CASSAZIONE

Nessuna esenzione ICI per l’ente religioso che svolge attività imprenditoriale

Tributi – ICI – Fabbricato di proprietà della Parrocchia, adibito ad uso scolastico – Esenzione ex art. 7, co. 1, lett. I) del d.lgs. n. 504 del 1992 – Ente ecclesiastico – Verifica di esercizio dell’attività con modalità non commerciali – Necessità – Accertamento del giudice di merito – Giurisprudenza Comunitaria

La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 18831 del 10 settembre 2020, intervenendo in materia di ICI ha confermato che nessuna agevolazione è prevista per gli enti religiosi che svolgono un’attività imprenditoriale, anche se esercitata in uno stabile scolastico di proprietà della locale parrocchia.

L’esenzione prevista dall’art. 7, comma 1, lett. i), D.Lgs. 30 dicembre 1992, n. 504, è subordinata alla compresenza di un requisito oggettivo, rappresentato dallo svolgimento esclusivo nell’immobile di attività di assistenza o di altre attività equiparate, e di un requisito soggettivo costituito dal diretto svolgimento di tali attività da parte di un ente pubblico o privato che non abbia come oggetto esclusivo o principale l’esercizio di attività commerciali – art. 87, comma 1, lett. c), del DPR 22 dicembre 1986, n. 917 – cui il citato art. 7 rinvia. 

La sussistenza del requisito oggettivo deve essere accertata in concreto, verificando che l’attività cui l’immobile è destinato, pur rientrando tra quelle esenti, non sia svolta con le modalità di un’attività commerciale; sul piano probatorio, è onere del soggetto che richiede l’applicazione dell’esenzione dimostrare la sussistenza del requisito oggettivo. Più in particolare, l’espressione ‘ente ecclesiastico’ è utilizzata nell’articolo 831, comma 1, del Codice Civile che, a sua volta, riprende la terminologia del Concordato Lateranense dell’11 febbraio 1929, poi ripreso nell’Accordo di revisione del Concordato Lateranense del 18 febbraio 1984 e nelle “Norme per la disciplina della materia degli enti e beni ecclesiastici” (Legge 222/1985).

Per il diritto italiano vigente si considera quindi ecclesiastico l’ente che si immedesima con una confessione religiosa.

Il quadro normativo è caratterizzato da una pluralità di fonti, che comunque affondano tutte ugualmente le loro radici nella nostra Carta Costituzionale. Per quanto riguarda gli enti ecclesiastici, le fonti prossime sono l’art. 20, Cost. per il suo diretto riferimento agli enti religiosi e l’art. 7, Cost. per la rilevanza costituzionale che fa assumere alla normativa pattizia. Secondo l’ordinamento concordatario è quindi ente ecclesiastico ogni ente che persegua in modo costitutivo ed essenziale un fine di religione o di culto, anche se connesso a finalità di carattere caritativo previste dal diritto canonico.

Pur tuttavia non si esclude che l’ente possa svolgere anche altre attività. Anzi, la legge lo prevede espressamente, precisando che in tal caso tali attività sono assoggettate in tutto e per tutto alle leggi statali che riguardano tali attività e al regime tributario previsto per le medesime. Tuttavia, la condizione per la riconoscibilità dell’ente è che queste ulteriori attività non abbiano natura prevalente rispetto a quello della lettera a), art. 16, L. 222/1985, ma siano a queste connesse e strumentali e comunque compatibili con la struttura e la finalità dell’ente. Così non si esclude che un ente ecclesiastico possa anche svolgere un’attività di natura imprenditoriale, in quanto, e purché, il lucro da esso perseguito non sia soggettivo (ossia la divisione degli utili), bensì oggettivo, tendente a realizzare un incremento patrimoniale ai soli fini di acquisire i mezzi necessari per perseguire le finalità essenziali (di religione o di culto) dell’ente stesso. La commercialità o meno di un ente si desume dal suo atto costitutivo o dallo statuto e, in ogni caso, dal fatto che l’attività in essi descritta sia prevalente o meno rispetto a quella commerciale posta “a latere”.  

