gruppo al quale appartiene, oppure se determinavano una variazione del risultato economico, al lordo delle imposte, non superiore al 5%, o del patrimonio netto non superiore all’l%, o ancora se erano conseguenza di valutazioni estimative che, singolarmente considerate, differivano in misura non superiore al 10% da quella corretta.

In questi casi, scattava una sanzione amministrativa, l’interdizione dagli uffici direttivi da sei mesi a tre anni, e da una serie di cariche societarie.

Nel nuovo art. 2621 c.c., la condotta illecita consiste nell’esporre consapevolmente fatti materiali rilevanti non rispondenti al vero od omettere consapevolmente fatti materiali rilevanti la cui comunicazione è .imposta dalla legge sulla situazione economica, patrimoniale o finanziaria della società o del gruppo al quale essa appartiene, in modo concretamente idoneo a indurre altri in errore.

Pertanto i principali elementi di novità sono i seguenti:

  • scompaiono le soglie di non punibilità;
  • è modificato il riferimento al dolo;
  • è soppresso il riferimento alle “informazioni” sostituito da quello ai “fatti materiali rilevanti”, la cui comunicazione è imposta dalla legge, sulla situazione economica, patrimoniale o finanziaria della società o del gruppo al quale essa appartiene;
  • è introdotto l’elemento oggettivo ulteriore della “concreta” idoneità dell’azione o omissione ad indurre altri in errore.

La recente riforma del introduce anche pene ridotte (nuovo 2621-bis c.c., da un minimo di sei mesi a un massimo di tre anni) nel caso in cui – secondo una valutazione del giudice, in base alla natura e alle dimensioni della società e alle modalità o gli effetti della condotta dolosa – i fatti possano definirsi di lieve entità.

La stessa pena ridotta si applica nel caso in cui di falso in bilancio di società che, non superando i limiti sanciti della Legge fallimentare, non possono fallire.

Nell’ambito della nuova disciplina, è stata introdotta anche (art. 2621-ter) una ipotesi di non punibilità per particolare tenuità del falso in bilancio. Nella specifica situazione il giudice dovrà valutare “in modo prevalente” l’entità del danno, rispetto agli altri profili indicati dall’art. 131-bis c.p., quali la natura, la specie, i mezzi, l’oggetto, il tempo, il luogo e ogni altra modalità dell’azione; l’intensità del dolo o il grado della colpa.

La disciplina del falso in bilancio nelle società quotate ante riforma (art. 2622 c.c.), sanzionava (detenzione da sei mesi a 3 anni) il danno effettivo subito dalla società, dai soci o dai creditori in conseguenza del falso in bilancio. Anche in questi casi, la punibilità era comunque esclusa nel caso in cui le falsità o omissioni delle scritture contabili della società non alteravano sensibilmente la situazione economica, finanziaria o patrimoniale della società o del gruppo societario di cui fa parte la società; nel caso in cui portavano ad una variazione del risultato di esercizio non superiore al 5%, oppure una variazione del patrimonio societario non superiore all’l%. Inoltre, la punibilità era esclusa se il fatto era conseguenza di valutazioni estimative che singolarmente considerate differivano in misura non superiore al 10% da quella corretta.

Gli elementi di novità della fattispecie , oltre all’aumento dei limiti edittali (reclusione da tre a otto anni), e a modifiche coerenti con le linee guida di politica punitiva penale del comparto riguardano l’equiparazione alle società quotate in Italia o in altri mercati regolamentati dell’UE.

Come da sempre accade, per ritenersi efficace, l’applicazione delle norme deve superare il vaglio delle sentenze definitive che determinano i profili interpretativi più corretti.

Ed anche questa volta, su un tema che era noto avrebbe costituito “materia del contendere,” dobbiamo registrare la formazione di due opposte correnti di pensiero.

Il tema è quello della rilevanza penale delle valutazioni estimative, con frequenza oggetto di contese giudiziarie.

La Corte di Cassazione, V sez pen, con sentenza 30 luglio 2015, n. 33774 – ha ritenuto che l’interpretazione testuale e il confronto con la precedente formulazione degli artt. 2621 e 2622 – distonica con il diritto penale tributario e con l’art. 2638 c.c. – sarebbero chiari elementi della volontà del legislatore di far venire meno la punibilità dei falsi valutativi.

A detta della Corte non si poteva ignorare, in una interpretazione che faccia corretta applicazione dei criteri ermeneutici della materia penale, la scelta legislativa del ritorno alla locuzione “fatti materiali” (in luogo del più ampio concetto di “informazioni”), espressamente epurati di quell’aggancio alle “valutazioni” che invece aveva voluto la riforma del 2002, anche ricorrendo all’esplicita previsione di una soglia di punibilità calibrata proprio su di essa,

Puntualizzato che la Suprema corte, con raffinate distinzioni, si era espressa in termini di perseguibilità penale attuale delle valutazioni se riferite a poste inesistenti o attributive di un valore ad una realtà insussistente, l’interesse e la rilevanza del tema hanno alimentato argomentazioni dottrinali a favore e contro la posizione suggestiva assunta nell’estate del 2015.

Nel sottolineare la prevalenza delle posizioni critiche, deve essere registrato il loro apparente recepimento nella sentenza 890 depositata il 12 gennaio 2016 (Cassazione V Sezione Penale).

Può allora affermarsi il principio secondo cui nell’art. 2621 c.c. il riferimento ai “fatti materiali” oggetto di falsa rappresentazione non vale ad escludere la rilevanza penale agli enunciati valutativi che sono anche essi predicati di falsità quando violino criteri di valutazione predeterminati.

Infatti, qualora intervengano in contesti che implichino accettazione di parametri di valutazione normativamente determinati o, comunque tecnicamente indiscussi, anche gli enunciati valutativi sono idonei ad assolvere una funzione informativa e possono quindi dirsi veri o falsi.

Secondo la Corte di Cassazione, un diverso approccio avrebbe effetti dirompenti nella considerazione che moltissime poste di bilancio sono frutto di enunciati estimativi o valutazioni, risultato di operazioni concettuali che associano determinate componenti un dato numerico nell’espressione di un giudizio di valore.

In altri termini, è pur vero che ogni valutazione ha in sé un coefficiente di soggettività e opinabilità, ma su questo tema esse non saranno mai semplici congetture o arbitrari giudizi, dovendo uniformarsi a criteri valutativi fissati dalla disciplina civilistica (art 2426 cc), dalla normativa comunitaria (regolamenti e direttive), dagli standard internazionali (IAS/IFRS) e dalle prassi contabili consolidate (principi nazionali OIC).

A questo punto è da auspicare, come segnalato dalla dottrina più attenta, un intervento delle Sezioni Unite, risolutivo di una controversia con profili importanti e delicati viste le implicazioni connesse e gli effetti, anche economici nazionali, che l’incertezza applicativa di una norma tanto discussa può determinare.

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