CASSAZIONE SENTENZE

Non applicabile il transfer price nei confini nazionali

Tributi – Accertamento – Transfer pricing domestico – Operazioni infragruppo – Operazione priva di vantaggio economico diretto – Strategia economica nell’interesse di tutte le società del gruppo – Legittimità – Assenza di vantaggi fiscali

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 16948 del 25 giugno 2019 torna a interessarsi degli aspetti del c.d. “transfer pricing domestico”, per riaffermare  il principio della non applicabilità di tale istituto nelle operazioni compiute da parte delle società entro i confini nazionali e che, quindi, non sono soggette alla valutazione del valore normale ex art. 9 del Testo unico delle imposte sui redditi (TUIR): sulla base di detto articolo 9, il valore normale va inteso come il prezzo mediamente praticato per i beni e i servizi della stessa specie o similari, in condizioni di libera concorrenza e al medesimo stadio di commercializzazione. Il valore normale di una transazione rappresenta quindi il corrispettivo che si sarebbe formato sul libero mercato in una certa transazione tra parti indipendenti. In conformità  al principio di libera concorrenza fissato dall’Ocse, il valore normale è il valore cui vanno valorizzati i corrispettivi dei beni o servizi in ipotesi di transazione infragruppo con soggetti non residenti.

Di conseguenza, l’espressione transfer pricing identifica il procedimento per determinare il prezzo “congruo” in un’operazione avente a oggetto il trasferimento della proprietà di beni/servizi/intangibili avvenuta tra entità appartenenti allo stesso gruppo multinazionale, e risponde all’esigenza di garantire che le operazioni infragruppo tra enti soggetti a differenti discipline nazionali avvengano nel rispetto del principio della libera concorrenza, affinché vi sia una corrispondenza tra il prezzo praticato e quello che verosimilmente verrebbe pattuito tra imprese indipendenti.

La norma in esame definisce una precisa delimitazione soggettiva e oggettiva della disciplina, e se da un lato sembra non consentire alcuna possibilità di interpretazione dell’applicazione della norma ai rapporti nazionali, dall’altro la Corte di Cassazione cerca di legittimare le rettifiche al valore normale anche per i casi di transfer pricing interno.

Non è rinvenibile nell’ordinamento italiano una norma ad hoc che disciplina le operazioni di transfer pricing interno. Un’operazione di transfer pricing domestico tra più società appartenenti al medesimo gruppo, tutte residenti in Italia, potrebbe portare a fenomeni di elusione fiscale: tali situazioni fanno riferimento al problema del contrasto delle pratiche tese allo sfruttamento di differenziali di imposta riferiti a residuali regimi di tassazione agevolata territoriali, di regimi forfettari (catasto o tonnage tax), oppure ai riporti di perdite pregresse, in possibile scadenza. 

In tutti questi casi non si porrà il problema di definire la distribuzione della giurisdizione impositiva fra Stati, ma lo spostamento del reddito in capo al soggetto della transazione che gode di un regime agevolato o è comunque in grado di assorbire le perdite pregresse. All’interno del sistema normativo nazionale si nota quindi la mancanza di una norma che regoli specificamente la disciplina del transfer pricing interno: l’Amministrazione finanziaria ha tentato si compensare tale mancanza legislativa con l’emanazione di circolari che potessero indirizzare il contribuente in merito a tale disciplina.

La Cassazione è nel tempo intervenuta con copiosa giurisprudenza, a partire  dalla pronunzia,  la n.9497/2008, che enunciava un principio di diritto a favore dell’Amministrazione fiscale che proponeva di estendere l’applicazione dell’art. 110 comma 7, anche alle transazioni domestiche, prendendo spunto proprio dall’art. 9 del TUIR, affermando che: ”per la valutazione a fini fiscali delle manovre sui prezzi di trasferimento interni, costituenti il cd. “transfer pricing domestico”, va applicato il principio, avente valore generale, stabilito dall’art. 9 del D.P.R. n.917/1986, che non ha soltanto valore contabile e che impone, quale criterio valutativo, il riferimento al normale valore di mercato per corrispettivi e altri proventi, presi in considerazione dal contribuente”.  (v. in particolare Cass. n. 17955 del 24/07/2013, seguita poi da Cass. n. 8449 del 16/04/2014, Cass. n. 13475 del 13/06/2014 e Cass. n. 12844 del 12/06/2015).

