L’omesso versamento dell’imposta di soggiorno, tra peculato e illecito amministrativo
Tributi locali – Imposta di soggiorno – Gestore – Peculato – L. n. 34 del 2020 – Retroattività della lex milior – Esclusione – Illecito amministrativo – Solidarietà tributaria – L. 17 dicembre 2021, n. 215, art. 5-quinquies, di conversione del D.L. 21 ottobre 2021, n. 146
La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 9213 del 17 marzo 2022 ha offerto un prezioso apporto alle recenti modifiche introdotte dalla legge 215/2021, per affermare che i gestori delle strutture ricettive non devono rispondere più del reato di peculato in caso di mancato riversamento ai Comuni dell’imposta di soggiorno incassata dai propri clienti. Sinteticamente è possibile riassumere che si deve escludere che siano ancora penalmente rilevanti, a titolo di peculato, le condotte di omesso, ritardato o parziale versamento dell’imposta di soggiorno realizzate dal gestore della struttura ricettiva prima della data del 19 maggio 2020, vale a dire prima delle modifiche introdotte dall’art. 180 del Dl n. 34/2020. Ciò in forza della norma di interpretazione autentica di cui all’art. 5-quinquies della Legge n. 215/2021. Con la menzionata norma interpretativa, infatti, il legislatore ha espressamente assegnato una valenza retroattiva alla disposizione più favorevole, disposizione che, nella specie, ha attribuito all’operatore turistico la qualifica soggettiva di responsabile d’imposta a fronte della previgente disciplina che lo investiva, quale agente contabile, del servizio pubblico di riscossione del detto tributo. E tale valenza retroattiva, contestualmente, è da ritenersi assegnata anche alla disciplina sanzionatoria amministrativa correlata a tale mutata qualifica.
Preliminarmente ricordiamo che l’imposta di soggiorno, definita erroneamente anche come tassa di soggiorno, è un tributo locale, applicato a carico di chi soggiorna in una struttura ricettiva che si trova in un Comune in cui tale imposta è stata istituita. Questo tipo di imposta non è pagato da chi gestisce la struttura ricettiva ma dalle persone che vi soggiornano, e l’intero ammontare incassato dall’Ente comunale, come da normativa, è integralmente investito in ambito turistico. In Italia la tassa di soggiorno nacque nel lontano 1910 e in un primo momento fu applicata solamente in alcune tipologie di Comuni, in particolare nelle stazioni termali e zone balneari. Successivamente, con il Regio decreto legge del 24 novembre 1938, la tassa diventò un’imposta e venne estesa a tutte le località turistiche d’Italia, rimanendo attiva fino alla fine del 1988. A seguito del federalismo fiscale comunale, con la legge 42/2009, scaturirono nuove idee per una maggiore autonomia degli enti locali. La conseguenza in ambito turistico si manifestò con una nuova struttura dell’imposta di soggiorno essenzialmente attraverso il D.lgs. 23/2011, contenente i principi che avrebbero definito i punti cardine dell’imposta di soggiorno oggi in vigore. Successivamente, a partire dal 2012, sempre più Comuni italiani hanno deciso di applicare quest’imposta, arrivando nel 2022 a essere svariate centinaia: ricordiamo che l’imposta di soggiorno non può essere istituita da tutti i Comuni, ma solo in quelli turistici, le città d’arte e i capoluoghi di provincia.
Esiste inoltre anche un elevato grado di personalizzazione a livello locale dei parametri più importanti dell’imposta. Le tariffe, le esenzioni e le varie scadenze dell’imposta di soggiorno sono decise dalle varie amministrazioni locali in seduta di consiglio comunale e quindi variano a seconda del Comune in cui è situata la struttura ricettiva, in base alla tipologia della struttura stessa e in alcuni casi al periodo in cui si vuole soggiornare. All’interno di ogni regolamento comunale in cui sono definite le tariffe sono previste anche una serie di esenzioni per agevolare alcune categorie di visitatori.
In sintesi, nel quadro della disciplina adottata a seguito dell’emergenza epidemiologica da Covid-19, il citato decreto-rilancio ha configurato in capo all’albergatore un obbligo tributario il cui mancato assolvimento è sanzionato amministrativamente. Con questa riforma è pertanto mutata la qualificazione giuridica del ruolo dell’albergatore in rapporto all’imposta di soggiorno e da agente contabile, che riscuote denaro pubblico dai clienti con l’obbligo di trasferirlo al Comune, diventa responsabile di un obbligo tributario che lo interessa direttamente, salvo il diritto di rivalsa sui clienti, pure soggetti a quell’obbligo.
E’ bene ribadire quindi che, oggi, il mancato versamento della tassa di soggiorno integra il nuovo illecito amministrativo tributario e che secondo il principio di irretroattività dell’illecito sanzionatorio amministrativo – espresso dall’art. 1, legge 689/1981 e, secondo la giurisprudenza costituzionale, dall’art. 25, co. 2 Cost. – è di tutta evidenza che il nuovo illecito amministrativo-tributario non possa applicarsi ai fatti antecedentemente commessi.
Concludendo, è possibile allora affermare che il gestore della struttura ricettiva è un agente contabile, incaricato dell’espletamento di un’attività ausiliaria nei confronti dell’ente impositore e oggettivamente strumentale all’esecuzione dell’obbligazione tributaria intercorrente, in via esclusiva, tra il Comune e il soggetto alloggiante nella struttura ricettiva, come ampiamente specificato dalla L. 215/2021, art. 5-quinquies, di conversione del D.L. 149/2021, recante misure urgenti in materia economica e fiscale, a tutela del lavoro e per esigenze indifferibili (cd. decreto fisco e lavoro). Qui il legislatore ha inteso delineare una norma di “Interpretazione autentica del D.lgs. 14 marzo 23/2011, art. 4, comma 1-ter, stabilendo che “Il D.lgs. 14 marzo 2011, n. 23, art. 4, comma 1-ter, ai sensi del quale si attribuisce la qualifica di responsabile del pagamento dell’imposta di soggiorno al gestore della struttura ricettiva con diritto di rivalsa sui soggetti passivi e si definisce la relativa disciplina sanzionatoria, si intende applicabile anche ai casi verificatisi prima del 19 maggio 2020”.
Tale questione è stata nel tempo ampiamente discussa in dottrina e in giurisprudenza, che hanno offerto anche soluzioni talvolta decisamente opposte tra loro circa l’eventuale “abolitio criminis” delle condotte di omesso, ritardato o parziale versamento dell’imposta di soggiorno poste in essere, da parte dei gestori delle strutture ricettive, antecedentemente alla data di entrata in vigore del decreto rilancio, proprio in considerazioni che le conseguenze immediate della novella legislativa si tramutavano sul piano penale: “… :Il gestore della struttura ricettiva è responsabile del pagamento dell’imposta di soggiorno di cui al comma 1 e del contributo di soggiorno di cui all’articolo 14, comma 16, lettera e), del decreto legge 31 maggio 2010, n. 78, convertito, con modificazioni, dalla legge 30 luglio 2010, n. 122, con diritto di rivalsa sui soggetti passivi, della presentazione della dichiarazione, nonché degli ulteriori adempimenti previsti dalla legge e dal regolamento comunale. La dichiarazione deve essere presentata cumulativamente ed esclusivamente in via telematica entro il 30 giugno dell’anno successivo a quello in cui si è verificato il presupposto impositivo, secondo le modalità approvate con decreto del Ministro dell’economia e delle finanze, sentita la Conferenza Stato-città ed autonomie locali, da emanare entro centottanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente disposizione. Per l’omessa o infedele presentazione della dichiarazione da parte del responsabile si applica la sanzione amministrativa pecuniaria del pagamento di una somma dal 100 al 200 per cento dell’importo dovuto. Per l’omesso, ritardato o parziale versamento dell’imposta di soggiorno e del contributo di soggiorno si applica la sanzione amministrativa di cui all’articolo 13 del decreto legislativo 18 dicembre 1997, n. 471”.
