CASSAZIONE

Non basta aprire un conto estero per evitare l’accusa di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte

La Corte di Cassazione, con la Sentenza n. 37136 del 26 luglio 2017, ha decretato che l’omessa dichiarazione di un conto estero sul quale affluiscono i proventi dell’attività di un libero professionista svolta in evasione di imposta e la contemporanea presenza di debiti tributari, ancorché in corso di rateazione, configura il delitto di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte.

I supremi giudici hanno quindi confermato il sequestro preventivo di una somma di € 828.745,06 pari al profitto del reato di cui all’art. 11 d.lgs 10 marzo 2000, n. 74, come da imputazione cautelare, ricordando il principio affermato dalla giurisprudenza di questa Corte secondo cui, con riguardo al reato di cui all’art. 11 del d.lgs. n. 74 del 2000, il profitto confiscabile, anche nella forma per equivalente, del reato di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte di cui all’art. 11 del D.Lgs. n. 74 del 2000, va individuato non nell’ammontare del debito tributario rimasto inadempiuto, ma nella riduzione simulata o fraudolenta del patrimonio del soggetto obbligato e, quindi, consiste nel valore dei beni idonei a fungere da garanzia nei confronti dell’amministrazione finanziaria.

La Corte vuole rammentare in questo modo che chi è indebitato con il fisco e muove i soldi in una banca straniera rischia una condanna penale proprio per “sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte”, reato che si attiva se il debito riguarda l’Iva, Irpef o le altre imposte sui redditi e il debito scaduto supera 50mila euro.

L’accusa, grazie alle varie convenzioni internazionali strette per contrastare l’evasione fiscale, è stata ben supportata dall’ Agenzia delle Entrate, in grado di risalire alle ricchezze portate fuori dall’Italia, ivi compresi i conti bancari, era di aver compiuto atti fraudolenti al fine di sottrarsi alla procedura di riscossione coattiva del debito tributario esistente a suo carico, atti che si erano sostanziati nel non dichiarare l’esistenza di somme di cui egli, in realtà, aveva disponibilità, nel non aver compilato il quadro RW della dichiarazione dei redditi, nell’essersi presentato come finanziariamente incapiente ed aver ottenuto, in questo modo, una rateizzazione del debito con il Fisco.

Difatti nel ricorso il professionista, sollecitava alla Corte di cassazione una “lettura alternativa e più favorevole” degli elementi di fatto già valutati dal Tribunale del riesame in ordine al fumus commissi delicti, i giudici di legittimità hanno ricordato, in primo luogo, come una valutazione di tal genere non fosse loro consentita, in ogni caso per gli Ermellini la lamentela presentata doveva essere disattesa alla luce del vasto compendio probatorio, costituito anche da intercettazioni telefoniche e ambientali, da cui era emersa la disponibilità di ingenti somme in un conto corrente estero sul quale erano confluiti i pagamenti “in nero” delle parcelle relative all’attività professionale del ricorrente, somme che, come anticipato, non erano state indicate nel quadro RW della dichiarazione dei redditi ed erano state rimpatriate in maniera occulta in occasione di trasferte e viaggi.

Questo, senza contare che, per quanto riguarda i debiti che il professionista aveva con l’Erario, lo stesso si era dichiarato incapiente al fine di ottenere una rateizzazione.

Per la S.C, seguendo il principio affermato dalla giurisprudenza, secondo cui, con riguardo al reato di cui all’art. 11 del d.lgs. n. 74 del 2000, il profitto confiscabile, anche nella forma per equivalente, del reato di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte di cui all’art. 11 del D.Lgs. n. 74 del 2000:”… va individuato non nell’ammontare del debito tributario rimasto inadempiuto, ma nella riduzione simulata o fraudolenta del patrimonio del soggetto obbligato e, quindi, consiste nel valore dei beni idonei a fungere da garanzia nei confronti dell’amministrazione finanziaria che agisce per il recupero delle somme evase non importa se con esito favorevole o meno, attesa la struttura di reato di pericolo della fattispecie, attraverso l’atto di vendita simulata o gli atti fraudolenti posti in essere (Sez. 3, n. 40534 del 06/05/2015, Trust e altro, Rv. 265036; Sez. 3, n. 10214 del 22/01/2015, Chiarolanza, Rv. 262754).