In definitiva la vigente giurisprudenza degli Ermellini ricorda che la nozione di transfer pricing domestico è stata più volte ripetuta e, in particolare, assumono chiara importanza le sentenze n. 17955 del 24 luglio 2013 e la n. 12844 del 22 giugno 2015, quando affermano che: “… ‘per la valutazione a fini fiscali delle manovre sui prezzi di trasferimento interni, costituenti il cd. “transfer pricing domestico”, va applicato il principio, avente valore generale, stabilito dall’art.9 del DPR 917/1986, che non ha soltanto valore contabile e che impone, quale criterio valutativo, il riferimento al normale valore di mercato per corrispettivi e altri proventi, presi in considerazione dal contribuente. Ciò in applicazione del divieto di abuso del diritto, che preclude al contribuente il conseguimento di vantaggi fiscali ottenuti mediante l’uso distorto, pur se non contrastante con alcuna specifica disposizione, di strumenti giuridici idonei a ottenere agevolazioni o risparmi d’imposta, in difetto di ragioni diverse dalla mera aspettativa di quei benefici”.

Tanto premesso, e tornando al caso in esame, le questioni centrali del giudizio in buona sostanza possono riassumersi in due argomenti di fondo.

Il primo attiene al come sia possibile configurare l’istituto del transfer pricing domestico nel nostro ordinamento e poi, in seconda analisi, in quale modo si possa rilevare, nell’ambito delle transazioni infragruppo interne, la nozione di “valore normale”. Ricordiamo che  quello che assume rilievo al legislatore fiscale è fissare la determinazione della ricchezza rilevante ai fini IRES e prodotta nel territorio, con azzeramento degli effetti distorsivi e  che, in tale prospettiva, le manovre sui prezzi potrebbero generare sul versante strettamente tributario. Peraltro, il legislatore italiano ha prestato speciale attenzione agli sviluppi che si sono registrati sul versante della lotta all’evasione e all’elusione fiscale, giungendo a disciplinare tale materia, dapprima con la circolare n. 32 del 1980 e poi inserendo il transfer pricing nell’art. 110, comma 7, del TUIR.

Appare quindi evidente che le operazioni caratterizzate dall’attuazione di particolari politiche di determinazione del prezzo non possono essere circoscritte ai rapporti infragruppo transnazionali, potendo riguardare anche il contesto domestico, con conseguente ed esclusivo interessamento di società residenti nel territorio del nostro Stato.

Per quanto concerne il nostro Paese, quindi, la disciplina dei prezzi di trasferimento, contenuta nell’art. 110, prevede che il prezzo a cui avvengono le transazioni commerciali tra imprese residenti in Stati diversi ma legate da vincoli di controllo o collegamento, deve essere valutato a “valore normale”. Il concetto espresso dal citato art. 110,  al comma 7, non si può estendere a fattispecie diverse rispetto a quelle testualmente contemplate nel corpo della stessa disposizione: quest’ultima si cala su situazioni (i rapporti infragruppo transnazionali) tra le quali non pare possibile ricondurre i rapporti infragruppo domestici, in ragione della sua vocazione transnazionale.

In altre parole, si tratta di disposizione inequivocabilmente scolpita nel contesto internazionale, piegata a ben precise esigenze impositive e, pertanto, riconducibile nel novero delle cosiddette norme “a fattispecie esclusiva”. Pertanto, come confermato anche nella sentenza in argomento, ne è esclusa l’applicazione alle operazioni tra enti nazionali, il cui eventuale scostamento dal valore normale di mercato può rilevare solo come mero indizio ai fini della valutazione dell’antieconomicità.   

I Supremi Giudici di legittimità si sono peraltro conformati alle recenti interpretazioni giurisprudenziali, che in buona sostanza possono sinteticamente così riassumersi: la disposizione relativa alla determinazione del valore normale deve essere applicata nelle transazioni infragruppo tra società entrambe residenti in Italia ogni qualvolta il contribuente, determinando un prezzo fuori mercato, abbia un chiaro intento elusivo e cioè miri a far emergere utili presso la società del gruppo che sconta la tassazione più bassa, non solo per agevolazioni territoriali ma anche a motivo della veste societaria qualora foriera di un più mite trattamento tributario.