Esistono, a tal proposito, due linee di pensiero. Da una parte quella che ritiene che gli Enti Religiosi sarebbero, “a prescindere”, non commerciali. Fare l’imprenditore non si concilia con fare il “religioso” a causa della presenza del lucro come fine ultimo; un’attività religiosa o di culto non è commerciale in sé. La linea di pensiero opposta ritiene, invece, che gli enti ecclesiastici sono come gli altri enti collettivi: la legge del 1985 ha voluto impedire che un’attività commerciale sia sottratta al regime impositivo o considerata di beneficenza per il solo fatto che è svolta da un ente religioso; in ogni caso l’associazione o ente religioso è sempre soggetto all’Autorità ecclesiastica.

Nel nostro specifico, ricordiamo che l’art. 7 del decreto istitutivo dell’ICI prevedeva numerose ipotesi di esenzione, ma quelle attinenti alla materia sono solo due. La prima, contenuta nella lett. d), è riferita ai fabbricati destinati esclusivamente all’esercizio del culto e alle relative pertinenze: detta previsione riconosce l’agevolazione a prescindere dalla effettiva titolarità dei fabbricati in questione che, stando alla lettera della legge, potrebbero appartenere tanto a un privato cittadino quanto a un ente ecclesiastico, richiedendo solo la presenza dell’elemento oggettivo della destinazione degli stessi all’esercizio del culto.

Nell’ampio e spesso frenetico corso dei pronunciamenti giurisprudenziali vi sono decisioni che, più di altre, sono in grado di incidere sulla materia di cui trattano, sovvertendo consolidati canoni interpretativi e affermando nuovi principi di riferimento.

Per il clamore mediatico che ha suscitato, verrebbe quasi naturale includere anche la sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea del 6 novembre 2018, C-622/16, Scuola elementare Maria Montessori/Commissione, EU.C.2018-8731, nel novero delle decisioni connotate da tale peculiare rilevanza e innovatività.

A un più ponderato esame, tuttavia, quanto affermato dalla Corte in questa occasione si rivela in sostanziale continuità con il passato: i termini della questione erano già ampiamente noti, i principi giuridici di riferimento richiamati dalla sentenza possono dirsi ormai consolidati e i canoni interpretativi e applicativi adottati riguardo alla disciplina eurounitaria sugli aiuti di Stato alle imprese non lucrative sono conformi ai molti precedenti giurisprudenziali in materia

Inoltre, nei confronti delle pertinenze, al fine di valutare l’applicabilità o meno dell’esenzione ICI, iniziando dalla giurisprudenza nazionale, è stato  affermato che “il rapporto pertinenziale tra la chiesa parrocchiale ed una casa sita nei pressi della stessa e destinata ad abitazione del parroco non è desumibile esclusivamente dall’esistenza di un risalente atto di destinazione dell’autorità ecclesiastica, occorrendo altresì una verifica in ordine alla persistenza dell’effettiva destinazione, in quanto il rapporto pertinenziale può ben essere risolto anche da comportamenti concludenti.(Cass. Sent. n. 11437/2010).

La seconda ipotesi è disciplinata dall’art. 7, lett. i), che esenta dal pagamento dell’ICI i fabbricati impiegati dagli enti ecclesiastici in attività a vocazione sociale e filantropica quando essi siano “destinati esclusivamente allo svolgimento di attività assistenziali, previdenziali, sanitarie, didattiche, ricettive, culturali, ricreative e sportive”, nonché destinati ai fini di religione o di culto.

Da tale norma, dunque, l’agevolazione appariva concessa non all’ente ecclesiastico in quanto tale, ma all’ente che svolga una delle attività rientranti nel novero di quelle appena elencate. Al pari, quindi, di tutti gli altri enti non commerciali esercenti le medesime attività.

Sul tema, però, si è da subito cominciato a discutere circa la necessità della non commercialità dell’attività e si è formato un orientamento giurisprudenziale fortemente restrittivo, che ha di fatto introdotto come ulteriore requisito (rispetto a quelli chiaramente indicati dalla legge) che l’attività non venisse svolta in forma commerciale. L’oggetto del contendere è se l’esenzione dall’ICI vada riconosciuta anche quando un ente ecclesiastico utilizza un immobile per svolgere in forma commerciale (e cioè traendone un profitto) un’attività che pure è ricompresa fra quelle elencate nell’art. 7, lettera i).