Seguendo una prima impostazione giurisprudenziale, inizialmente minoritaria, le condotte di omesso, ritardato o parziale versamento dell’imposta di soggiorno da parte dei gestori delle strutture ricettive poste in essere antecedentemente alla data di entrata in vigore del DL 34/2020 manterrebbero intatta la loro rilevanza penale. Tale orientamento escludeva una applicazione del principio di abolitio criminis che peraltro resta uno dei corollari del principio di legalità e trova collocazione anche all’interno della Costituzione, precisamente nel secondo comma dell’art. 25. Il secondo comma dell’articolo 2 c.p. prevede la cosiddetta abolitio criminis, alla luce della quale nessuno può essere punito per un fatto che secondo una legge posteriore non costituisce reato e, se vi è stata condanna, ne cessano l’esecuzione e gli effetti penali. Alla base di questo indirizzo interpretativo vi era, in breve, la considerazione del fatto che il legislatore del decreto rilancio si sarebbe esclusivamente limitato a rimeditare, per il futuro, la qualifica soggettiva dei gestori delle strutture ricettive (come “responsabili del pagamento dell’imposta” ai sensi dell’art. 64, terzo comma, DPR 600/1973) prevedendo, in luogo della qualifica pubblicistica (e in particolare quella di incaricato di pubblico servizio) da tempo attribuita a costoro, per vero non senza oscillazioni, dalla giurisprudenza maggioritaria della Suprema Corte e dalla Corte dei Conti, quella di “responsabile del pagamento dell’imposta di soggiorno […] con diritto di rivalsa sui soggetti passivi”. In luogo della veste di incaricato di pubblico servizio, il decreto-legge 34/2020 si sarebbe limitato ad attribuire al gestore di strutture ricettive la veste di coobbligato solidale del cliente alloggiante nella propria struttura, con espresso diritto di rivalsa nei confronti di quest’ultimo, secondo lo schema tipico del “responsabile d’imposta” disciplinato dall’art. 64, terzo comma, DPR 600/1973. Proprio facendo leva sul profilo relativo al mutamento della qualifica soggettiva del gestore di strutture ricettive nei termini precedentemente compendiati, la Corte di Cassazione ha ritenuto di poter fare applicazione dei principi di diritto autorevolmente enunciati dalle Sezioni Unite, che nel 2007 hanno affermato che nell’ipotesi di successione nel tempo di leggi extrapenali si verte al cospetto di un fenomeno di autentica abolitio criminis esclusivamente nell’ipotesi in cui la norma extrapenale richiamata dalla fattispecie penale incriminatrice risulti integratrice di essa.
Anche nell’ipotesi di omesso, ritardato o parziale versamento dell’imposta di soggiorno da parte da parte dei gestori delle strutture ricettive poste in essere prima della data di entrata in vigore del decreto rilancio, alla stregua dell’orientamento recentemente avviato dalla Corte Suprema di Cassazione, ci si troverebbe al cospetto di una modifica normativa non integratrice del precetto per l’elementare ragione che la modifica del quadro normativo di riferimento, di natura extrapenale, che regola il versamento dell’imposta di soggiorno non sarebbe sussumibile nel fenomeno del “riempimento di norme penali in bianco”, né risulterebbe qualificabile in termini di norma definitoria. Il novum normativo, assai più semplicemente, si sarebbe limitato a innescare una successione di norme extrapenali che, pur collocandosi in rapporto di “interferenza applicativa” sia con la nozione della persona incaricata di un pubblico servizio dettata dall’art. 358 c.p., sia con quella che stabilisce la struttura del reato (il riferimento, stavolta, è al delitto di peculato previsto dall’art. 314 c.p.), lasciano però entrambe inalterate, potendo al più dirsi richiamate in maniera implicita da elementi normativi contenuti sia nella norma definitoria che nella fattispecie penale.
Si è anche osservato, in prospettiva analoga a quella suggerita dalla Suprema Corte, che l’art. 180, terzo comma, del DL 34/2020 non avrebbe modificato la nozione astratta di incarico di pubblico servizio, ma avrebbe eliminato le condizioni che consentono – o meglio, che avevano consentito alla giurisprudenza di legittimità e a quella contabile – di qualificare il singolo gestore della struttura ricettiva come incarico di pubblico servizio, con la conseguenza che non si sarebbe verificata una abolitio criminis in quanto il novum normativo non avrebbe espunto dalla macro-categoria degli incaricati di pubblico servizio la sotto-categoria degli incaricati alla riscossione delle imposte per conto di un ente pubblico. La norma sopravvenuta impedirebbe piuttosto, d’ora in avanti, di ricondurre il mancato, ritardato o parziale versamento dell’imposta di soggiorno, anche per i fatti antecedenti al 19 maggio 2020, al delitto di peculato, postulando tale fattispecie incriminatrice come presupposto necessario della condotta del soggetto attivo nella veste giuridica del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio. Ne consegue che il fatto oggetto di contestazione non è più previsto dalla legge come reato, in ragione dell’intervento operato dal legislatore con l’aggiunta dell’art. 5-quinquies in fase di conversione del D.L. 149/2021, sì come incidente su una normativa extra-penale con effetti riflessi su quella penale in virtù di una modifica solo mediata dei presupposti applicativi della su indicata figura criminosa.
In conclusione è possibile sommariamente affermare che con l’art. 180, terzo comma, del DL 34/2020, entrato in vigore il 19 maggio 2020 e convertito, con modificazioni, nella legge 77/2020, entrata in vigore il 19 luglio 2020, il legislatore ha previsto l’attuazione di significative innovazioni in relazione alle condotte di omesso, ritardato o parziale versamento dell’imposta di soggiorno da parte da parte dei gestori delle strutture ricettive. Si tratta di una soluzione non irragionevole, nonostante si diriga verso una determinata categoria di attività imprenditoriali e un determinato settore economico-commerciale, che non nasconde il fine di porre rimedio a una complessiva situazione di incoerenza obiettivamente determinatasi nell’ordinamento a seguito della precedente riforma legislativa del 2020, per la quale il gestore di una struttura ricettiva (eventualmente identificabile anche nella stessa persona fisica) che abbia omesso, ritardato o versato solo in parte le somme relative all’imposta di soggiorno dopo il 19 maggio 2020 ne risponde solo in sede amministrativo-tributaria ai sensi del D.lgs. 471/1997, art. 13, mentre prima di quella data poteva rispondere di tali fatti a titolo di peculato.
