CASSAZIONE

Niente IRAP per il professionista che si serve di collaborazioni strumentali

La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 9787 depositata il 19 aprile 2018, ha chiarito che i compensi per prestazioni strumentali elementari quali pulizia e facchinaggio, o delimitate per adempimenti collaterali rispetto all’attività professionale (adempimenti antiriciclaggio o tutela privacy), sono ininfluenti ai fini della sottoposizione a IRAP del professionista. Pertanto il professionista non è tenuto al pagamento dell’IRAP se nell’espletamento della propria attività professionale si avvale di collaboratori in modo esclusivamente occasionale, variabili sia nella prestazione, sia nell’entità di anno in anno, peraltro per importi non dotati di particolare significatività rispetto all’ammontare dei redditi percepiti in ciascuna annualità.

Il fatto non sussiste, quindi, per tutte quelle prestazioni destinate a manifestarsi in mansioni strumentali elementari rispetto allo svolgimento di prestazioni autonome o rigorosamente delimitate per adempimenti anche in questo caso collaterali rispetto alla medesima attività.

In definitiva, l’IRAP è dovuta esclusivamente per quelle situazioni in cui si ravvisi l’esistenza di un’autonoma organizzazione; in assenza, il contribuente non deve considerarsi soggetto passivo dell’imposta.

Tale esclusione è in linea con il principio, più volte ribadito dalla Suprema Corte, secondo cui il requisito dell’autonoma organizzazione quale presupposto impositivo dell’IRAP ricorre qualora il contribuente sia, sotto qualsiasi forma, il responsabile dell’organizzazione e non sia, quindi, inserito in strutture organizzative riferibili ad altrui responsabilità e interesse.

I Giudici di Piazza Cavour hanno allora ricordato che il versamento dell’IRAP è dovuto da quei contribuenti che si avvalgono, per l’esercizio della propria attività, di un’autonoma organizzazione che, di fatto, consiste in una organizzazione di persone, mezzi e risorse economiche, costituente un elemento eccedente il minimo necessario, per l’espletamento della professione.

Brevemente si ricorda che in relazione a quello che oggi s’intende con “autonoma organizzazione”, come faceva riferimento l’articolo 2 del decreto IRAP, agli albori dell’introduzione dell’imposta il Ministero delle Finanze, con la circolare 141/1998, ha avuto modo di precisare che “… l’obiettivo che il legislatore ha inteso perseguire è quello di escludere dall’ambito di applicazione del tributo tutte quelle attività che, pur potendosi astrattamente ricondurre all’esercizio d’impresa, di arti o professioni, non sono tuttavia esercitate mediante un’organizzazione autonoma da parte del soggetto interessato”.

Successivamente la Corte Costituzionale, con l’importante sentenza n. 156/2001, ai fini dell’effettiva debenza del tributo da parte dei professionisti ha di fatto introdotto la necessità di verificare di volta in volta l’integrazione del requisito dell’autonoma organizzazione nello svolgimento dell’attività di lavoro autonomo.

Nell’occasione, la Corte ha sostenuto che “… mentre l’elemento organizzativo è connaturato alla nozione stessa di impresa, altrettanto non può dirsi per quanto riguarda l’attività di lavoro autonomo, ancorché svolta con carattere di abitualità, nel senso che è possibile ipotizzare un’attività professionale svolta in assenza di organizzazione di capitali o lavoro altrui.”

A seguito di tale pronuncia, la Corte di Cassazione ha sposato l’orientamento secondo cui l’autonoma organizzazione costituisce presupposto per l’assoggettamento a IRAP degli esercenti arti e professioni (ex multis la sentenza n. 21203/2004). Orientamento poi confermato anche dall’Agenzia delle Entrate nella circolare 45/E/2008.

In seguito, sulla scorta dell’ulteriore principio che si è andato ad affermare nel tempo secondo cui non è la oggettiva natura dell’attività svolta a essere alla base dell’imposta, bensì il modo – autonoma organizzazione – con cui la stessa è svolta (Corte di Cassazione SS.UU. sentenze n. 12108/2009, n. 12109/2009, n. 12110/2009); il filone interpretativo che aveva riguardato solo i professionisti ha finito per coinvolgere anche, dapprima, le figure dell’agente di commercio e del promotore finanziario e, poi, il piccolo imprenditore in genere (sentenze Cassazione n. 21122/2010, n. 21123/2010 e n. 21124/2010).

Sintetizzando i vari pronunciamenti che si sono succeduti nel tempo, la Suprema Corte ha affermato che l’attività autonomamente organizzata sussiste tutte le volte in cui il contribuente che eserciti l’attività di lavoro autonomo sia, sotto qualsiasi forma, il responsabile dell’organizzazione e non sia inserito in strutture organizzative riferibili ad altrui responsabilità e interesse, oppure impieghi beni strumentali eccedenti le quantità che costituiscono il minimo indispensabile per l’esercizio dell’attività anche in assenza di organizzazione e, infine, si avvalga in modo non occasionale di lavoro altrui.