L’interpretazione data dai Comuni, ad esempio, non è stata univoca. Hanno ricondotto a tassazione tutti gli immobili (o le porzioni di immobili) comunque destinati ad attività commerciali molti Comuni in cui è diffusa la presenza di immobili di enti ecclesiastici, con effetti di gettito rilevanti. In particolare, la Cassazione ha affermato che “il beneficio dell’esenzione dall’imposta non spetta in relazione agli immobili, appartenenti ad un ente ecclesiastico, che siano destinati allo svolgimento di attività oggettivamente commerciali”: attività che non rientrano, a rigore letterale, nella norma in esame ma sono riconducibili nell’ambito dell’art. 16, lett. b, Legge 20 maggio 1985, n. 222.

Basti pensare che, ad esempio, le norme in materia sanitaria e socio-assistenziale in riferimento agli ospedali e alle case di riposo, o anche le norme sulla parità scolastica in riferimento alle attività didattiche, impongono elevati requisiti organizzativi e prevedono contributi pubblici erogati in forza di norme che regolano il convenzionamento e l’accreditamento. Pertanto, queste devono necessariamente essere organizzate in forma di impresa e hanno natura commerciale agli effetti tributari, con la conseguenza che secondo l’orientamento restrittivo richiamato, l’unica possibilità di usufruire dell’esenzione de quo in relazione alle suddette attività sussiste quando le stesse siano svolte del tutto gratuitamente e senza alcun corrispettivo o contributo pubblico, circostanza evidentemente irrealizzabile.

Così, le difficoltà di individuare una corretta e condivisa interpretazione della detta disposizione indussero il legislatore, prima con il decreto legge del 17 agosto 2005, n. 163 (non convertito), e successivamente con l’art. 7, comma 2-bis del decreto legge 30 settembre 2005, n. 203 (convertito in legge dalla legge del 2 dicembre 2005, n. 248), a una modifica del testo normativo.

Una successiva norma interpretativa è stata inserita nell’art. 39 del Dl 4 luglio 2006 n. 223, secondo cui all’articolo 7 del decreto-legge 30 settembre 2005, n. 203, convertito, con modificazioni, dalla legge 2 dicembre 2005, n. 248, il comma 2-bis è sostituito dal seguente: “2-bis. L’esenzione disposta dall’articolo 7, comma 1, lettera i), del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 504, si intende applicabile alle attività indicate nella medesima lettera che non abbiano esclusivamente natura commerciale”.

Veniva così introdotto il c.d. criterio della prevalenza – ai fini dell’esenzione ICI, possibilità di esercizio di attività commerciali negli immobili da parte degli enti ecclesiastici, purché attività commerciali non prevalenti rispetto alle attività istituzionali – secondo il quale vi era esenzione se ricorrevano tali condizioni:

1) immobili utilizzati da enti non commerciali (c.d. requisito soggettivo) e, sotto questo profilo, non vi era alcun elemento di novità rispetto alla normativa originaria;

2) immobili destinati esclusivamente allo svolgimento delle attività tassativamente indicate a vocazione sociale e filantropica (quelle assistenziali, previdenziali, sanitarie, didattiche, ricettive, culturali, ricreative, sportive e di religione o culto) – c.d. requisito oggettivo – ribadendo, anche sotto questo profilo, la normativa originaria;

3) attività tassativamente indicate non aventi però esclusivamente natura commerciale (elemento di novità);

4) svolgimento nell’immobile solo dell’attività esente, non essendone possibile una devoluzione anche ad altri usi.

Al riguardo, ad esempio, la Corte di Cassazione nella sentenza n. 5485 del 29 febbraio 2008, ribadendo quanto già affermato nelle sentenze n. 20776 del 26 ottobre 2005 e n. 23703 del 15 novembre 2007, ha sostenuto che “la sussistenza del requisito oggettivo – che in base ai principi generali è onere del contribuente dimostrare – non può essere desunta esclusivamente sulla base di documenti che attestino a priori il tipo di attività cui l’immobile è destinato, occorrendo invece verificare che tale attività, pur rientrante tra quelle esenti, non sia svolta, in concreto, con le modalità di un’attività commerciale”.

Del resto, già con le sentenze nn. 4573, 4642, 4644, 4645 del 2004 la Cassazione, sull’assunto che l’esenzione non spettasse agli enti ecclesiastici esercenti attività (oggettivamente) commerciale (in grado di porsi in concorrenza con altre attività commerciali), negò il diritto all’esenzione.

Così, sollecitato dal contenzioso sorto dalle divergenti interpretazioni della dottrina e della giurisprudenza nonché dalle precedenti denunce (archiviate) di incompatibilità col diritto comunitario della concorrenza, il Ministero delle Finanze con la Circolare 26 gennaio 2009, n. 2/Df, ha indicato i requisiti necessari per il riconoscimento dell’esenzione, le attività beneficiate dallo sgravio fiscale e le modalità con cui le stesse devono essere poste in essere dagli enti non commerciali.