Tanto premesso e guardando alla vicenda in oggetto, essa ha inizio quando il Giudice per le indagini preliminari irrogava, ex artt. 444 ss. c.p.p., la pena di anno uno e mesi quattro di reclusione alla rappresentante legale di una società titolare di una struttura ricettiva alberghiera per il reato di cui all’art. 81 c.p., comma 2 e art. 314 c.p., con riferimento alla condotta di appropriazione delle somme ricevute dai turisti a titolo di tassa di soggiorno per gli anni 2016, 2017 e 2018 e al conseguente omesso versamento al Comune dei relativi importi, così come stabilito dal regolamento comunale. Avverso tale decisione la parte contribuente ha proposto ricorso per Cassazione lamentando essenzialmente, con unico motivo, l’erronea applicazione dell’art. 444 c.p.p., comma 2, art. 448 c.p.p., comma 2-bis, con riferimento all’art. 314 c.p., art. 358 c.p., comma 2 e al D.L. 34/2020, art. 180, comma 3, per essere stata applicata la pena richiesta dalle parti per il reato di peculato continuato. La Suprema Corte ha annullato la Sentenza con la seguente motivazione: “… Con la L. 17 dicembre 2021, n. 215, art. 5-quinquies, di conversione del D.L. 21 ottobre 2021, n. 146, recante misure urgenti in materia economica e fiscale, a tutela del lavoro e per esigenze indifferibili (cd. decreto fisco e lavoro), il legislatore ha inteso delineare, come enunciato nella rubrica, una norma di “Interpretazione autentica del D.Lgs. 14 marzo 2011, n. 23, art. 4, comma 1-ter, stabilendo che “Il D.Lgs. 14 marzo 2011, n. 23, art. 4, comma 1-ter, ai sensi del quale si attribuisce la qualifica di responsabile del pagamento dell’imposta di soggiorno al gestore della struttura ricettiva con diritto di rivalsa sui soggetti passivi e si definisce la relativa disciplina sanzionatoria, si intende applicabile anche ai casi verificatisi prima del 19 maggio 2020”. Si è già rilevato come, rispetto alla nuova disciplina dell’imposta di soggiorno, il gestore della struttura ricettiva abbia assunto, per effetto dei richiamati mutamenti del quadro normativo, il ruolo di debitore in relazione alle somme dovute dai suoi ospiti in favore dell’ente pubblico, mantenendo però il diritto di rivalsa sui soggetti passivi. E’ noto che la disposizione di cui al D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 64, comma 3, contiene la definizione del responsabile d’imposta, individuato in colui che “….in forza di disposizioni di legge, è obbligato al pagamento dell’imposta insieme con altri, per fatti o situazioni esclusivamente riferibili a questi”, attribuendogli il diritto di rivalsa. La figura del responsabile d’imposta rafforza l’adempimento dell’obbligazione tributaria del soggetto passivo, ma va esclusa dal novero dei soggetti passivi in quanto estranea alla situazione di fatto che integra il presupposto del tributo. Egli, dunque, risponde del pagamento del tributo insieme con il contribuente, ma, a differenza del sostituto di imposta, che è obbligato al pagamento in luogo del contribuente, è solidalmente obbligato con quest’ultimo e vanta nei suoi confronti il diritto di rivalsa per l’intera somma pagata.Questa Corte (Sez. 1, n. 12066 del 27/10/1999, Rv. 530805) ne ha coerentemente inquadrato la nozione, affermando che il responsabile d’imposta assume la veste di un coobbligato solidale (dipendente), che la legge affianca al soggetto passivo d’imposta non per la sua partecipazione al presupposto d’imposta, che è esclusivamente riferibile ad altri, ma perché ha posto in essere fatti ulteriori e diversi dal presupposto, ai quali la legge stessa – pur non costituendo detti fatti manifestazione di capacità contributiva – ricollega automaticamente, al fine della protezione dell’interesse generale alla riscossione dei tributi (c.d. interesse fiscale, anch’esso tutelato dall’art. 53 Cost.), l’obbligo del pagamento del tributo, cioè della medesima somma dovuta dal soggetto passivo d’imposta. Ora, la modifica da ultimo operata dal legislatore investe sia la componente precettiva della disciplina relativa all’imposta di soggiorno, sia quella propriamente sanzionatoria, rendendo applicabili anche ai fatti pregressi, ossia anche ai casi verificatisi prima del 19 maggio 2020, gli effetti della richiamata disciplina a suo tempo introdotta per l’illecito amministrativo-tributario, in deroga al principio di irretroattività di cui alla L. n. 689 del 1981, art. 1. La disposizione di cui all’art. 5-quinquies cit., che il legislatore ha formalmente qualificato “di interpretazione autentica”, contiene dunque una norma innovativa di quella a suo tempo introdotta con il D.Lgs. 14 marzo 2011, n. 23, art. 4, comma 1-ter, per come modificato a seguito dell’interpolazione operata con il D.L. 19 maggio 2020, n. 34, art. 180, comma 3, inserendo nel testo del D.L. n. 23 del 2011 la connotazione di retroattività della norma attributiva della qualifica soggettiva di responsabile d’imposta in capo al gestore della struttura ricettiva. A ben vedere, nonostante l’apparente stato formale, la formulazione lessicale della norma sopravvenuta induce a non ritenerla, propriamente, di interpretazione autentica di un elemento normativo o di un profilo descrittivo della precedente disposizione, ma ne disvela, piuttosto, la natura di norma dal contenuto innovativo con effetto retroattivo sia riguardo all’estensione temporale dell’attribuzione di una qualifica soggettiva (già individuata dal legislatore) che alla dimensione applicativa della relativa disciplina sanzionatoria in sede tributaria (qui contemplata in deroga al principio di irretroattività). Si è dianzi osservato come il nuovo illecito amministrativo tributario previsto dall’ultima parte dell’art. 180, comma 3, cit. per l’omesso, parziale o ritardato versamento dell’imposta di soggiorno non potesse essere applicato retroattivamente, in ragione del limite posto dalla L. n. 689 del 1981, art. 1 e della mancanza di una norma transitoria ad hoc. Il legislatore ha significativamente innovato tali profili della disciplina normativa dell’imposta di soggiorno stabilendone l’efficacia retroattiva, senza introdurvi contenuti ricognitivi del significato di termini o concetti il cui alveo semantico fosse stato erroneamente delimitato o frainteso da una errata “lettura” della pregressa disposizione secondo gli ordinari, e nel caso in esame ampiamente consolidati, meccanismi evolutivi del diritto “vivente”. Sotto altro, ma connesso profilo, vi ha inserito una nuova regola di diritto intertemporale, prima non prevista dal legislatore, in deroga alla regola generale della irretroattività sancita dalla L. n. 689 del 1981, art. 1.Al riguardo la Corte costituzionale (sent. n. 39 del 10 febbraio 1993) ha chiarito che deve essere riconosciuta natura interpretativa “a quella disposizione che si riferisca e si saldi con quella da interpretare ed intervenga esclusivamente sul significato normativo senza intaccare ed integrare il dato testuale”. Il carattere interpretativo, dunque, è quello proprio di una legge che, fermo “il tenore testuale della norma interpretata” ne chiarisce il significato normativo ovvero privilegia una tra le tante interpretazioni possibili, di guisa che il contenuto precettivo è espresso dalla coesistenza delle due norme (quella precedente e l’altra successiva che ne esplicita il significato), le quali rimangono entrambe in vigore e sono quindi idonee ed essere modificate separatamente” (sent. n. 155 del 4 aprile 1990). Evenienze, queste, non ravvisabili, come dianzi rilevato, nel caso qui in esame. Ciò non di meno, della richiamata disposizione normativa devono essere analizzati i profili di eventuale irragionevolezza secondo i parametri individuati dalla Corte costituzionale.Al riguardo, infatti, si è affermato che non è decisivo verificare se la norma abbia carattere effettivamente interpretativo e sia perciò retroattiva, ovvero sia innovativa con efficacia retroattiva, poiché ciò che rileva, piuttosto, è accertare in entrambi i casi se la retroattività della legge, il cui divieto non è stato elevato a dignità costituzionale, salvo in ambito penale, “trovi adeguata giustificazione sul piano della ragionevolezza e non contrasti con altri valori ed interessi costituzionalmente protetti” (sent. n. 6 del 14 gennaio 1994; sent. n. 74 del 28 marzo 2008; sent. n. 234 del 26 giugno 2007; sent. n. 170 del 23 maggio 2008; sent. n. 24 del 30 gennaio 2009; sent. n. 209 del 11 giugno 2010; sent. n. 41 del 9 febbraio 2011; sent. n. 93 del 21 marzo 2011; sent. n. 271 del 21 ottobre 2011; sent. n. 78 del 5 aprile 2012). Muovendo da tale impostazione ermeneutica, la Corte costituzionale ha precisato che, al di fuori della materia penale, dove il divieto di retroattività è elevato a dignità costituzionale ex art. 25 Cost., “l’emanazione di leggi con efficacia retroattiva da parte del legislatore incontra una serie di limiti…..che attengono alla salvaguardia di fondamentali valori di civiltà giuridica posti a tutela dei destinatari dellanorma e dello stesso ordinamento, tra i quali vanno ricompresi il rispetto del principio generale di ragionevolezza e di eguaglianza, la tutela dell’affidamento legittimamente sorto nei soggetti quale principio connaturato allo Stato di diritto e il rispetto delle funzioni costituzionalmente riservate al potere giudiziario” (sent. n. 282 del 15 luglio 2005). Entro tale prospettiva il giudice delle leggi ha più volte affermato che la retroattività della legge deve trovare un’adeguata giustificazione sul piano della ragionevolezza e non deve contrastare con altri valori o interessi costituzionalmente protetti (sent. n. 69 del 2014; sent. n. 257 del 2011; sent. n. 74 del 2008; sent. n. 234 del 