Nello specifico l’Agenzia delle Entrate notificava a una società un avviso di accertamento analitico-induttivo, recuperando a tassazione il maggior reddito presunto, in considerazione del fatto che  la vendita di energia elettrica precedentemente acquistata all’estero a una società appartenente allo stesso gruppo avveniva ad un prezzo nettamente inferiore a quello normalmente praticato, al punto tale da determinare una perdita commerciale.

A tal fine l’Ufficio dava risalto al carattere antieconomico delle transazioni, desunto sulla base dello scostamento rispetto ai valori normali (art. 9, TUIR), che consentiva così di operare una valutazione sulla base dei parametri del transfer price.

Il provvedimento veniva impugnato alla Commissione Tributaria provinciale che ne accoglieva le doglianze. L’Agenzia delle Entrate ricorreva in Cassazione. La Corte di Cassazione nel respingere il ricorso decretava che: “Va sottolineato, peraltro, che, a fronte di tale affermazione di principio, nelle sentenze n. 17955 del 2013 e n. 8449 del 2014 la fattispecie concreta era, di per sé, riconducibile ad una condotta potenzialmente elusiva poiché la società destinataria della cessione infragruppo godeva di una regolamentazione, territoriale nel primo caso e per regime giuridico nel secondo, di favore e agevolativa, sicché il trasferimento determinava una ingiustificata alterazione del regime impositivo. Nella sentenza n. 13475 del 2014, invece, la vicenda aveva ad oggetto una cessione dalla controllante alla controllata a costi eccessivi e, dunque, riguardava, in realtà, la congruità dei costi ai fini della loro deducibilità. Di minore rilievo, invece, è la decisione n. 12844 del 2015 che si limita ad ipotizzare, in astratto, l’applicazione del principio e dei criteri di cui all’art. 9 tuir, atteso che, nella vicenda concreta, era dubbia «la prova dell’operazione economica». 3.4. Per completezza, infine, va ricordata la sentenza Cass. n. 23551 del 20/12/2012, che, invece, ha escluso l’utilizzabilità del criterio del valore normale di cui all’art. 9 tuir per determinare i ricavi derivanti da cessioni di beni avvenute tra società del medesimo gruppo tutte aventi sede in Italia sul duplice assunto che detto criterio è dettato dalla legge «solo per le cessioni tra una società nazionale ed una estera» e, facendo riferimento ai listini del cedente ed agli “sconti d’uso”, «presuppone che la cessione sia avvenuta in regime di libera concorrenza, verso soggetti estranei al gruppo di appartenenza del cedente».  Dalle ipotesi sopra illustrate emergono, dunque, due diversi oggetti a fondamento del transfer pricing domestico: da un lato, esso connota la fattispecie quale condotta elusiva; dall’altro, interviene nella valutazione dell’operazione realizzata in termini di antieconomicità. Sussiste una evidente differenza tra le due situazioni poiché solo nel primo caso il valore normale è apprezzato quale parametro di valutazione delle transazioni in sé, mentre nel secondo opera sul diverso piano della congruità dei costi e/o dei profitti.  Con riguardo al primo profilo occorre rilevare, in primo luogo, che la Corte ha ormai da tempo escluso che la stessa disciplina del transfer pricing internazionale (art. 110, comma 7, tuir, ratione temporis vigente) abbia natura antielusiva in senso proprio in quanto finalizzata, in realtà, alla repressione del fenomeno economico (spostamento d’imponibile fiscale a seguito di operazioni tra società appartenenti al medesimo gruppo e soggette a normative nazionali differenti) in sé considerato. La ratio della normativa, infatti, va rinvenuta nel principio di libera concorrenza, sicché la valutazione in base al valore normale investe la sostanza economica dell’operazione, che va confrontata con analoghe operazioni realizzate in circostanze comparabili in condizioni di libero mercato tra soggetti indipendenti e prescinde dalla capacità originaria di produrre reddito e da qualsiasi obbligo negoziale (Cass. n. 7493 del 15/4/2016; Cass. n. 13387 del 30/6/2016; Cass. n. 27018 del 15/11/2017; da ultimo Cass. n. 898 del 16/01/2019). . La discrepanza rispetto al valore normale, dunque, non può neppure fondare – e a maggior ragione – una valutazione di elusività della transazione per le operazioni infragruppo tra società residenti. La divergenza rispetto al valore normale potrebbe, in ipotesi, legittimare una contestazione dell’operazione in sé, ossia in quanto lesiva del principio di libera concorrenza. Manca, tuttavia, una norma che giustifichi un simile esito, neppure potendosi ritenere applicabile, in via analogica, l’art. 110, tuir. Sul punto, del resto, è conclusivo che l’art. 5, comma 2, d.lgs. n. 147 del 2015, ha sancito che «la disposizione di cui all’articolo 110, comma 7, del testo unico delle imposte sui redditi, approvato con decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, si interpreta nel senso che la disciplina ivi prevista non si applica per le operazioni tra imprese residenti o localizzate nel territorio dello Stato». La disposizione, di espressa interpretazione autentica, ribadisce che è preclusa la possibilità di estendere l’applicazione delle regole sul valore normale alle transazioni interne infragruppo e chiarisce, dunque, che il valore normale è una regola particolare che deroga a quella generale del corrispettivo pattuito solo ove espressamente richiamata. Esclusa, pertanto, l’applicabilità del principio di cui all’art. 9 tuir, si deve ritenere che la stessa nozione di transfer pricing domestico sia estranea al nostro ordinamento. A ben considerare, del resto, nelle decisioni n. 17955/2013 e n. 8449/2014 le condotte contestate, come sopra rilevato, erano, di per sé, elusive, per cui la divergenza rispetto al valore normale finiva, in sostanza e al di là della formale enunciazione di principio generale, solo con il rappresentare un ulteriore elemento di riscontro.