Sforzandosi di coordinare le attività commerciali a finalità di carattere sociale, la Circolare chiarisce che l’esenzione trae la sua “giustificazione tanto dalla meritevolezza dei soggetti e delle finalità perseguite, quanto dalla rilevanza sociale delle attività svolte”.

Si rileva, infatti, che “la combinazione del requisito soggettivo e di quello oggettivo comporta che le attività svolte negli immobili ai quali deve essere riconosciuta l’esenzione dall’ICI non siano di fatto disponibili sul mercato o che siano svolte per rispondere a bisogni socialmente rilevanti che non sempre sono soddisfatti dalle strutture pubbliche e che sono estranee alla sfera di azione degli operatori privati commerciali”. La Circolare aggiunge che l’esenzione trae la sua giustificazione, da un lato, nella meritevolezza dei soggetti e delle finalità perseguite e, dall’altro, nella rilevanza sociale delle attività svolte. Attraverso questi passaggi risulta chiaro che l’agevolazione ICI non va vista come un privilegio concesso all’ente ecclesiastico per il solo fatto di possedere un bene immobile, ma risponde a una precisa logica di politica legislativa: agevolare tali enti in vista dello scopo solidaristico perseguito. Inoltre, viene anche chiarito che “la prova delle condizioni che giustificano il riconoscimento dell’esenzione spetta a chi sostiene di averne diritto”.

La Suprema Corte, con sentenza 20 novembre 2009, n. 24500, in maniera ancora più netta che nella sentenza della Corte di Cassazione, Sez. Trib. del 16 luglio 2010, n. 16728, ha sostenuto che “l’esenzione è limitata all’ipotesi in cui gli immobili siano destinati in via esclusiva allo svolgimento di una delle attività di religione o di culto e pertanto non si applica ai fabbricati di proprietà di enti ecclesiastici nei quali si svolga attività sanitaria, non rilevando in contrario né la destinazione degli utili eventualmente ricavati al perseguimento di fini sociali o religiosi, che costituisce un momento successivo alla loro produzione e non fa venir meno il carattere commerciale dell’attività, né il principio della libertà di svolgimento di attività commerciale da parte di un ente ecclesiastico» in quanto, tra l’altro, «l’art. 111 bis d.P.R. 22 dicembre 1986 n. 917, (aggiunto dall’art. 6 d.lgs. 4 dicembre 1997 n. 460), nel prevedere (comma 1) la perdita della qualifica di ente non commerciale per gli enti che esercitino prevalentemente attività commerciale per un intero periodo d’imposta ad esclusione (comma 4) di quelli ecclesiastici, riflette i suoi effetti unicamente sulla qualità del soggetto utilizzatore dell’immobile, ma non sul requisito oggettivo dell’attività nello stesso esercitata”.

Del resto, aggiunge la Cassazione, l’attribuzione di vantaggi fiscali ad enti ecclesiastici esercenti attività commerciale, anche se negli ambiti indicati dalla normativa ICI, “porrebbe il problema della compatibilità della disposizione con l’art. 87, n. 1 del Trattato CE (attuale articolo 107 TFUE) che vieta gli aiuti di Stato che favoriscono talune imprese rispetto ad altre. Attesa la latitudine della nozione di impresa assunta dalla giurisprudenza comunitaria in materia di concorrenza” ed atteso che «costituisce attività economica qualsiasi attività che consista nell’offrire beni o servizi su un determinato mercato, non potrebbe invero escludersi che l’esenzione dell’ICI concessa alle aziende di proprietà ecclesiastica riduca per esse soltanto gli oneri normalmente gravanti sul bilancio delle imprese che offrono nel medesimo mercato servizi analoghi, conferendo un vantaggio idoneo ad incidere sulla concorrenza.