2007).E’ necessario, in particolare, che interventi interpretativi e retroattivi trovino un’adeguata giustificazione nell’esigenza di tutelare principi, diritti e beni di rilievo costituzionale, che costituiscono altrettanti “motivi imperativi di interesse generale” anche nella prospettiva delineata dalla giurisprudenza della Corte EDU (sent n. 46 del 2021; sent. n. 170 del 2013 e n. 78 del 2012). Nella elaborazione giurisprudenziale della Corte EDU, infatti, si è più volte ribadito che i principi del giusto processo sancito dall’art. 6 CEDU ostano, salvo motivi imperativi di interesse generale, all’interferenza del potere legislativo nell’amministrazione della giustizia allo scopo di influenzare l’esito giudiziario della controversia (Corte EDU, 30 gennaio 2020, Cicero e altri contro Italia; Corte EDU, 15 aprile 2014, Stefanetti e altri contro Italia e 28 ottobre 1999, Zielinski ed altri contro Francia).Occorre, altresì, che la retroattività della norma non contrasti con altri valori ed interessi costituzionalmente protetti (sent. n. 93 e n. 41 del 2011). A tal fine, dunque, la Corte ha individuato una serie di limiti generali all’efficacia retroattiva delle leggi con riferimento alla salvaguardia dei principi costituzionali e di altri valori di civiltà giuridica, tra i quali sono ricompresi: a) il rispetto del principio generale di ragionevolezza, che si riflette nel divieto di introdurre ingiustificate disparità di trattamento; b) la tutela dell’affidamento legittimamente sorto nei soggetti quale principio connaturato allo Stato di diritto; c) la coerenza e la certezza dell’ordinamento giuridico; d) il rispetto delle funzioni costituzionalmente riservate al potere giudiziario (sent. n. 78 del 2012 e n. 209 del 2010).Ora, a seguito della entrata in vigore della disposizione di cui all’art. 5-quinquies cit., deve ritenersi che la qualifica soggettiva di responsabile d’imposta vada riconosciuta al gestore della struttura ricettiva anche per i fatti relativi all’omesso, ritardato o parziale versamento dell’imposta di soggiorno verificatisi in epoca antecedente all’entrata in vigore del D.L. n. 34 del 2020, ossia alla data del 19 maggio 2020. Conseguenza immediata della novella legislativa è, sul piano penale, quella secondo cui il mancato, ritardato o parziale versamento dell’imposta di soggiorno, anche per i fatti antecedenti al 19 maggio 2020, non è più sussumibile nel delitto di peculato, postulando tale fattispecie incriminatrice come presupposto necessario della condotta del soggetto attivo la veste giuridica del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio (v., supra, il par. 2.1). Ne consegue che il fatto oggetto di contestazione non è più previsto dalla legge come reato, in ragione dell’intervento operato dal legislatore con l’aggiunta dell’art. 5-quinquies in fase di conversione del D.L. 21 ottobre 2021, n. 146, sì come incidente su una normativa extra-penale con effetti riflessi su quella penale in virtù di una modifica solo mediata dei presupposti applicativi della su indicata figura criminosa. Si tratta di una soluzione esegetica imposta dal ius superveniens, e in sé non irragionevole, nonostante si diriga verso una determinata categoria di attività imprenditoriali e un determinato settore economico-commerciale: lo scopo dell’intervento normativo è infatti quello di porre riparo, secondo una scelta discrezionale compiuta dal legislatore, ad una complessiva situazione di incoerenza obiettivamente determinatasi nell’ordinamento a seguito della precedente riforma legislativa del 2020, per la quale il gestore di una struttura ricettiva (eventualmente identificabile anche nella stessa persona fisica) che abbia omesso, ritardato o versato solo in parte le somme relative all’imposta di soggiorno dopo il 19 maggio 2020 ne risponde solo in sede amministrativo-tributaria ai sensi del D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 471, art. 13, mentre prima di quella data poteva rispondere di tali fatti a titolo di peculato. Gli effetti legati all’applicazione della riforma del 2020 comportavano il prodursi della singolare situazione per cui alla diversa qualità soggettiva della persona si ricollegavano due diversi statuti (anche per quanto riguardava il trattamento penale), sicchè al cambiamento della qualità conseguiva anche il cambiamento dello statuto, che tuttavia non poteva operare in via retroattiva per l’assenza di un’apposita regola di diritto intertemporale. L’intervento da ultimo operato costituisce dunque il frutto di una scelta discrezionale del legislatore, compiuta all’esito di un bilanciamento di principi ed interessi costituzionalmente protetti, la cui cristallizzazione in sede normativa, pur interferendo sull’area delle attribuzioni riservate al potere giudiziario, là dove incide sulla definizione di attività processuali in corso di trattazione ovvero già esaurite, trova una sua giustificazione sul piano della ragionevolezza e della complessiva coerenza dell’ordinamento giuridico nella prospettiva di evitare il rischio di ingiustificate disparità di trattamento nei confronti di persone che svolgono il medesimo tipo di attività. La disposizione di cui all’art. 5-quinquies cit., come già rilevato, ha determinato l’equiparazione, con efficacia retroattiva, delle condotte poste in essere dai gestori delle strutture ricettive in qualsiasi tempo commesse, ossia anche anteriormente all’entrata in vigore del D.L. n. 34 del 2020. L’estensione retroattiva dell’apparato sanzionatorio, in particolare, costituisce un indizio della volontà del legislatore di non lasciare priva di copertura la tutela attivabile dalle pubbliche autorità dinanzi alla realizzazione di condotte considerate comunque illecite dall’ordinamento giuridico. Proprio il meccanismo di retroazione della disciplina relativa all’apparato sanzionatorio consente di individuare un ulteriore argomento a sostegno della ragionevolezza della modifica operata dal legislatore, evitando che l’entrata in vigore delle nuove disposizioni determini un’ingiustificata diversità di trattamento in favore degli autori dei fatti pregressi. Entro tale prospettiva, il legislatore ha optato per l’introduzione di una deroga rispetto alla regola generale dei rapporti intertemporali in materia di illeciti amministrativi (enucleabile dalla L. 24 novembre 1981, n. 689, art. 1, per le sanzioni amministrative, e per le sanzioni tributarie dal D.Lgs. 19 dicembre 1997, n. 472, art. 3, comma 1), muovendo da un duplice ordine di considerazioni: a) per un verso, dal possibile rilievo che in relazione alle misure sanzionatorie diverse dalle pene in senso stretto la Corte costituzionale (sent. n. 276 del 2016) ha affermato che sussiste “l’esigenza della prefissione ex lege di rigorosi criteri di esercizio del potere relativo all’applicazione (o alla non applicazione) di esse” (sent. n. 447 del 1988), precisando come la necessità “che sia la legge a configurare, con sufficienza adeguata alla fattispecie, i fatti da punire” risulti pur sempre “ricavabile anche per le sanzioni amministrative dall’art. 25 Cost., comma 2” (sent. n. 78 del 1967); b) per altro verso, dal dato di fatto che le più favorevoli conseguenze concretamente riconducibili all’applicazione di una sanzione solo amministrativa in luogo di quella penale non comportano alcuna violazione del generale divieto di retroattività. Né, peraltro, sembrano sorgere, come osservato dalla dottrina, problemi di diritto intertemporale in ordine alla possibile applicazione retroattiva delle sanzioni amministrative previste dalla novella, non operando per esse, in quanto connotate da finalità essenzialmente ripristinatorie di carattere erariale, il principio costituzionale di irretroattività sancito per la materia penale dall’art. 25 Cost., comma 2, la cui rilevanza, di converso, è suscettibile di ampliare il suo raggio di incidenza, secondo una progressione interpretativa di recente portata a compimento dalla Corte costituzionale, alle sole sanzioni amministrative di natura sostanzialmente “punitiva” (sent. n. 68 del 16 aprile 2021). Sulla base delle su esposte considerazioni s’impone, conclusivamente, l’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata secondo la formula in dispositivo enunciata.

Corte di Cassazione – Sentenza 17 marzo 2022, n. 9213
sul ricorso proposto da:
K.T., nata il l 04/01/1980 in Uzbekistan
avverso la sentenza del 07/10/2021 del Giudice delle indagini preliminari del Tribunale di Como;
visti gli atti, la sentenza impugnata ed il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere Dr. Gaetano De Amicis;
letta la requisitoria del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Dr. Mignolo Olga, che ha concluso chiedendo la declaratoria di inammissibilità del ricorso;
lette le conclusioni dei difensori, Avv. Vittorio Manes e Avv. Paolo Camporini, che hanno chiesto l’accoglimento dei motivi del ricorso.
Svolgimento del processo
1. Con sentenza del 7 ottobre 2021 il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Como ha applicato su richiesta delle parti ex artt. 444 ss. c.p.p. la pena di anno uno e mesi quattro di reclusione a K.T. – rappresentante legale di una società titolare di una struttura ricettiva alberghiera – per il reato di cui all’art. 81 c.p., comma 2 e art. 314 c.p., previo riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche e di quella di cui all’art. 62 c.p., n. 6, con riferimento alla condotta di appropriazione delle somme ricevute dai turisti a titolo di tassa di soggiorno per gli anni 2016, 2017 e 2018 e al conseguente omesso versamento al Comune di Como dei relativi importi, così come stabilito dal regolamento comunale.