Tale conclusione non si pone in contrasto con la sentenza S.U., 31 gennaio 2013, n. 18374, richiamata dal ricorrente, nella quale si afferma che, in tema di reati tributari, il profitto, confiscabile anche nella forma per equivalente, del reato di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte, di cui all’art. 11 del d.lgs. n. 74 del 2000, è costituito da qualsivoglia vantaggio patrimoniale direttamente conseguito alla consumazione del reato e può, dunque, consistere anche in un risparmio di spesa, come quello derivante dal mancato pagamento del tributo, interessi, sanzioni dovuti a seguito dell’accertamento del debito tributario. In tale pronuncia non si afferma, infatti, che il profitto del reato di cui al richiamato art. 11 necessariamente coincida con l’intero ammontare del debito.

Così individuato il profitto del reato confiscabile, erra il difensore nel ritenere che il profitto dovesse essere circoscritto al solo importo del debito tributario già accertato (C 315.575,06). Peraltro, deve rilevarsi che il Tribunale non ha fatto corretta applicazione del principio sopra riportato, avendo individuato il profitto nella sommatoria del debito tributario e dell’ammontare delle imposte evase calcolate sul reddito occultato di € 800.000.

Ciò non di meno, il mantenimento del sequestro per l’importo di € 828.745,06 appare corretto e in linea con i principi ermeneutici sopra riportati, essendo corretta l’individuazione del profitto confiscabile del reato di sottrazione fraudolenta dei beni al pagamento delle imposte, anche per equivalente, pari alla somma di denaro di € 800.000,00 (come da imputazione cautelare) giacente sul conto corrente estero, trattandosi di beni idonei a fungere da garanzia nei confronti dell’amministrazione finanziaria che agisce per il recupero delle somme evase. Infine, del tutto indimostrato è il pagamento di una parte del debito al fine della riduzione del sequestro preventivo”.

 

 

CORTE DI CASSAZIONE Sentenza 26 luglio 2017, n. 37136

Ritenuto in fatto

  1. Con ordinanza del 21 ottobre 2016, il Tribunale del riesame di Roma ha respinto l’appello, ex art. 322-bis cod.proc.pen., avanzato da T. M. avverso l’ordinanza del Giudice delle indagini preliminari del Tribunale di Milano di rigetto della richiesta di revoca di sequestro preventivo, in data 24/06/2015 e 10/07/2015, avente ad oggetto la somma di € 828.745,06 pari al profitto del reato di cui all’art. 11 d.lgs 10 marzo 2000, n. 74, come da imputazione cautelare, perché al fine di sottrarsi alla procedura di riscossione coattiva del debito tributario allo stato ammontante a € 315.575,06, compiva atti fraudolenti sui propri beni, non dichiarando disponibilità in Albania di € 800.000 circa, non compilando il quadro RW della dichiarazione dei redditi derivanti dall’attività professionale di avvocato esercitata in Milano, protestandosi finanziariamente incapiente, ottenendo una rateizzazione del debito, organizzando a più riprese il rientro in Italia, in maniera occulta, della somma di € 126.645,00. In Milano dal 2014 ad oggi.
  2. Propone ricorso per cassazione T. M., a mezzo del difensore di fiducia, e chiede l’annullamento per i seguenti motivi enunciati nei limiti di cui all’art. 173 disp. att. cod.proc.pen.:

2.1. Con il primo motivo deduce l’inosservanza, la violazione di cui all’art. 606 comma 1 lett. b) cod.proc.pen. in relazione all’art. 321 comma 2 e 322-ter cod.pen. con riguardo al fumus commissi delicti del reato di cui all’art. 11 d.lgs 10 marzo 2000, n. 74 e assenza di motivazione. Deduce il ricorrente la violazione di legge in relazione all’erronea applicazione dei presupposti per l’adozione della misura cautelare sia sulla sussistenza del fumus del reato di sottrazione fraudolenta di beni al pagamento delle imposte, che sull’erronea quantificazione del profitto del reato. Rileva il ricorrente, in primis, la mancanza di una autonoma motivazione dell’ordinanza di rigetto del Giudice delle indagini preliminari del Tribunale di Milano, che si sarebbe limitato a riprodurre pedissequamente l’ordinanza primigenia, sicché la carenza di motivazione non avrebbe potuto essere emendata dal Tribunale del riesame con l’ordinanza impugnata. Parimenti sarebbe assente la motivazione sulla sussistenza degli indizi di colpevolezza. Il Tribunale non poteva prescindere da un controllo sul sequestro tenendo in debito conto le contestazioni difensive a cui il Tribunale ha risposto con argomentazioni inconferenti e con erronea applicazione della legge penale essendo le condotte contestate incompatibili con la struttura del reato di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte. Al riguardo la difesa aveva argomentato come il conto corrente in Albania, sebbene non indicato nella dichiarazioni dei redditi, fosse stato utilizzato unicamente per bonificare in Italia i proventi dell’attività lavorativa incassati in contanti in quel Paese, sicché alcun atto fraudolento sarebbe ravvisabile; anche la richiesta di rateizzazione sarebbe stata fraintesa dal Tribunale del riesame, non trattandosi di una condotta volta a sottrarsi al pagamento del debito tributario, bensì di una facoltà di dilazione del pagamento. Infine il Tribunale avrebbe travisato i fatti dal momento che il ricorrente aveva emesso le fatture relative alle ingenti somme rientrate in Italia e scoperte durante il controllo in dogana in aeroporto.

2.2. Con il secondo motivo deduce l’inosservanza, la violazione della legge processuale in relazione agli artt. 321 comma 2 e 322 ter cod.pen. in relazione all’erronea quantificazione del profitto del reato da assoggettare a vincolo cautelare. Il Tribunale del riesame avrebbe erroneamente individuato il profitto del reato di cui all’art 11 d.lgs 10 marzo 2000, n. 74, nella somma pari a tutti i debiti verso l’erario ovvero € 315.675,06 e l’ulteriore somma, calcolata in € 513.170,00, pari all’evasione sulla somma di € 800.000 non dichiarata e occultata in Albania. Il Tribunale avrebbe, pertanto, erroneamente quantificato il profitto del reato contestato disattendendo quanto affermato dalla giurisprudenza di legittimità secondo cui, con specifico riguardo al reato di sottrazione fraudolenta di cui all’art. 11 cit, il profitto sarebbe da individuarsi unicamente nella somma di denaro la cui sottrazione all’erario viene perseguita, ovvero nel vantaggio economico patrimoniale ricavato in via immediata e diretta dal reato per cui si procede e, dunque, non potrebbe riguardare, con riferimento al caso concreto, gli ulteriori e diversi debiti tributari peraltro “potenziali” pari alle somme asseritamente evase sull’ammontare dei redditi pari a € 800.000. Da ultimo, non sarebbe stato neppure preso in considerazione che il ricorrente avrebbe già versato delle somme e ciò per ridurre l’ammontare di quanto sequestrato.

  1. Il Procuratore generale ha depositato requisitoria scritta con cui ha chiesto l’annullamento limitatamente all’omessa pronuncia sul mantenimento in sequestro anche per il reato di autoriciclaggio e l’inammissibilità nel resto del ricorso.