Anche nel 2011 la Suprema Corte di Cassazione, con la pronuncia della n. 23314, ha affermato che “gli immobili religiosi come conventi e abbazie non possono usufruire dell’esenzione dall’ICI quando vengono svolte in esse attività commerciali come l’ospitalità a pagamento con le modalità del trattamento alberghiero”; in particolare, “non basta la mera dichiarazione del gestore perché l’immobile “religioso” non sia soggetto al versamento dell’ICI. Per fruire dell’agevolazione è necessario comprovare che l’attività assistenziale svolta nell’immobile non abbia caratteri commerciali la sussistenza del requisito oggettivo (rappresentato dallo svolgimento esclusivo nell’immobile di attività di assistenza o di altre attività equiparate dal legislatore ai fini dell’esenzione) – che in base ai principi generali è onere del contribuente dimostrare – non può essere desunta esclusivamente sulla base di documenti che attestino “a priori” il tipo di attività cui l’immobile è destinato, occorrendo invece verificare che tale attività, pur rientrante tra quelle esenti, non sia svolta, in concreto, con le modalità di un’attività commerciale”.

A tale proposito occorre fare riferimento alla nozione giuridica di ‘attività’ verificando in concreto che l’attività svolta attraverso l’immobile oggetto di esenzione non sia svolta con le modalità di un’attività commerciale (l’onere delle prova è a carico del contribuente che chiede l’applicazione dell’esenzione fiscale) con lo scopo esclusivo o principale dell’esercizio di attività commerciali. Dunque, per l’esenzione deve esserci un requisito soggettivo, che prevede che l’immobile sia utilizzato da un ente non commerciale per l’esercizio effettivo dell’azione da parte dell’ente, sia esso pubblico o privato, non debba essere svolto in esclusiva o anche in via principale allo stesso modo di una qualsiasi attività commerciale, e uno oggettivo, per il quale si deve fare riferimento alla destinazione d’uso dell’immobile avendo cura, principalmente, di accertare che l’attività ivi svolta dall’ente non abbia ad essere la stessa alla stregua delle comuni attività commerciali.

In secondo luogo, i giudici di legittimità, hanno ritenuto rinvenibile la violazione delle norme comunitarie in materia di concorrenza optando, per così dire, per una interpretazione della normativa nazionale sull’esenzione ICI in modo eurounitariamente conforme: secondo la Cassazione, infatti, la norma interna contrasterebbe con il diritto comunitario della concorrenza e, in particolare, con le norme sostanziali e con quelle procedurali in materia di aiuti di Stato.

A distanza di pochi mesi dall’introduzione dell’IMU, la Commissione europea, che nel frattempo aveva avviato un procedimento d’indagine formale ai sensi dell’art. 108, par. 2 TFUE25, ha stabilito che l’esenzione dall’ICI prevista fino al 2011 dall’art. 7, primo comma, lett. i, D.Lgs. n. 504 del 1992 costituiva un aiuto di Stato illegittimamente concesso dall’Italia e incompatibile con il mercato europeo: si tratta della decisione C(2012)/6491 del 19 dicembre 2012 (da ora, anche ‘decisione finale 2012’).

Tanto premesso e tornando al caso in dibattimento, un Comune, in buona sostanza, lamentava violazione e falsa applicazione dell’art. 7, comma 1, lettera i), del D.Lgs. n. 504 del 1992, in quanto la sentenza impugnata si poneva in contrasto con le norme di legge, nonché con le pronunce emesse dalla Commissione europea, le quali avevano rilevato che l’esenzione dal pagamento dell’ICI concessa dal 2006 al 2011 dall’art. 7, comma 1, lettera i) del citato decreto n. 504 del 1992, così come modificato dal Dl n. 223 del 2006, convertito con modificazioni dalla legge n. 248 del 2006, fosse incompatibile con le norme europee sugli aiuti di Stato.

Incassato il negativo parere dalla CTR, l’Ente locale si rivolgeva alla Cassazione con due motivi di ricorso.