2. Avverso la su indicata decisione hanno proposto ricorso per cassazione i difensori, Avv. Vittorio Manes e Avv. Paolo Camporini, deducendo, con unico motivo, l’erronea applicazione dell’art. 444 c.p.p., comma 2, art. 448 c.p.p., comma 2-bis, con riferimento all’art. 314 c.p., art. 358 c.p., comma 2 e al D.L. 19 maggio 2020, n. 34, art. 180, comma 3, per essere stata applicata la pena richiesta dalle parti per il reato di peculato continuato ancorché ricorressero i presupposti per una diversa qualificazione giuridica dei fatti tale da imporre il proscioglimento ai sensi dell’art. 129 c.p.p., in ragione dell’abolitio criminis determinata dall’entrata in vigore della disposizione di cui all’art. 180, comma 3, cit. e della conseguente omessa applicazione retroattiva della legge più favorevole, che escludeva la rilevanza penale del fatto.
2.1 Si pone in rilievo, al riguardo, che i precedenti giurisprudenziali richiamati nella decisione impugnata escludono la retroattività dell’abolitio criminis muovendo da un presupposto non condivisibile, ossia che la modifica legislativa abbia riguardato non la norma incriminatrice, ma una norma esterna che avrebbe incidenza esclusivamente sulle condizioni di fatto da cui dipende la configurabilità del reato. Si assume, in particolare, che sulla base dei principii espressi dalle Sezioni Unite nei casi “Giordano”, “Niccoli”, “Rizzoli” e “Tuzet”, non v’è ragione di negare la retroattività della lex mitior nel caso di specie, atteso che l’utilizzo del criterio basato sul raffronto strutturale tra le fattispecie, adattato all’ipotesi in cui l’intervento normativo ricada sulle norme extra-penali, induce a ritenere, di contro, che vi sia stata una parziale abolitio criminis, discendendo, dalla richiamata modifica dell’art. 180 cit., l’elisione di un elemento strutturale della fattispecie la qualifica soggettiva richiesta dall’art. 314 c.p. per l’integrazione del reato di peculato – sia pure limitatamente all’ipotesi del versamento dell’imposta di soggiorno da parte dell’operatore turistico.
La modifica della richiamata disposizione di cui all’art. 180 cit. viene ad incidere, pertanto, su un dato strutturale della fattispecie de qua e, sia pure con specifico riferimento al versamento della tassa di soggiorno, viene ad eliminare proprio il presupposto soggettivo del reato, ossia la qualifica di incaricato di pubblico servizio. Il legislatore, afferma la ricorrente, ha inteso escludere dall’area della rilevanza penale non qualsiasi condotta di chi si appropri di denaro pubblico, ma solo quella di chi ometta di conferire agli enti pubblici gli introiti riscossi a titolo di tassa di soggiorno, attribuendole mera rilevanza amministrativa attraverso l’esclusione della qualifica di incaricato di pubblico servizio in capo all’operatore turistico.
2.2 Richiamati i principi espressi dalla Corte costituzionale e dalle Corti sovranazionali in ordine al principio di retroattività della norma più favorevole in materia penale ed alla sua estensione alle sanzioni amministrative aventi natura e funzione “punitiva”, la ricorrente pone in evidenza la disparità di trattamento cui darebbe luogo l’attuale, divergente, risposta normativa a fatti tra loro identici: quelli commessi dopo il 19 maggio 2020 (data di entrata in vigore della L. n. 34 del 2020) sono qualificati come illecito amministrativo, mentre quelli commessi prima vengono sussunti nella fattispecie di peculato, così escludendo che l’intervenuta novazione abbia determinato l’effetto dell’abolitio criminis, benché la modifica della qualifica pubblicistica abbia inciso in maniera rilevante sulla struttura della fattispecie attraverso un fenomeno di specialità per specificazione in virtù del quale è stata sottratta, al I. normativo di incaricato di pubblico servizio di cui all’art. 358 c.p., la nozione dell’albergatore quale soggetto chiamato al servizio di riscossione con l’obbligo di riversare all’erario il quantum previsto per l’imposta di soggiorno.
Ne discende l’applicabilità al caso in esame del principio di retroattività della norma più favorevole nella prospettiva segnata dall’art. 2 c.p., comma 2, con la conseguente riqualificazione del fatto come illecito amministrativo, laddove la decisione impugnata ha omesso di prendere atto della sopravvenuta irrilevanza penale della condotta.
2.3 In via subordinata si prospettano: a) la questione di legittimità costituzionale dell’art. 314 c.p. per contrasto con gli artt. 3 e 117 Cost. e art. 7 CEDU, nella parte in cui prevede una pena assolutamente sproporzionata per condotte il cui disvalore è oggi inquadrato in un illecito ritenuto dal legislatore meritevole solo di una sanzione amministrativa; b) la questione di legittimità costituzionale del combinato disposto dell’art. 314 c.p. e dell’art. 180 cit. per come interpretati sulla base dell’argomento incentrato sull’elemento normativo non integrativo della fattispecie, per violazione degli artt. 3 e 117 Cost. e art. 7 CEDU con riferimento alla preminente garanzia della lex mitior.
3. Con requisitoria trasmessa alla Cancelleria di questa Suprema Corte in data 25 gennaio 2022 il Procuratore generale ha illustrato le sue conclusioni, chiedendo la declaratoria di inammissibilità del ricorso.
4. Con memoria trasmessa alla Cancelleria di questa Suprema Corte in data 28 gennaio 2022 i difensori dell’imputata hanno insistito nell’accoglimento dei motivi del ricorso, evidenziando la rilevanza della modifica nelle more sopravvenuta per effetto della norma di interpretazione autentica di cui al D.L. n. 146 del 2021, art. 5-quinquies, che ha stabilito che il D.Lgs. n. 23 del 2011, art. 4, comma 1-ter, ai sensi del quale è stata attribuita al gestore la qualifica di responsabile diretto del pagamento dell’imposta di soggiorno, deve ritenersi applicabile anche ai casi verificatisi prima del 19 maggio 2020.
Motivi della decisione
1. Il ricorso è fondato e va accolto entro i limiti e per gli effetti qui di seguito esposti e precisati.
2. Infondata deve ritenersi la censura mossa in relazione all’erronea applicazione dell’art. 444 c.p.p., comma 2, art. 448 c.p.p., comma 2-bis, con riferimento agli art. 314, 358, 2 c.p. e al D.L. 19 maggio 2020, n. 34, art. 180, comma 3, poiché, in tema di applicazione della pena su richiesta delle parti, la possibilità di ricorrere per cassazione deducendo l’erronea qualificazione del fatto contenuto in sentenza è limitata ai casi in cui tale qualificazione risulti, con indiscussa immediatezza, palesemente eccentrica rispetto al contenuto del capo di imputazione, con la conseguente inammissibilità dell’impugnazione che denunci errori valutativi in diritto che non risultino evidenti dalla contestazione (Sez. 6, n. 3108 del 08/01/2018, Antoci, Rv. 272252; Sez. 5, n. 33145 del 08/10/2020, Cari, Rv. 279842; Sez. 2, n. 14377 del 31/03/2021, Paolino, Rv. 281116).
La modifica operata con la L. 23 giugno 2017, n. 103, art. 1, comma 51, che ha interpolato l’art. 448 c.p.p. inserendovi la nuova disposizione del comma 2-bis, ha inteso restringere i limiti del ricorso per cassazione avverso la sentenza di patteggiamento, in ragione della sua natura e in considerazione del suo essere frutto di un accordo tra le parti, raggiunto successivamente alla verifica del corretto inquadramento giuridico dei fatti commessi. La possibilità di ricorrere per cassazione deducendo l’erronea qualificazione del fatto contenuto in sentenza deve essere limitata, dunque, ai casi di errore manifesto, ossia ai casi in cui sussiste l’eventualità che l’accordo sulla pena si trasformi in un accordo sui reati, mentre deve essere esclusa tutte le volte in cui la diversa qualificazione presenti margini di opinabilità (Sez. 6, n. 15009 del 27/11/2012, dep. 2013, Bisignani, Rv. 254865). Anche a fronte di tale evenienza, e proprio in ragione della peculiare natura del procedimento di applicazione della pena su richiesta e della impossibilità di svolgere, con riferimento al suo epilogo decisorio, un vaglio delibativo necessariamente implicante, in ipotesi, un preventivo controllo di tipo dibattimentale, la verifica sull’osservanza della previsione contenuta nell’art. 444 c.p.p., comma 2, deve essere compiuta esclusivamente sulla base dei capi di imputazione, della succinta motivazione della sentenza e dei motivi dedotti nel ricorso.