Se i primi due aspetti possono considerarsi tutt’oggi invariati, lo stesso non può dirsi dell’ultimo, con riferimento al quale, sembra oramai “accettato” dalla giurisprudenza di legittimità che l’impiego stabile di un solo collaboratore con mansioni esecutive non sia di per sé idoneo a configurare un’autonoma organizzazione.

Nel caso affrontato, un professionista richiedeva all’Amministrazione finanziaria il rimborso dell’IRAP versata negli anni dal 1998 al 2001 e dal 2007 al 2010. Il silenzio rifiuto dell’ufficio veniva immediatamente impugnato.

Le doglianze, in primo grado respinte nella sentenza emessa dalla Commissione tributaria provinciale, venivano accolte dalla Commissione tributaria regionale. Secondo i giudici di appello erano insussistenti i presupposti per la sottoposizione all’IRAP.

La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso presentato dall’Agenzia delle Entrate per la ragione che: “ … il motivo è anche palesemente infondato, essendosi la CTR rigorosamente attenuta al principio di diritto affermato dalle Sezioni unite di questa Corte con la sentenza n. 9451 del 2016, secondo cui “con riguardo al presupposto dell’IRAP, il requisito dell’autonoma organizzazione – previsto dall’art. 2 del d.lgs. 15 settembre 1997, n. 446 -, il cui accertamento spetta al giudice di merito ed è insindacabile in sede di legittimità se congruamente motivato, ricorre quando il contribuente; a) sia, sotto qualsiasi forma, il responsabile dell’organizzazione e non sia, quindi, inserito in strutture organizzative riferibili ad altrui responsabilità ed interesse; b) impieghi beni strumentali eccedenti, secondo l’id quod plenmque accidit, il minimo indispensabile per l’esercizio dell’attività in assenza di organizzazione, oppure si avvalga in modo non occasionale di lavoro altrui che superi la soglia dell’impiego di un collaboratore che esplichi mansioni di segreteria ovvero meramente esecutive»;

– che il rilevato profilo di inammissibilità rende superfluo l’esame degli altri profili pure dedotti dal controricorrente con riferimento alla violazione dell’art. 366, primo comma, n. 3 e n. 4, cod. proc. civ., che sono peraltro infondati, in quanto il ricorso risulta contenere una esauriente quanto sommaria un’esposizione dei fatti di causa (la riproduzione degli atti processuali essendo limitata alla sola motivazione della sentenza della CTR, che è, peraltro, attività superflua stante l’obbligo di deposito della stessa ex art. 369, secondo comma, n. 2, cod. proc. civ.), ed è senz’altro autosufficiente contenendo tutti gli elementi necessari a costituire le ragioni per cui si chiede la cassazione della sentenza di merito e a permettere la valutazione della fondatezza di tali ragioni, senza la necessità di far rinvio ed accedere a fonti esterne allo stesso ricorso e, quindi, ad elementi o atti attinenti al pregresso giudizio di merito (cfr. Cass. n. 15952 del 2007).”

 

CORTE DI CASSAZIONE Ordinanza 19 aprile 2018, n. 9787

Sul ricorso iscritto al n. 8482-2017 R.G. proposto da:

AGENZIA DELLE ENTRATE, C.F. 06363391001, in persona del Direttore pro tempore, rappresentata e difesa dall’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, presso la quale è domiciliata in Roma, alla via dei Portoghesi n. 12;

– ricorrente –

contro M.M., rappresentato e difeso dall’avv. prof. Pietro SELICATO e dall’avv. Sabino SELICATO, presso il cui Studio associato è elettivamente domiciliato;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 5742/06/2016 della Commissione tributaria regionale del LAZIO, depositata il 4/10/2016;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 21/02/2018 dal Consigliere Lucio LUCIOTTI.

Rilevato

– che in controversia concernente l’impugnazione da parte di M. M., dottore commercialista, del silenzio rifiuto opposto ad istanza di rimborso dell’IRAP versata negli anni dal 1998 al 2001 e dal 2007 al 2010, la C.T.R. con la sentenza indicata in epigrafe accoglieva l’appello del contribuente ritenendo insussistenti i presupposti per la sottoposizione ad IRAP del professionista, non essendo indici di autonoma organizzazione il ricorso da parte del contribuente a “collaborazioni per importi non dotati di particolare significatività rispetto all’ammontare dei redditi percepiti in ciascuna annualità, non abituali (e pertanto variabili sia nella prestazione, sia nell’entità di anno in anno)», considerato, peraltro, che si trattava di “prestazioni destinate ad estrinsecarsi in mansioni strumentali elementari rispetto allo svolgimento delle prestazioni autonome in oggetto (pulizia, facchinaggio), o rigorosamente delimitate per adempimenti anche in questo caso collaterali rispetto alla medesima attività (adempimenti antiriciclaggio o tutela privacy)»;

– che avverso la sentenza ricorre con unico motivo l’Agenzia delle entrate, cui replica l’intimato con controricorso;

– che, regolarmente costituito il contraddittorio sulla proposta avanzata dal relatore ai sensi dell’art. 380 bis cod. proc. civ., il Collegio ha deliberato la redazione dell’ordinanza con motivazione semplificata.