L’adeguatezza del prezzo, in questa diversa prospettiva, è suscettibile, dunque, solo di integrare un elemento aggiuntivo, di eventuale conferma, della fattispecie di elusione, la quale, peraltro, deve essere già esaustiva nella sua integrità.

Con riguardo al secondo profilo, la questione investe, invece, l’incidenza del valore normale sulla valutazione di antieconomicità e si intreccia con le condizioni per l’accertamento da parte degli uffici finanziari.. Costituisce infatti principio consolidato che, a fronte di una valutazione di antieconomicità dell’operazione, l’Amministrazione finanziaria è legittimata a procedere ad accertamento ex art. 39, primo comma, lett. d, d.P.R. n. 600 del 1973 (v. Cass. n. 9084 del 07/04/2017; Cass. n. 26036 del 30/12/2015), in base al principio secondo cui chiunque svolga un’attività economica dovrebbe, secondo l’id quod plerumque accidit, indirizzare le proprie condotte verso una riduzione dei costi ed una massimizzazione dei profitti.

La valutazione di antieconomicità ha due versanti.

Se i costi sostenuti dall’impresa siano eccessivi e sproporzionati l’Amministrazione finanziaria può contestare – in materia di imposte dirette (e, in termini più limitati e rigorosi, di Iva) – l’antieconomicità della spesa, che assume rilievo, sul piano probatorio, come indice sintomatico della carenza di inerenza, con la conseguenza che, in tal caso, spetta al contribuente dimostrare la regolarità delle operazioni in relazione allo svolgimento dell’attività d’impresa e alle scelte imprenditoriali (v. Cass. n. 18904 del 17/07/2018).Ove, invece, i profitti siano eccessivamente bassi, l’incongruità costituisce indice di un possibile occultamento (parziale) del prezzo, che legittima, anche qui, la ricostruzione induttiva.  Orbene, a questi limitati fini lo scostamento dal cd. valore normale appare suscettibile di assumere rilievo quale parametro meramente indiziario: l’operazione che si pone fuori dai prezzi di mercato costituisce una possibile anomalia, sì da poter giustificare in assenza di elementi contrari l’accertamento, con conseguente onere in capo al contribuente di dimostrare che essa non sussiste. Parallelamente al giudizio di inerenza, va tuttavia ricordato che, in ispecie per le operazioni imprenditoriali di maggiore complessità od inserite in una più lata strategia aziendale (in tal senso, non è del tutto privo di rilievo il contesto di gruppo in cui l’operazione si inserisce, e ciò anche al di là della possibilità di fruire del consolidato fiscale), il cui articolarsi in concreto può comportare, anche per scelta, il compimento di atti non onerosi, la contestazione dell’Ufficio non può tradursi in una mera “non condivisibilità della scelta” perché apparentemente lontana dai canoni di normalità del mercato, che equivarrebbe ad un sindacato sulle scelte imprenditoriali, ma deve consistere nella positiva affermazione che l’operazione, sulla base di elementi oggettivi, era inattendibile. Ed è in questa specifica prospettiva, del resto, che appare apprezzabile il precedente di cui alla sentenza n. 13475/2014, sopra citata, che riguardava una fattispecie dove l’elevato prezzo della transazione, fuori dal valore normale, era funzionale «alla finalità di pareggiare i risultati di bilancio della partecipata, così evitando l’emersione di un risultato negativo, spostandosi il carico fiscale sui costi patiti dalla controllante, disponibile ad acquisirne le prestazioni ad un valore alterato».