Considerato in diritto

  1. Il ricorso è infondato.
  2. In via preliminare va osservato che, in tema di ricorso per cassazione proposto avverso provvedimenti cautelari reali, l’art. 325 cod. proc. pen. consente il sindacato di legittimità soltanto per motivi attinenti alla violazione di legge. Secondo le Sezioni Unite (Sez. U, n. 5876 del 28/01/2004, P.C. Ferazzi in proc. Bevilacqua, Rv. 226710; ), nella nozione di “violazione di legge” rientrano, in particolare, gli “errores in iudicando” o “in procedendo”, ma anche i vizi della motivazione così radicali da rendere l’apparato argomentativo a sostegno del provvedimento del tutto mancante o privo dei requisiti minimi di coerenza, completezza e ragionevolezza, come tale apparente e, pertanto, inidoneo a rendere comprensibile l’itinerario logico seguito dal Giudice (Sez. 6, n. 6589 del 10/01/2013, Gabriele, Rv. 254893; Sez. 5, n. 43068 del 13/10/2009, Bosi, Rv. 245093). Non può, invece, essere dedotta l’illogicità manifesta della motivazione, la quale può denunciarsi nel giudizio di legittimità soltanto tramite lo specifico ed autonomo motivo di cui alla lett. e) dell’art. 606, stesso codice (v., per tutte: Sez. U, n. 5876 del 28/01/2004, P.C. Ferazzi in proc. Bevilacqua, Rv. 226710; Sez. U, n. 25080 del 28/05/2003, Pellegrino S., Rv. 224611).

Deve, ancora, premettersi che l’appello cautelare avverso all’ordinanza di rigetto della richiesta di revoca di sequestro preventivo aveva ad oggetto unicamente i presupposti per il mantenimento della misura cautelare reale con riguardo al solo reato di cui all’art. 11 d.lgs 10 marzo 2000, n. 74, sicché alcuna omessa motivazione in relazione al diverso reato di autoriciclaggio (contestazione con riferimento al rientro delle somme denaro di € 126.645,00 in maniera occulta) è ravvisabile.

  1. Ciò posto, tenuto conto dell’ambito cognitivo, il ricorso sollecita alla Corte una nuova e diversa valutazione degli stessi elementi in fatto già valutati dal Tribunale del riesame ( cfr pag. 10 con riguardo alla natura fraudolenta delle condotte), invocandone una lettura alternativa e più favorevole in punto di fumus commissi delicti. Tale valutazione non è, però, consentita in questa sede, atteso quanto appena sopra riportato.

La doglianza deve essere disattesa alla luce della motivazione con cui Tribunale del Riesame ha ritenuto sussistente il fumus con motivazione logica, coerente alle emergenze processuali e tutt’altro che assente e/o apparente.

Peraltro, se è vero che, nella valutazione del fumus commissi delicti quale presupposto del sequestro preventivo di cui all’art. 321, comma 1, c.p.p., il giudice del riesame non può avere riguardo alla sola astratta configurabilità del reato, ma deve tener conto, in modo puntuale e coerente, delle concrete risultanze processuali e dell’effettiva situazione emergente dagli elementi forniti dalle parti, indicando, sia pure sommariamente, le ragioni che rendono allo stato sostenibile l’impostazione accusatoria (tra le altre, Sez. 3, n. 26197 del 05/05/2010, Bressan, Rv. 247694), dall’altro lato, il giudizio in ordine alla misura cautelare reale resta correlato con la fase delle indagini preliminari nella quale, come è noto, la delibazione che viene compiuta è diversa da quella piena della fase del giudizio. Nella fase delle indagini preliminari, nella quale si inserisce la fase incidentale del riesame del provvedimento cautelare, il giudizio che viene compiuto è un giudizio di apprezzamento della plausibile sussistenza del fatto che non può tradursi in una anticipata decisione sulla responsabilità del soggetto indagato in ordine al reato oggetto di investigazione, ma deve limitarsi al controllo di compatibilità tra la fattispecie concreta e quella legale ipotizzata, mediante una valutazione prioritaria della antigiuridicità penale del fatto (per tutte, Sez. 2, n. 26457 del 22/06/2005, P.M. in proc. Farnitano, Rv. 231959; Sez. U. n. 6 del 27/03/1992, Midolini, Rv. 191327; Sez. 5, n. 6252 del 19/11/1998, Pansini, Rv. 212511).