Gli Ermellini, dopo un breve richiamo alla precedente giurisprudenza sull’argomento, hanno ritenuto che “ … la giurisprudenza di legittimità aveva chiarito che il pagamento di un corrispettivo per la fruizione di un servizio fornito dall’ente era rivelatore dell’esercizio di un’attività svolta con modalità commerciali; e le c.d. rette sociali riscosse da enti ecclesiastici senza fini di lucro per l’ospitalità in case per ferie o per anziani non escludeva che si trattasse di attività svolte con modalità commerciali, anche se le rette riscosse fossero più basse rispetto ai prezzi di mercato, a prescindere dalla natura giuridica dell’ente erogatore; che, con il secondo motivo di ricorso, il ricorrente lamenta violazione e falsa applicazione dell’art. 7 comma 1 lettera I) del d.lgs. n. 504 del 1992, nonché dell’art. 2697 cod. civ., in relazione all’art. 360 comma 1 n. 3 cod. proc. civ., in quanto erroneamente la CTR aveva ritenuto l’immobile esente da ICI solo perché destinato ad attività didattica, a prescindere dalla prova che si trattasse di attività svolta con modalità non commerciali; al contrario il diritto all’esenzione ICI poteva conseguire solo al verificarsi di una duplice condizione, di cui una soggettiva, costituita dallo svolgimento di attività didattica, pacificamente sussistente nella specie, ed un’altra oggettiva, costituita dallo svolgimento dell’attività con modalità non commerciali, prevedendo nella specie l’attività didattica svolta dalla Parrocchia il pagamento di una retta; che la contribuente si è costituita con controricorso; che i due motivi di ricorso proposti dal ricorrente, da trattare congiuntamente, siccome strettamente correlati fra di loro, sono fondati;che, invero, la giurisprudenza di legittimità (cfr. Cass. n. 22223 del 2019; Cass. n. 7415 del 2019) è concorde nel ritenere che l’art. 7 comma 2 bis del d.l. n. 203 del 2005, aggiunto dalla legge di conversione n. 248 del 2005 dall’art. 1 comma 133 della legge n. 266 del 2005 ed infine sostituito dall’art. 39 del d.l. n. 223 del 2006, convertito nella legge n. 248 del 2006, ha esteso l’esenzione dall’ICI disposta dall’art. 7 comma 1 lettera I) della legge citata alle attività che non avessero esclusivamente natura commerciale; ed è questa la disposizione normativa da applicare “ratione temporis” alla specie in esame, concernente il pagamento ICI anno 2010, prima delle modifiche apportate alla norma in esame dall’art. 11 bis del d.l. n. 149 del 2013, convertito con modificazioni nella legge n. 13 del 2013; ora, prima della modifica legislativa da ultimo citata, la giurisprudenza di questa Corte, con indirizzo costante, ha stabilito che l’esenzione dall’ICI non spetta ad un fabbricato, nel quale un ente religioso, quale è nella specie la contribuente Parrocchia di S. G.B. in F., svolga un’attività a dimensione imprenditoriale anche se non prevalente; e, nella specie, non è contestato che la Parrocchia anzidetta svolgesse nei locali in questione attività scolastica e quindi diversa da quella di religione e dal culto; occorreva pertanto valutare se l’attività svolta, esercitata da detto ente religioso, potesse ritenersi finalizzata ad uno degli scopi istituzionali protetti, di cui all’art. 7 comma 1 lettera i) del d.lgs. n. 504 del 1992; era necessario all’uopo accertare la sussistenza di due requisiti, di cui uno soggettivo e cioè la natura non commerciale dell’ente ed uno oggettivo e cioè che l’attività svolta rientrasse fra quelle previste dal citato art. 7; non era quindi sufficiente provare che l’attività, cui l’immobile era destinato, rientrasse fra quelle esenti, dovendosi altresì provare che detta attività non venisse svolta con modalità proprie di un’attività commerciale; e la Commissione dell’unione europea, pronunciatasi in ordine alle disposizioni che regolamentavano l’esenzione ICI, onde valutare la loro compatibilità con l’art. 107 paragrafo 1 del trattato istitutivo dall’unione europea, con decisione del 19 dicembre 2012 ha stabilito che anche un ente senza fine di lucro può svolgere attività commerciale e cioè offrire beni e servizi sul mercato, con conseguente necessità di accertare che si tratti di attività svolta a titolo gratuito ovvero a fronte di versamenti del tutto minimi; sono pertanto irrilevanti ai fini tributari le finalità solidaristiche, che certamente connotano le attività ricettive svolta dalla Parrocchia anzidetta, occorrendo al contrario verificare se l’attività recettiva svolta da detta Parrocchia fosse rivolta ad un pubblico indifferenziato ovvero a categorie predefinite di soggetti; se il servizio venisse offerto per l’intero anno solare; se la struttura funzionasse o meno come un normale istituto scolastico; quale tipo di tariffa venisse applicata e quale tipo di compenso venisse richiesto, se cioè esso avesse una qualche rilevanza ovvero fosse meramente simbolico; che, pertanto, la CTR non ha svolto gli accertamenti ai quali era tenuta secondo i principi in precedenza illustrati, essendosi limitata ad affermare, in modo non condivisibile, che, con riferimento all’anno di applicazione dell’ICI (2010), l’esclusiva destinazione dell’immobile all’esercizio di un’attività didattica non richiedeva l’accertamento che l’attività esente avvenisse con modalità non commerciali; che, pertanto, il ricorso proposto dal Comune di F. va accolto; la sentenza impugnata va cassata e gli atti rimessi alla CTR dell’Emilia Romagna in diversa composizione, anche per la determinazione delle spese del presente giudizio di legittimità”.