2.1 Nel caso in esame, la decisione impugnata, pur nei limiti di sinteticità fisiologicamente connaturati ad una sentenza di applicazione della pena, ha puntualmente escluso, di contro, la sussistenza del vizio dal ricorrente prospettato, là dove ha esposto le ragioni giustificative della correttezza della qualificazione giuridica del fatto richiamando una consolidata linea interpretativa tracciata da questa Suprema Corte all’indomani della modifica normativa del D.Lgs. n. 23 del 2011, art. 4 comma 1-ter, sì come apportatavi dal D.L. 19 maggio 2020, n. 34, art. 180, comma 3, convertito dalla L. 20 luglio 2020, n. 77.
Al riguardo, invero, questa Corte (Sez. 6, n. 36317 del 28/10/2020, Brugnoli, Rv. 280286; Sez. 6, n. 30227 del 28/09/2020, Di Bono, Rv. 279724) ha affermato il principio secondo cui, in tema di omesso versamento da parte del gestore di struttura ricettiva dell’imposta di soggiorno, permane la rilevanza penale del fatto a titolo di peculato per le condotte poste in essere antecedentemente alle modifiche introdotte dal D.L. 19 maggio 2020, n. 34, art. 180, convertito nella L. n. 77 del 2020, atteso che la novella non ha comportato una parziale abolitio criminis, essendosi limitata a far venir meno “in concreto” la qualifica soggettiva pubblicistica del gestore, senza che ciò abbia inciso sulla struttura del delitto di cui all’art. 314 c.p..
In particolare, la Corte ha precisato che il gestore, a seguito della novella, non riveste più la qualifica di incaricato o, quanto meno, di custode del denaro pubblico incassato per conto del Comune, bensì quella di soggetto obbligato solidalmente al versamento dell’imposta. Pertanto, egli è divenuto soggetto passivo dell’obbligazione tributaria, con diritto di rivalsa sul fruitore del servizio, sicchè non può più considerarsi quale “agente contabile” con obbligo di rendiconto delle somme riscosse per conto dell’ente.
All’interno della richiamata disposizione di cui al D.Lgs. n. 23 del 2011, art. 4 è stato inserito, dopo il comma 1-bis, un nuovo comma 1-ter, che così recita: “Il gestore della struttura ricettiva è responsabile del pagamento dell’imposta di soggiorno di cui al comma 1 e del contributo di soggiorno di cui al D.L. 31 maggio 2010, n. 78, art. 14, comma 16, lett. e), convertito, con modificazioni, dalla L. 30 luglio 2010, n. 122, con diritto di rivalsa sui soggetti passivi, della presentazione della dichiarazione, nonché degli ulteriori adempimenti previsti dalla legge e dal regolamento comunale. La dichiarazione deve essere presentata cumulativamente ed esclusivamente in via telematica entro il 30 giugno dell’anno successivo a quello in cui si è verificato il presupposto impositivo, secondo le modalità approvate con decreto del Ministro dell’economia e delle finanze, sentita la Conferenza Stato-città ed autonomie locali, da emanare entro centottanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente disposizione. Per l’omessa o infedele presentazione della dichiarazione da parte del responsabile si applica la sanzione amministrativa pecuniaria del pagamento di una somma dal 100 al 200 per cento dell’importo dovuto. Per l’omesso, ritardato o parziale versamento dell’imposta di soggiorno e del contributo di soggiorno si applica la sanzione amministrativa di cui al D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 471, art. 13”.
Per effetto di tale modifica normativa, come affermato da questa Suprema Corte (Sez. 6, n. 36317 del 28/10/2020, Brugnoli, cit.; Sez. 6, n. 30227 del 28/09/2020, Di Bono, cit.), è mutato il rapporto fra il gestore della struttura ricettiva e l’ente impositore, che da rapporto di “servizio” per la riscossione dell’imposta è divenuto un rapporto di natura tributaria in cui il gestore ha assunto il ruolo di “responsabile d’imposta”, pur rimanendo l’ospite della struttura ricettiva il principale soggetto passivamente legittimato, come si evince dal fatto che il legislatore non ha modificato il’art. 4 cit., comma 1 ed ha previsto in favore del gestore di tale struttura il diritto di rivalsa per l’intero del tributo pagato nei confronti dei “soggetti passivi”.
La previsione della solidarietà tributaria ha infatti la funzione di rafforzamento della garanzia di raggiungimento dell’obiettivo di preservare l’integrità dei flussi tributari scaturenti dall’esercizio della struttura ricettiva e dall’introito del tributo, onerandone quei soggetti che, in virtù della relazione con il soggetto obbligato principale, sono posti nella condizione di garantirne l’effettivo integrale pagamento.
Il legislatore ha inoltre previsto, in continuità con altre forme di solidarietà tributaria, la sanzione amministrativa di tipo pecuniario nei casi di omessa o infedele dichiarazione da parte del responsabile, nonché di “omesso, ritardato o parziale versamento dell’imposta di soggiorno”, rinviando in quest’ultima evenienza alla sanzione prevista dal D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 471, art. 13.
Ciò posto, questa Corte ha escluso che, per effetto della richiamata novella legislativa, sia stata trasformata con effetto retroattivo la condotta di “omesso, ritardato o parziale versamento dell’imposta di soggiorno” da parte del gestore, prima punita a titolo di peculato, in un illecito amministrativo-tributario.
In conseguenza della suddetta modifica normativa, nel raggio d’azione dell’illecito amministrativo-tributario è stata attratta una diversa condotta rispetto a quella rilevante penalmente in passato: nell’ambito della fattispecie prevista dall’art. 4 cit. non vi è più un agente, estraneo al rapporto tributario, che si appropria delle somme di denaro dovute in conseguenza dell’imposta della cui riscossione e versamento egli sia incaricato, ma si è in presenza di un soggetto privato che, solidalmente responsabile ed obbligato con altri, omette di versare quanto dovuto a titolo di imposta.
2.2 Richiamato il criterio basato sul cd. “confronto strutturale” tra fattispecie legali astratte, alla luce dei principi progressivamente stabiliti nei più recenti arresti delle Sezioni Unite per chiarire, in tema di effetti della successione di leggi extra-penali, quali siano le norme extra-penali integratrici della fattispecie penale la cui modificazione può determinare una situazione di abolitio criminis (Sez. U, n. 25887 del 26/03/2003, Giordano, Rv 224607; Sez. U, n. 2451 del 27/09/2007, dep. 2008, Magera, Rv. 238197; Sez. U, n. 19601 del 28/02/2008, Niccoli, Rv. 239398; Sez. U, n. 24468 del 26/02/2009, Rizzoli, Rv. 243585), la Corte, con le menzionate decisioni, ha esaminato l’incidenza del novum apportato dalla disposizione di cui all’art. 180 cit., affermando che la stessa non ha modificato la fattispecie astratta del peculato, ma ha fatto venir meno “lin concreto” la qualifica soggettiva pubblicistica del gestore, senza alterare la definizione stessa di incaricato di pubblico servizio. Sulla base del raffronto operato tra le due fattispecie questa Corte ha ritenuto che il legislatore non ha inteso incidere su un “elemento strutturale” del delitto di peculato, ma è intervenuto modificando lo status del gestore rispetto all’imposta di soggiorno: da un ruolo ausiliario di custode del denaro pubblico incassato per conto del comune e di responsabile del versamento, strumentale all’esecuzione dell’obbligazione tributaria intercorrente tra l’ente impositore e il cliente della struttura, a quello di soggetto solidalmente obbligato al versamento dell’imposta. La eterogeneità delle fattispecie, in tal modo, può cogliersi nel rilievo che l’una è “destinata ad operare in rapporto al vecchio regime dell’imposta di soggiorno – e alla qualifica pubblicistica dell’albergatore (e del denaro incassato), l’altra in relazione al nuovo regime dell’imposta stessa – e alla qualifica privatistica dell’albergatore (e del denaro incassato)”.