In conclusione vanno pertanto affermati i seguenti principi: “le transazioni infragruppo interne non sono soggette alla valutazione del valore normale ex art. 9 tuir, né una eventuale alterazione rispetto al prezzo di mercato può, di per sé, fondare una valutazione di elusività dell’operazione” “lo scostamento dal valore normale del prezzo di transazione può assumere rilievo, anche per operazioni infragruppo interne, quale elemento indiziario ai fini della valutazione di antieconomicità delle operazioni”.

Corte di Cassazione – Sentenza 25 giugno 2019, n. 16948

Sul ricorso iscritto al n. 6585/2015 R.G. proposto

da Agenzia delle entrate, rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso la quale è domiciliata in Roma, via dei Portoghesi n. 12;

– ricorrente –

 contro H. C. Srl, rappresentata e difesa dall’Avv. Fabio Benincasa, con domicilio eletto presso l’Avv. Alessandro Voglino, in Roma via F. Siacci n. 4, giusta procura a margine del controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della Campania n. 8140/34/2014, depositata il 26 luglio 2014.

Udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 18 aprile 2019 dal Consigliere Giuseppe Fuochi Tinarelli.

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Paola Mastroberardino, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso.

Udito l’Avv. dello Stato Giammarco Rocchitta che ha concluso per l’accoglimento del ricorso.

Udito l’Avv. Fabio Benincasa per la contribuente che ha concluso per il rigetto del ricorso. 

Fatti di causa

H.C. Srl impugnava l’avviso di accertamento emesso dall’Agenzia delle Entrate ex art. 39, primo comma, lett. d), d.P.R. n. 600 del 1973, con cui era stato determinato il maggior reddito della società atteso l’avvenuto acquisto di energia elettrica dalla società svizzera Atei e la successiva vendita della stessa energia alla società, appartenente al medesimo gruppo, H.T. Srl con un rincaro di € 0,10 per megawatt, trattandosi di operazione effettuata ad un prezzo al di sotto di quelli praticati a soggetti terzi ed evidentemente antieconomica poiché non aveva determinato alcun utile e, anzi, era stata produttiva di una perdita commerciale di € 3.727,00.

Con il medesimo avviso veniva anche contestata la mancata dichiarazione di proventi finanziari per oltre € 94.000,00.

La contribuente, con riguardo esclusivamente alla ripresa per la vendita di energia elettrica, deduceva l’inesistenza di vantaggi fiscali, trattandosi di società che agivano nel medesimo contesto geografico e integrando l’operazione una intermediazione che rispondeva a logiche imprenditoriali proprie dell’intero gruppo societario.

L’impugnazione era accolta dalla Commissione Tributaria Provinciale di Caserta.

La sentenza era confermata dal giudice d’appello ad eccezione della ripresa per la mancata dichiarazione di proventi finanziari, che non era stata contestata dalla contribuente.

L’Agenzia delle entrate ricorre per cassazione con un motivo; resiste la contribuente con controricorso.

Ragioni della decisione

1. Vanno disattese le eccezioni di inammissibilità in punto di autosufficienza del ricorso, che risulta adeguatamente illustrativo della questione controversa, delle opposte difese, dell’iter processuale, nonché corredato degli atti pertinenti, o, quantomeno, della parte rilevante di essi, riprodotti nel ricorso stesso ai fini del controllo di legittimità.

2. L’unico motivo di ricorso denuncia, ai sensi dell’art. 360 n. 3 c.p.c., violazione e falsa applicazione degli artt. 39, primo comma, lett. d, d.P.R. n. 600 del 1973, 9 tuir, 2727 e 2697 c.c.