Considerato

– che con il motivo di ricorso la difesa erariale deduce, ex art. 360, primo comma, 11. 3, cod. proc. civ., la violazione e falsa applicazione degli artt. 2, comma 1, e 3, comma 1, lett. C), d.lgs. n. 446 del 1997;

– che il motivo, prima ancora che infondato, è inammissibile in quanto la ricorrente, sotto lo schermo della violazione di legge, richiede a questa Corte una non ammissibile (anche alla stregua della nuova formulazione del vizio motivazionale di cui al n. 5 dell’art. 360 cod. proc. civ.) rivalutazione delle risultanze processuali sulla base delle quali i giudici di appello hanno escluso che il ricorrente fosse tenuto al pagamento dell’IRAP in quanto lo stesso, nell’espletamento della propria attività professionale, si era avvalso di collaboratori in modo soltanto occasionale, “variabili sia nella prestazione, sia nell’entità di anno in anno», peraltro “per importi non dotati di particolare significatività rispetto all’ammontare dei redditi percepiti in ciascuna annualità» e per “prestazioni destinate ad estrinsecarsi in mansioni strumentali elementari rispetto allo svolgimento delle prestazioni autonome in oggetto (pulizia, facchinaggio), o rigorosamente delimitate per adempimenti anche in questo caso collaterali rispetto alla medesima attività (adempimenti antiriciclaggio o tutela privacy)»;

– che, pertanto, così come formulata, la censura incorre nel profilo di inammissibilità conseguente all’ontologica incompatibilità tra i due vizi di legittimità (error in indicando e vizio motivazionale), ripetutamente affermata da questa Corte, in considerazione del diverso oggetto dell’attività del Giudice cui si riferisce la critica: attività interpretativa della fattispecie normativa astratta, nel primo caso, ed attività valutativa della fattispecie concreta emergente dalle risultanze probatorie, nel secondo caso (cfr. Cass. n. 6224 del 2002, n. 15499 del 2004, n. 10295 del 2007, n. 16698 del 2010, n. 10385 del 2005, n. 9185 del 2011, n. 8315 del 2013, n. 195 del 2016);

– che, come sopra anticipato, il motivo è anche palesemente infondato, essendosi la CTR rigorosamente attenuta al principio di diritto affermato dalle Sezioni unite di questa Corte con la sentenza n. 9451 del 2016, secondo cui “con riguardo al presupposto dell’IRAP, il requisito dell’autonoma organizzazione – previsto dall’art. 2 del d.lgs. 15 settembre 1997, n. 446 -, il cui accertamento spetta al giudice di merito ed è insindacabile in sede di legittimità se congruamente motivato, ricorre quando il contribuente; a) sia, sotto qualsiasi forma, il responsabile dell’organizzazione e non sia, quindi, inserito in strutture organizzative riferibili ad altrui responsabilità ed interesse; b) impieghi beni strumentali eccedenti, secondo l’id quod plenmque accidit, il minimo indispensabile per l’esercizio dell’attività in assenza di organizzazione, oppure si avvalga in modo non occasionale di lavoro altrui che superi la soglia dell’impiego di un collaboratore che esplichi mansioni di segreteria ovvero meramente esecutive»;

– che il rilevato profilo di inammissibilità rende superfluo l’esame degli altri profili pure dedotti dal controricorrente con riferimento alla violazione dell’art. 366, primo comma, n. 3 e n. 4, cod. proc. civ., che sono peraltro infondati, in quanto il ricorso risulta contenere una esauriente quanto sommaria un’esposizione dei fatti di causa (la riproduzione degli atti processuali essendo limitata alla sola motivazione della sentenza della CTR, che è, peraltro, attività superflua stante l’obbligo di deposito della stessa ex art. 369, secondo comma, n. 2, cod. proc. civ.), ed è senz’altro autosufficiente contenendo tutti gli elementi necessari a costituire le ragioni per cui si chiede la cassazione della sentenza di merito e a permettere la valutazione della fondatezza di tali ragioni, senza la necessità di far rinvio ed accedere a fonti esterne allo stesso ricorso e, quindi, ad elementi o atti attinenti al pregresso giudizio di merito (cfr. Cass. n. 15952 del 2007);

– che le spese del presente giudizio di legittimità seguono la soccombenza e vanno liquidate come in dispositivo, mentre, risultando soccombente una parte ammessa alla prenotazione a debito del contributo unificato per essere amministrazione pubblica difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, non si applica l’art. 13, comma 1 -quater, d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115;

P.Q.M.

Dichiara il ricorso inammissibile e condanna la ricorrente al pagamento, in favore del controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 4.100,00 per compensi ed Euro 200,00 per esborsi, oltre al rimborso delle spese forfetarie nella misura del 15 per cento dei compensi ed agli accessori di legge.

 

 

 

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