Pienamente coerenti rispetto a tale diverso assetto normativo sono stati dunque ritenuti il disvalore del fatto e la conseguente diversa risposta punitiva, “restando pur sempre nell’area penale il comportamento di colui che, in ragione del servizio pubblico svolto, si sia appropriato di denaro che, al momento dell’incasso, era della pubblica amministrazione” (Sez. 6, n. 36317 del 28/10/2020, Brugnoli, cit.).
Escluso che la disposizione di cui all’art. 180 cit. sia una norma interpretativa, che abbia inteso cioè vincolare il giudice nella qualificazione giuridica del rapporto tributario sottostante alla tassa di soggiorno, questa Corte ha affermato richiamandosi direttamente all’insegnamento dettato da Sez. U, n. 25457 del 29/03/2012; Campagne, Rv. 252694) – che il principio di cui all’art. 2 c.p., comma 4, in tema di retroattività della legge più favorevole al reo non è stato recepito nella L. 24 novembre 1981, n. 689, art. 1 e non è estensibile alla disciplina della “successione” dell’illecito amministrativo rispetto all’illecito penale, essendo, invece, necessarie apposite norme, affidate alla discrezionalità del legislatore ordinario (pur sempre nel rispetto del principio di ragionevolezza ex art. 3 Cost.), per poter superare l’autonomo principio d’irretroattività, che per l’illecito tributario trova la sua costituzionalizzazione nell’art. 23 Cost..
La modifica intervenuta sulla disciplina extrapenale, dunque, non ha inciso sulla fattispecie del peculato, poiché le norme che regolamentano l’imposta di soggiorno ed il rapporto instaurato fra il gestore della struttura ricettiva e l’ente comunale non ne integrano il precetto. Norme integratrici della legge penale – come chiarito nella sentenza Magera sono quelle richiamate da fattispecie penali in bianco (e tale non è il peculato) e le norme definitorie: a tal riguardo, però, il cd. “decreto-rilancio” non ha modificato la definizione di incaricato di un pubblico servizio, limitandosi semplicemente ad incidere su norme “presupposte” dalla definizione legale contenuta nell’art. 358 c.p.. Si tratta di una situazione analoga a quella oggetto della sentenza Magera, concernente la perdurante rilevanza penale di reati propri degli extracomunitari, commessi da cittadini rumeni e giudicati successivamente al venir meno di quella qualifica in capo a quei soggetti (ossia di “stranieri” ai sensi del testo unico sull’immigrazione): in quel caso, infatti, le Sezioni Unite hanno escluso che ricorresse una situazione di abolitio criminis dopo aver escluso che il risultato dell’innovazione normativa avesse determinato una modifica della norma definitoria integratrice della legge penale, analogamente a quanto avvenuto nel caso di specie.
Entro tale prospettiva si è parimenti rilevato, sotto altro ma connesso profilo, come la disciplina extrapenale non avesse natura integratrice della legge penale (art. 314 c.p.), ma fungesse, secondo il meccanismo proprio delle norme richiamate attraverso gli elementi normativi della fattispecie (presenti, nel caso di specie, nella definizione legale di cui all’art. 358 c.p.), da mero presupposto giuridico di applicazione della qualifica soggettiva di incaricato di pubblico servizio: presupposto, questo, la cui ricorrenza deve essere necessariamente valutata al momento della commissione del fatto, sicchè se, per un verso, l’ambito di applicazione della fattispecie del peculato ricomprende in sè i fatti commessi dall’albergatore allorquando, sulla base della disciplina extrapenale vigente al tempo del fatto, egli poteva definirsi un incaricato di pubblico servizio, per altro verso la sfera applicativa del nuovo illecito amministrativo copre e sanziona i fatti commessi, nel corso della sua vigenza, dal gestore di una struttura alberghiera, in quanto non più incaricato di pubblico servizio, bensì titolare di un obbligo tributario.
Nessuna incidenza, in altri termini, è stata ravvisata sulla descrizione degli elementi strutturali della fattispecie legale astratta e, per suo tramite, sul giudizio di disvalore e sulle scelte politico-criminali espresse dal legislatore nella configurazione del reato: immutata la norma incriminatrice che contiene l’elemento normativo, è mutata, di contro, la norma extrapenale che vi è richiamata e che a sua volta opera quale criterio o presupposto di attribuzione della qualifica che quell’elemento esprime. Le norme da esso richiamate, pertanto, non apportano alcun contributo alla descrizione del modello di condotta penalmente sanzionato, ossia al modello astratto della fattispecie legale individuata quale oggetto del confronto strutturale, ma funzionano solo come criteri o presupposti di attribuzione della qualifica cristallizzata nell’elemento normativo, il cui significato intrinseco non è mutato e non muta con il variare delle classi di oggetti alle quali può essere di volta in volta attribuita la correlativa qualificazione da esso espressa (Sez. 6, n. 18105 del 26/01/2021, Martinez). Né, in mancanza del presupposto costituito dall’identità del fatto, potrebbe venire in considerazione, per le condotte pregresse, il principio di specialità previsto dalla L. 24 novembre 1981, n. 689, art. 9 – peraltro destinato ad operare nei rapporti sincronici, e non già diacronici, tra gli illeciti – secondo il quale “quando uno stesso fatto è punito da una disposizione penale e da una disposizione che prevede una sanzione amministrativa, ovvero da una pluralità di disposizioni che prevedono sanzioni amministrative, si applica la disposizione speciale” (v. Sez. 6, n. 36317 del 28/10/2020, Brugnoli, cit.).
A tal riguardo, peraltro, deve rilevarsi come questa Corte (Sez. 2, n. 29632 del 28/05/2019, Kunsagi Tamas, Rv. 276977) già in precedenza avesse escluso la configurabilità di un rapporto di specialità tra la fattispecie penalmente rilevante di appropriazione di somme ricevute a titolo di imposta di soggiorno da parte di operatori commerciali che esercitano attività alberghiere e ricettive – nella specie contestata ai sensi dell’art. 646 c.p. e riqualificata dalla Corte nell’ipotesi prevista dall’art. 314 c.p. – e quella di mancato versamento all’amministrazione comunale dei medesimi importi, sanzionata in via amministrativa da un regolamento comunale, poiché l’illecito amministrativo concerne il solo dato dell’omesso versamento di tali somme, onde non trova applicazione il principio di cui alla L. 24 novembre 1981, n. 681, art. 9, in mancanza del presupposto costituito dall’identità del fatto. Nella motivazione, peraltro, la Corte ha precisato che il sistema delle sanzioni amministrative non consente a fonti regolamentari di rendere penalmente irrilevanti fatti sanzionati da norme di rango superiore.
Sulla base del quadro argomentativo testé sinteticamente delineato, questa Corte ha affermato la rilevanza penale a titolo di peculato delle condotte commesse in epoca anteriore alla modifica dal legislatore apportata per effetto della disposizione cui all’art. 180, comma 4, cit. A tale orientamento interpretativo hanno dato costantemente seguito ulteriori decisioni assunte da questa Corte (ex plurimis v. Sez. 6, n. 18105 del 26/01/2021, Martinez; Sez. 6, n. 18320 del 13/10/2020, dep. 2021, Bandini; Sez. 6, n. 14083 del 11/03/2021, Castiglione; Sez. 6, n. 28664 del 12/04/2021, Princigallo; Sez. 6, n. 22117 del 15/04/2021, Conte; Sez. 1, n. 21890 del 16 aprile 2021, Paladino; Sez. 1, n. 41793 del 09/09/2021, Fasano; Sez. 6, n. 33568 del 15/06/2021, Niazy; Sez. 6, n. 1175 del 06/12/2021, dep. 2022, Marcucci), ribadendone in toto l’impostazione ermeneutica.
2.3 Non ravvisabile, in definitiva, deve ritenersi l’evocato presupposto del vizio di erronea qualificazione giuridica del fatto, dalla ricorrente dedotto a sostegno di ragioni di doglianza che, di contro, dissimulano una contestazione dei profili di merito della regiudicanda e che, come tali, avrebbero dovuto essere introdotte e vagliate nella diversa sede dibattimentale. Né ricorrono, per le su esposte ragioni, le condizioni per l’accoglimento delle questioni dedotte in via subordinata.