Lamenta l’Agenzia che la sentenza avrebbe escluso, in base alla sola riconducibilità dell’operazione ad un gruppo societario, il carattere antieconomico della transazione, attuata per un valore distante da quello normale ex art. 9 tuir e, dunque, in funzione solo di un mero risparmio fiscale, sì da dover essere ricondotta al cd. transfer pricing domestico.

3. Il motivo non è fondato.

3.1. Le questioni centrali del giudizio sono la configurabilità, nel nostro ordinamento, dell’istituto del transfer pricing domestico e in quale modo possa rilevare, nell’ambito delle transazioni infragruppo interne, la nozione di “valore normale”.

4. Quanto alla prima questione, la nozione di transfer pricing domestico è affermata in alcune decisioni (v. in particolare Cass. n. 17955 del 24/07/2013, seguita poi da Cass. n. 8449 del 16/04/2014, Cass. n. 13475 del 13/06/2014 e Cass. n. 12844 del 12/06/2015).

4.1. Secondo tali pronunce, nella valutazione a fini fiscali delle manovre sui prezzi di trasferimento interni, ossia tra società appartenenti al medesimo gruppo operanti sul territorio nazionale, deve essere applicato il principio stabilito dall’art. 9 tuir «che non ha soltanto valore contabile e impone, quale criterio valutativo, il riferimento al normale valore di mercato per corrispettivi e altri proventi, presi in considerazione dal contribuente» e discende dal divieto di abuso del diritto, che trova fondamento nella disciplina UE e nei principi costituzionali di capacità contributiva e imposizione progressiva, precludendo «al contribuente il conseguimento di vantaggi fiscali ottenuti mediante l’uso distorto, pur se non contrastante con alcuna specifica disposizione, di strumenti giuridici idonei a ottenere agevolazioni o risparmi d’imposta, in difetto di ragioni diverse dalla mera aspettativa di quei benefici».

4.2. Va sottolineato, peraltro, che, a fronte di tale affermazione di principio, nelle sentenze n. 17955 del 2013 e n. 8449 del 2014 la fattispecie concreta era, di per sé, riconducibile ad una condotta potenzialmente elusiva poiché la società destinataria della cessione infragruppo godeva di una regolamentazione, territoriale nel primo caso e per regime giuridico nel secondo, di favore e agevolativa, sicché il trasferimento determinava una ingiustificata alterazione del regime impositivo.

Nella sentenza n. 13475 del 2014, invece, la vicenda aveva ad oggetto una cessione dalla controllante alla controllata a costi eccessivi e, dunque, riguardava, in realtà, la congruità dei costi ai fini della loro deducibilità.

Di minore rilievo, invece, è la decisione n. 12844 del 2015 che si limita ad ipotizzare, in astratto, l’applicazione del principio e dei criteri di cui all’art. 9 tuir, atteso che, nella vicenda concreta, era dubbia «la prova dell’operazione economica».

3.4. Per completezza, infine, va ricordata la sentenza Cass. n. 23551 del 20/12/2012, che, invece, ha escluso l’utilizzabilità del criterio del valore normale di cui all’art. 9 tuir per determinare i ricavi derivanti da cessioni di beni avvenute tra società del medesimo gruppo tutte aventi sede in Italia sul duplice assunto che detto criterio è dettato dalla legge «solo per le cessioni tra una società nazionale ed una estera» e, facendo riferimento ai listini del cedente ed agli “sconti d’uso”, «presuppone che la cessione sia avvenuta in regime di libera concorrenza, verso soggetti estranei al gruppo di appartenenza del cedente».

4.3. Dalle ipotesi sopra illustrate emergono, dunque, due diversi oggetti a fondamento del transfer pricing domestico: da un lato, esso connota la fattispecie quale condotta elusiva; dall’altro, interviene nella valutazione dell’operazione realizzata in termini di antieconomicità.

Sussiste una evidente differenza tra le due situazioni poiché solo nel primo caso il valore normale è apprezzato quale parametro di valutazione delle transazioni in sé, mentre nel secondo opera sul diverso piano della congruità dei costi e/o dei profitti.

4.4. Con riguardo al primo profilo occorre rilevare, in primo luogo, che la Corte ha ormai da tempo escluso che la stessa disciplina del transfer pricing internazionale (art. 110, comma 7, tuir, ratione temporis vigente) abbia natura antielusiva in senso proprio in quanto finalizzata, in realtà, alla repressione del fenomeno economico (spostamento d’imponibile fiscale a seguito di operazioni tra società appartenenti al medesimo gruppo e soggette a normative nazionali differenti) in sé considerato.