Rileva il Collegio la congruità ed esauriente motivazione del Tribunale che, in risposta alle censure difensive, ha ancorato il fumus del reato dal vasto compendio probatorio, costituito anche da intercettazioni telefoniche e ambientali, da cui era emersa la disponibilità in Albania di un conto corrente sul quale erano affluiti in pagamenti in contanti “in nero” delle parcelle relative all’attività professionale di avvocato svolta in Milano (circostanza non contestata), somme non dichiarate nel riquadro RW della dichiarazione dei redditi e rimpatriate in maniera occulta (trasferite in Italia in contanti in occasione di viaggi in Albania come scoperto all’aeroporto di Milano Malpensa), avendo il T. debiti con l’Erario, già accertati per € 315.675,06, ed essendosi dichiarato finanziariamente incapiente per ottenere la rateizzazione del debito tributario, motivazione a cui il ricorrente oppone una parcellizzata valutazione degli elementi probatori in chiave alternativa (cfr. pag. 11) non consentita in questa sede.

Al riguardo, come è noto, l’art. 11 d.lgs. n. 74 del 2000, come sostituito dall’art. 29, comma 4, d.l. n. 78 del 31 maggio 2010, convertito con modificazioni nella legge n. 122 del 30 luglio 2010, sanziona, alternativamente, la condotta di chi, allo scopo di sottrarsi al pagamento di imposte (sui redditi o sul valore aggiunte o di interessi o sanzioni relativi a tali imposte), aliena simulatamente o compie altri atti fraudolenti sui propri o su altrui beni, idonei a rendere in tutto o in parte inefficace la procedura di riscossione coattiva.

 

Attraverso l’incriminazione della condotta prevista il legislatore ha inteso evitare che il contribuente si sottragga al suo dovere di concorrere alle spese pubbliche creando una situazione di apparenza tale da consentirgli di rimanere nel possesso dei propri beni fraudolentemente sottratti alle ragioni dell’Erario (cfr., sul punto, Sez. 3, n. 36290 del 18/05/2011, Cualbu, Rv. 251077, secondo cui l’oggetto giuridico del reato di sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte non è il diritto di credito del fisco, bensì la garanzia generica data dai beni dell’obbligato, potendo quindi il reato configurarsi anche qualora, dopo il compimento degli atti fraudolenti, avvenga comunque il pagamento dell’imposta e dei relativi accessori). Parimenti la giurisprudenza di questa Corte è ormai consolidata nel ritenere la natura di reato di pericolo concreto della fattispecie in esame ( cfr., da ultimo, Sez. 3, n. 35853 del 11/05/2016, Calvi, Rv. 267648, che ha affermato che il delitto in questione è reato di pericolo, integrato dall’uso di atti simulati o fraudolenti per occultare i propri o altrui beni, idonei a pregiudicare – secondo un giudizio “ex ante” – l’attività recuperatoria della amministrazione finanziaria; nonché, Sez. 3, n. 13233 del 24/02/2016, Pass, Rv. 266771, con richiami ai numerosi precedenti conformi).

Quanto alla condotta del reato, accanto all’alienazione simulata, il legislatore ha individuata l’ulteriore condotta del compimento di «altri atti fraudolenti», diversi dalla alienazione simulata, la cui idoneità a sottrarre i beni al pagamento del debito tributario è stata valutata dal legislatore in via generale e astratta, la cui natura fraudolenta diretta a sottrarre il bene al pagamento delle imposte deve caratterizzare l’atto. Non v’è dubbio che nel novero degli «altri atti fraudolenti» debbano essere ricompresi sia atti materiali di occultamento e sottrazione dei propri beni (sparizione materiale di un bene senza alienazione), ma anche atti giuridici diretti, secondo una valutazione concreta, a sottrarre beni al pagamento delle imposte.