Corte di Cassazione – Ordinanza 10 settembre 2020, n. 18831

sul ricorso 2075-2019 proposto da:

 COMUNE DI FUSIGNANO, in persona del Sindaco pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, CORSO VITTORIO EMANUELE II 18, presso lo studio dell’avvocato GIUSEPPE PECORILLA, rappresentato e difeso dagli avvocati MARIA SUPPA, ANTONIO CHIARELLO;

– ricorrente –

contro PARROCCHIA DI S. G. B. IN FUSIGNANO, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la CORTE DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa dall’avvocato MARCO MASI;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 2205/11/2018 della COMMISSIONE TR1BTUARIA REGIONALE dell’EMILIA ROMAGNA, depositata il 2!/09/2018; udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 13/07/2020 dal Consigliere Relatore Dott. RA EFAELE CAPOZZI.

Rilevato

che il Comune di F. (RA) propone ricorso per cassazione nei confronti di una sentenza della CTR delL’Emilia Romagna, di rigetto dell’appello da esso proposto avverso una sentenza della CTP di Ravenna, che aveva accolto il ricorso della contribuente Parrocchia di S. G.B. in F. avverso un avviso di accertamento, con il quale il Comune di F. aveva contestato l’omessa denuncia e l’omesso versamento dell’ ICI 2010, riferita ad un fabbricato di proprietà della Parrocchia, adibito ad uso scolastico;

Considerato

che il ricorso è affidato a due motivi di ricorso:

che, con il primo motivo di ricorso, il Comune di F. lamenta violazione e falsa applicazione dell’art. 7 comma 1 lettera I) del d.lgs. n. 504 del 1992, nella lettura adeguata fornita dalla Commissione europea con la decisione del 19 dicembre 2012 e dalla Corte di giustizia europea con la sentenza del 6 novembre 2018, in relazione all’art. 360 comma 1 n. 3 cod. proc. civ., in quanto la sentenza impugnata si poneva in contrasto con le norme di legge, nonché con le pronunce emesse dalla Commissione europea, le quali avevano rilevato che l’esenzione dal pagamento dell’ICI concessa dal 2006 al 2011 dall’art. 7 comma 1 lettera I) del d.lgs. n. 504 del 1992, così come modificato dal d.l. n. 223 del 2006, convertito con modificazioni dalla legge n. 248 del 2006, fosse incompatibile con le norme europee sugli aiuti di Stato;

ed anche la giurisprudenza di legittimità aveva chiarito che il pagamento di un corrispettivo per la fruizione di un servizio fornito dall’ente era rivelatore dell’esercizio di un’attività svolta con modalità commerciali;

e le c.d. rette sociali riscosse da enti ecclesiastici senza fini di lucro per l’ospitalità in case per ferie o per anziani non escludeva che si trattasse di attività svolte con modalità commerciali, anche se le rette riscosse fossero più basse rispetto ai prezzi di mercato, a prescindere dalla natura giuridica dell’ente erogatore;

che, con il secondo motivo di ricorso, il ricorrente lamenta violazione e falsa applicazione dell’art. 7 comma 1 lettera I) del d.lgs. n. 504 del 1992, nonché dell’art. 2697 cod. civ., in relazione all’art. 360 comma 1 n. 3 cod. proc. civ., in quanto erroneamente la CTR aveva ritenuto l’immobile esente da ICI solo perché destinato ad attività didattica, a prescindere dalla prova che si trattasse di attività svolta con modalità non commerciali; al contrario il diritto all’esenzione ICI poteva conseguire solo al verificarsi di una duplice condizione, di cui una soggettiva, costituita dallo svolgimento di attività didattica, pacificamente sussistente nella specie, ed un’altra oggettiva, costituita dallo svolgimento dell’attività con modalità non commerciali, prevedendo nella specie l’attività didattica svolta dalla Parrocchia il pagamento di una retta;

che la contribuente si è costituita con controricorso;