La ratio della normativa, infatti, va rinvenuta nel principio di libera concorrenza, sicché la valutazione in base al valore normale investe la sostanza economica dell’operazione, che va confrontata con analoghe operazioni realizzate in circostanze comparabili in condizioni di libero mercato tra soggetti indipendenti e prescinde dalla capacità originaria di produrre reddito e da qualsiasi obbligo negoziale (Cass. n. 7493 del 15/4/2016; Cass. n. 13387 del 30/6/2016; Cass. n. 27018 del 15/11/2017; da ultimo Cass. n. 898 del 16/01/2019).

4.5. La discrepanza rispetto al valore normale, dunque, non può neppure fondare – e a maggior ragione – una valutazione di elusività della transazione per le operazioni infragruppo tra società residenti.

4.6. La divergenza rispetto al valore normale potrebbe, in ipotesi, legittimare una contestazione dell’operazione in sé, ossia in quanto lesiva del principio di libera concorrenza.

Manca, tuttavia, una norma che giustifichi un simile esito, neppure potendosi ritenere applicabile, in via analogica, l’art. 110 tuir.

4.7. Sul punto, del resto, è conclusivo che l’art. 5, comma 2, d.lgs. n. 147 del 2015, ha sancito che «la disposizione di cui all’articolo 110, comma 7, del testo unico delle imposte sui redditi, approvato con decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, si interpreta nel senso che la disciplina ivi prevista non si applica per le operazioni tra imprese residenti o localizzate nel territorio dello Stato».

La disposizione, di espressa interpretazione autentica, ribadisce che è preclusa la possibilità di estendere l’applicazione delle regole sul valore normale alle transazioni interne infragruppo e chiarisce, dunque, che il valore normale è una regola particolare che deroga a quella generale del corrispettivo pattuito solo ove espressamente richiamata.

4.8. Esclusa, pertanto, l’applicabilità del principio di cui all’art. 9 tuir, si deve ritenere che la stessa nozione di transfer pricing domestico sia estranea al nostro ordinamento.

A ben considerare, del resto, nelle decisioni n. 17955/2013 e n. 8449/2014 le condotte contestate, come sopra rilevato, erano, di per sé, elusive, per cui la divergenza rispetto al valore normale finiva, in sostanza e al di là della formale enunciazione di principio generale, solo con il rappresentare un ulteriore elemento di riscontro.

L’adeguatezza del prezzo, in questa diversa prospettiva, è suscettibile, dunque, solo di integrare un elemento aggiuntivo, di eventuale conferma, della fattispecie di elusione, la quale, peraltro, deve essere già esaustiva nella sua integrità.

5. Con riguardo al secondo profilo, la questione investe, invece, l’incidenza del valore normale sulla valutazione di antieconomicità e si intreccia con le condizioni per l’accertamento da parte degli uffici finanziari.

5.1. Costituisce infatti principio consolidato che, a fronte di una valutazione di antieconomicità dell’operazione, l’Amministrazione finanziaria è legittimata a procedere ad accertamento ex art. 39, primo comma, lett. d, d.P.R. n. 600 del 1973 (v. Cass. n. 9084 del 07/04/2017; Cass. n. 26036 del 30/12/2015), in base al principio secondo cui chiunque svolga un’attività economica dovrebbe, secondo l’id quod plerumque accidit, indirizzare le proprie condotte verso una riduzione dei costi ed una massimizzazione dei profitti.

5.2. La valutazione di antieconomicità ha due versanti.

Se i costi sostenuti dall’impresa siano eccessivi e sproporzionati l’Amministrazione finanziaria può contestare – in materia di imposte dirette (e, in termini più limitati e rigorosi, di Iva) – l’antieconomicità della spesa, che assume rilievo, sul piano probatorio, come indice sintomatico della carenza di inerenza, con la conseguenza che, in tal caso, spetta al contribuente dimostrare la regolarità delle operazioni in relazione allo svolgimento dell’attività d’impresa e alle scelte imprenditoriali (v. Cass. n. 18904 del 17/07/2018).

Ove, invece, i profitti siano eccessivamente bassi, l’incongruità costituisce indice di un possibile occultamento (parziale) del prezzo, che legittima, anche qui, la ricostruzione induttiva.