Correttamente il Tribunale ha ritenuto, dal complesso degli elementi probatori, ovvero l’aver a disposizione un conto corrente all’estero, su quale confluivano i proventi dell’attività professionale svolta in Italia, in contanti e “in nero”, proventi non esposti nella dichiarazione dei redditi, in uno con l’esistenza di debiti tributari già accertati e la dichiarazione di essere finanziariamente incapiente al fine di ottenere una rateizzazione, sussistente la condotta del reato contestato dal momento che il complesso delle operazioni descritte aveva comportato una diminuzione, anche non totale, della garanzia patrimoniale generica offerta dal patrimonio del debitore fiscale (Sez. 3, n. 6798 del 16/12/2015, dep. 2016, Arosio, Rv. 266134).

  1. Anche il secondo motivo di ricorso, pur per ragioni diverse da quelle esposte dal Tribunale del riesame, è infondato.

Va qui ricordato il principio affermato dalla giurisprudenza di questa Corte secondo cui, con riguardo al reato di cui all’art. 11 del d.lgs. n. 74 del 2000, il profitto confiscabile, anche nella forma per equivalente, del reato di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte di cui all’art. 11 del D.Lgs. n. 74 del 2000, va individuato non nell’ammontare del debito tributario rimasto inadempiuto, ma nella riduzione simulata o fraudolenta del patrimonio del soggetto obbligato e, quindi, consiste nel valore dei beni idonei a fungere da garanzia nei confronti dell’amministrazione finanziaria che agisce per il recupero delle somme evase non importa se con esito favorevole o meno, attesa la struttura di reato di pericolo della fattispecie, attraverso l’atto di vendita simulata o gli atti fraudolenti posti in essere (Sez. 3, n. 40534 del 06/05/2015, Trust e altro, Rv. 265036; Sez. 3, n. 10214 del 22/01/2015, Chiarolanza, Rv. 262754).

Tale conclusione non si pone in contrasto con la sentenza S.U., 31 gennaio 2013, n. 18374, richiamata dal ricorrente, nella quale si afferma che, in tema di reati tributari, il profitto, confiscabile anche nella forma per equivalente, del reato di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte, di cui all’art. 11 del d.lgs. n. 74 del 2000, è costituito da qualsivoglia vantaggio patrimoniale direttamente conseguito alla consumazione del reato e può, dunque, consistere anche in un risparmio di spesa, come quello derivante dal mancato pagamento del tributo, interessi, sanzioni dovuti a seguito dell’accertamento del debito tributario. In tale pronuncia non si afferma, infatti, che il profitto del reato di cui al richiamato art. 11 necessariamente coincida con l’intero ammontare del debito.

Così individuato il profitto del reato confiscabile, erra il difensore nel ritenere che il profitto dovesse essere circoscritto al solo importo del debito tributario già accertato (C 315.575,06). Peraltro, deve rilevarsi che il Tribunale non ha fatto corretta applicazione del principio sopra riportato, avendo individuato il profitto nella sommatoria del debito tributario e dell’ammontare delle imposte evase calcolate sul reddito occultato di € 800.000.

Ciò non di meno, il mantenimento del sequestro per l’importo di € 828.745,06 appare corretto e in linea con i principi ermeneutici sopra riportati, essendo corretta l’individuazione del profitto confiscabile del reato di sottrazione fraudolenta dei beni al pagamento delle imposte, anche per equivalente, pari alla somma di denaro di € 800.000,00 (come da imputazione cautelare) giacente sul conto corrente estero, trattandosi di beni idonei a fungere da garanzia nei confronti dell’amministrazione finanziaria che agisce per il recupero delle somme evase. Infine, del tutto indimostrato è il pagamento di una parte del debito al fine della riduzione del sequestro preventivo.

  1. Il ricorso deve essere rigettato e il ricorrente condannato al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

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