che i due motivi di ricorso proposti dal ricorrente, da trattare congiuntamente, siccome strettamente correlati fra di loro, sono fondati;

che, invero, la giurisprudenza di legittimità (cfr. Cass. n. 22223 del 2019; Cass. n. 7415 del 2019) è concorde nel ritenere che l’art. 7 comma 2 bis del d.l. n. 203 del 2005, aggiunto dalla legge di conversione n. 248 del 2005 dall’art. 1 comma 133 della legge n. 266 del 2005 ed infine sostituito dall’art. 39 del d.l. n. 223 del 2006, convertito nella legge n. 248 del 2006, ha esteso l’esenzione dall’ICI disposta dall’art. 7 comma 1 lettera I) della legge citata alle attività che non avessero esclusivamente natura commerciale; ed è questa la disposizione normativa da applicare “ratione temporis” alla specie in esame, concernente il pagamento ICI anno 2010, prima delle modifiche apportate alla norma in esame dall’art. 11 bis del d.l. n. 149 del 2013, convertito con modificazioni nella legge n. 13 del 2013; ora, prima della modifica legislativa da ultimo citata, la giurisprudenza di questa Corte, con indirizzo costante, ha stabilito che l’esenzione dall’ICI non spetta ad un fabbricato, nel quale un ente religioso, quale è nella specie la contribuente Parrocchia di S. G.B. in F., svolga un’attività a dimensione imprenditoriale anche se non prevalente; e, nella specie, non è contestato che la Parrocchia anzidetta svolgesse nei locali in questione attività scolastica e quindi diversa da quella di religione e dal culto;

occorreva pertanto valutare se l’attività svolta, esercitata da detto ente religioso, potesse ritenersi finalizzata ad uno degli scopi istituzionali protetti, di cui all’art. 7 comma 1 lettera i) del d.lgs. n. 504 del 1992; era necessario all’uopo accertare la sussistenza di due requisiti, di cui uno soggettivo e cioè la natura non commerciale dell’ente ed uno oggettivo e cioè che l’attività svolta rientrasse fra quelle previste dal citato art. 7;

 non era quindi sufficiente provare che l’attività, cui l’immobile era destinato, rientrasse fra quelle esenti, dovendosi altresì provare che detta attività non venisse svolta con modalità proprie di un’attività commerciale; e la Commissione dell’unione europea, pronunciatasi in ordine alle disposizioni che regolamentavano l’esenzione ICI, onde valutare la loro compatibilità con l’art. 107 paragrafo 1 del trattato istitutivo dall’unione europea, con decisione del 19 dicembre 2012 ha stabilito che anche un ente senza fine di lucro può svolgere attività commerciale e cioè offrire beni e servizi sul mercato, con conseguente necessità di accertare che si tratti di attività svolta a titolo gratuito ovvero a fronte di versamenti del tutto minimi; sono pertanto irrilevanti ai fini tributari le finalità solidaristiche, che certamente connotano le attività ricettive svolta dalla Parrocchia anzidetta, occorrendo al contrario verificare se l’attività recettiva svolta da detta Parrocchia fosse rivolta ad un pubblico indifferenziato ovvero a categorie predefinite di soggetti; se il servizio venisse offerto per l’intero anno solare; se la struttura funzionasse o meno come un normale istituto scolastico; quale tipo di tariffa venisse applicata e quale tipo di compenso venisse richiesto, se cioè esso avesse una qualche rilevanza ovvero fosse meramente simbolico;

che, pertanto, la CTR non ha svolto gli accertamenti ai quali era tenuta secondo i principi in precedenza illustrati, essendosi limitata ad affermare, in modo non condivisibile, che, con riferimento all’anno di applicazione dell’ICI (2010), l’esclusiva destinazione dell’immobile all’esercizio di un’attività didattica non richiedeva l’accertamento che l’attività esente avvenisse con modalità non commerciali;

che, pertanto, il ricorso proposto dal Comune di F. va accolto; la sentenza impugnata va cassata e gli atti rimessi alla CTR dell’Emilia Romagna in diversa composizione, anche per la determinazione delle spese del presente giudizio di legittimità;

P.Q.M. Accoglie il ricorso; cassa la sentenza impugnata e rinvia alla CTR dell’Emilia Romagna in diversa composizione, anche per la determinazione delle spese del presente giudizio di legittimità. Così deciso in Roma il 13 luglio 2020.

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