5.3. Orbene, a questi limitati fini lo scostamento dal cd. valore normale appare suscettibile di assumere rilievo quale parametro meramente indiziario: l’operazione che si pone fuori dai prezzi di mercato costituisce una possibile anomalia, sì da poter giustificare in assenza di elementi contrari l’accertamento, con conseguente onere in capo al contribuente di dimostrare che essa non sussiste.

Parallelamente al giudizio di inerenza, va tuttavia ricordato che, in ispecie per le operazioni imprenditoriali di maggiore complessità od inserite in una più lata strategia aziendale (in tal senso, non è del tutto privo di rilievo il contesto di gruppo in cui l’operazione si inserisce, e ciò anche al di là della possibilità di fruire del consolidato fiscale), il cui articolarsi in concreto può comportare, anche per scelta, il compimento di atti non onerosi, la contestazione dell’Ufficio non può tradursi in una mera “non condivisibilità della scelta” perché apparentemente lontana dai canoni di normalità del mercato, che equivarrebbe ad un sindacato sulle scelte imprenditoriali, ma deve consistere nella positiva affermazione che l’operazione, sulla base di elementi oggettivi, era inattendibile.

5.4. Ed è in questa specifica prospettiva, del resto, che appare apprezzabile il precedente di cui alla sentenza n. 13475/2014, sopra citata, che riguardava una fattispecie dove l’elevato prezzo della transazione, fuori dal valore normale, era funzionale «alla finalità di pareggiare i risultati di bilancio della partecipata, così evitando l’emersione di un risultato negativo, spostandosi il carico fiscale sui costi patiti dalla controllante, disponibile ad acquisirne le prestazioni ad un valore alterato».

6. In conclusione vanno pertanto affermati i seguenti principi: “le transazioni infragruppo interne non sono soggette alla valutazione del valore normale ex art. 9 tuir, né una eventuale alterazione rispetto al prezzo di mercato può, di per sé, fondare una valutazione di elusività dell’operazione” “lo scostamento dal valore normale del prezzo di transazione può assumere rilievo, anche per operazioni infragruppo interne, quale elemento indiziario ai fini della valutazione di antieconomicità delle operazioni”

7. Alla luce dei principi sopra esposti, va innanzitutto rilevato che, nella vicenda in esame, non sussiste alcun elemento che porti a ritenere configurabile una condotta elusiva, neppure oggetto di considerazione da parte della CTR (che parla di evasione e non di elusione).

Ne deriva che la doglianza, nella parte in cui ripropone la tematica del transfer pricing domestico e dell’abuso del diritto, è inammissibile, trattandosi di questione estranea al decisum.

7.1. Quanto alla contestata antieconomicità per aver la contribuente venduto alla consociata operando in perdita, va evidenziato che dallo stesso avviso di accertamento, riprodotto in ricorso, emerge che la perdita deriva «da un errato ribaltamento di una nota di credito», sicché l’incongruità va, in realtà, apprezzata in quanto operazione non produttiva di profitto.

7.2. La CTR, peraltro, con apprezzamento in fatto, ha escluso che la cessione avesse, in concreto, carattere antieconomico, poiché nella specie sussisteva «un rapporto di intermediazione … in forza del quale la contribuente ha acquistato e poi rivenduto ad altra società del medesimo gruppo l’energia elettrica, applicando un margine pressappoco simbolico», ma che, tuttavia, «non era da quella transazione infragruppo che la società doveva trarre reddito» collocandosi l’operazione «all’interno di una strategia economica diretta a raggiungere un risultato nell’interesse di tutte le società del gruppo».

7.3. Tale conclusione non è scalfita dalla censura che ancora la diseconomia della condotta alla sola divergenza dal valore normale della transazione, rilievo che, in linea con i principi sopra esposti, se può anche far ritenere, alla stregua di un giudizio ex ante e in astratto, giustificata la contestazione, non supera la valutazione operata dal giudice d’appello.

8. Il ricorso va pertanto rigettato. L’esistenza di diversi orientamenti giustifica la compensazione delle spese.

Non sussistono i presupposti per il raddoppio del contributo unificato ex art. 13, comma 1 quater, d.P.R. n. 115/2002 nei confronti dell’Agenzia delle dogane in quanto Amministrazione dello Stato che opera con il meccanismo della prenotazione a debito.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e compensa le spese.

Deciso in Roma, il 18 aprile 2019.

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