3. A diverse conclusioni deve pervenirsi riguardo ai motivi esposti nella richiamata memoria difensiva con riferimento alle conseguenze, valutabili ai sensi dell’art. 129 c.p.p., comma 1, della modifica normativa nelle more sopravvenuta per effetto della entrata in vigore della disposizione di interpretazione autentica di cui al D.L. n. 146 del 2021, art. 5 quinquies. Con la L. 17 dicembre 2021, n. 215, art. 5-quinquies, di conversione del D.L. 21 ottobre 2021, n. 146, recante misure urgenti in materia economica e fiscale, a tutela del lavoro e per esigenze indifferibili (cd. decreto fisco e lavoro), il legislatore ha inteso delineare, come enunciato nella rubrica, una norma di “Interpretazione autentica del D.Lgs. 14 marzo 2011, n. 23, art. 4, comma 1-ter, stabilendo che “Il D.Lgs. 14 marzo 2011, n. 23, art. 4, comma 1-ter, ai sensi del quale si attribuisce la qualifica di responsabile del pagamento dell’imposta di soggiorno al gestore della struttura ricettiva con diritto di rivalsa sui soggetti passivi e si definisce la relativa disciplina sanzionatoria, si intende applicabile anche ai casi verificatisi prima del 19 maggio 2020”.
Si è già rilevato come, rispetto alla nuova disciplina dell’imposta di soggiorno, il gestore della struttura ricettiva abbia assunto, per effetto dei richiamati mutamenti del quadro normativo, il ruolo di debitore in relazione alle somme dovute dai suoi ospiti in favore dell’ente pubblico, mantenendo però il diritto di rivalsa sui soggetti passivi. E’ noto che la disposizione di cui al D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 64, comma 3, contiene la definizione del responsabile d’imposta, individuato in colui che “…in forza di disposizioni di legge, è obbligato al pagamento dell’imposta insieme con altri, per fatti o situazioni esclusivamente riferibili a questi”, attribuendogli il diritto di rivalsa. La figura del responsabile d’imposta rafforza l’adempimento dell’obbligazione tributaria del soggetto passivo, ma va esclusa dal novero dei soggetti passivi in quanto estranea alla situazione di fatto che integra il presupposto del tributo. Egli, dunque, risponde del pagamento del tributo insieme con il contribuente, ma, a differenza del sostituto di imposta, che è obbligato al pagamento in luogo del contribuente, è solidalmente obbligato con quest’ultimo e vanta nei suoi confronti il diritto di rivalsa per l’intera somma pagata. Questa Corte (Sez. 1, n. 12066 del 27/10/1999, Rv. 530805) ne ha coerentemente inquadrato la nozione, affermando che il responsabile d’imposta assume la veste di un coobbligato solidale (dipendente), che la legge affianca al soggetto passivo d’imposta non per la sua partecipazione al presupposto d’imposta, che è esclusivamente riferibile ad altri, ma perché ha posto in essere fatti ulteriori e diversi dal presupposto, ai quali la legge stessa – pur non costituendo detti fatti manifestazione di capacità contributiva – ricollega automaticamente, al fine della protezione dell’interesse generale alla riscossione dei tributi (c.d. interesse fiscale, anch’esso tutelato dall’art. 53 Cost.), l’obbligo del pagamento del tributo, cioè della medesima somma dovuta dal soggetto passivo d’imposta.
3.1 Ora, la modifica da ultimo operata dal legislatore investe sia la componente precettiva della disciplina relativa all’imposta di soggiorno, sia quella propriamente sanzionatoria, rendendo applicabili anche ai fatti pregressi, ossia anche ai casi verificatisi prima del 19 maggio 2020, gli effetti della richiamata disciplina a suo tempo introdotta per l’illecito amministrativo-tributario, in deroga al principio di irretroattività di cui alla L. n. 689 del 1981, art. 1. La disposizione di cui all’art. 5-quinquies cit., che il legislatore ha formalmente qualificato “di interpretazione autentica”, contiene dunque una norma innovativa di quella a suo tempo introdotta con il D.Lgs. 14 marzo 2011, n. 23, art. 4, comma 1-ter, per come modificato a seguito dell’interpolazione operata con il D.L. 19 maggio 2020, n. 34, art. 180, comma 3, inserendo nel testo del D.L. n. 23 del 2011 la connotazione di retroattività della norma attributiva della qualifica soggettiva di responsabile d’imposta in capo al gestore della struttura ricettiva.
A ben vedere, nonostante l’apparente stato formale, la formulazione lessicale della norma sopravvenuta induce a non ritenerla, propriamente, di interpretazione autentica di un elemento normativo o di un profilo descrittivo della precedente disposizione, ma ne disvela, piuttosto, la natura di norma dal contenuto innovativo con effetto retroattivo sia riguardo all’estensione temporale dell’attribuzione di una qualifica soggettiva (già individuata dal legislatore) che alla dimensione applicativa della relativa disciplina sanzionatoria in sede tributaria (qui contemplata in deroga al principio di irretroattività). Si è dianzi osservato come il nuovo illecito amministrativo tributario previsto dall’ultima parte dell’art. 180, comma 3, cit. per l’omesso, parziale o ritardato versamento dell’imposta di soggiorno non potesse essere applicato retroattivamente, in ragione del limite posto dalla L. n. 689 del 1981, art. 1 e della mancanza di una norma transitoria ad hoc. Il legislatore ha significativamente innovato tali profili della disciplina normativa dell’imposta di soggiorno stabilendone l’efficacia retroattiva, senza introdurvi contenuti ricognitivi del significato di termini o concetti il cui alveo semantico fosse stato erroneamente delimitato o frainteso da una errata “lettura” della pregressa disposizione secondo gli ordinari, e nel caso in esame ampiamente consolidati, meccanismi evolutivi del diritto “vivente”.
Sotto altro, ma connesso profilo, vi ha inserito una nuova regola di diritto intertemporale, prima non prevista dal legislatore, in deroga alla regola generale della irretroattività sancita dalla L. n. 689 del 1981, art. 1. Al riguardo la Corte costituzionale (sent. n. 39 del 10 febbraio 1993) ha chiarito che deve essere riconosciuta natura interpretativa “a quella disposizione che si riferisca e si saldi con quella da interpretare ed intervenga esclusivamente sul significato normativo senza intaccare ed integrare il dato testuale”. Il carattere interpretativo, dunque, è quello proprio di una legge che, fermo “il tenore testuale della norma interpretata” ne chiarisce il significato normativo ovvero privilegia una tra le tante interpretazioni possibili, di guisa che il contenuto precettivo è espresso dalla coesistenza delle due norme (quella precedente e l’altra successiva che ne esplicita il significato), le quali rimangono entrambe in vigore e sono quindi idonee ed essere modificate separatamente” (sent. n. 155 del 4 aprile 1990).
Evenienze, queste, non ravvisabili, come dianzi rilevato, nel caso qui in esame.
3.2 Ciò non di meno, della richiamata disposizione normativa devono essere analizzati i profili di eventuale irragionevolezza secondo i parametri individuati dalla Corte costituzionale. Al riguardo, infatti, si è affermato che non è decisivo verificare se la norma abbia carattere effettivamente interpretativo e sia perciò retroattiva, ovvero sia innovativa con efficacia retroattiva, poichè ciò che rileva, piuttosto, è accertare in entrambi i casi se la retroattività della legge, il cui divieto non è stato elevato a dignità costituzionale, salvo in ambito penale, “trovi adeguata giustificazione sul piano della ragionevolezza e non contrasti con altri valori ed interessi costituzionalmente protetti” (sent. n. 6 del 14 gennaio 1994; sent. n. 74 del 28 marzo 2008; sent. n. 234 del 26 giugno 2007; sent. n. 170 del 23 maggio 2008; sent. n. 24 del 30 gennaio 2009; sent. n. 209 del 11 giugno 2010; sent. n. 41 del 9 febbraio 2011; sent. n. 93 del 21 marzo 2011; sent. n. 271 del 21 ottobre 2011; sent. n. 78 del 5 aprile 2012). Muovendo da tale impostazione ermeneutica, la Corte costituzionale ha precisato che, al di fuori della materia penale, dove il divieto di retroattività è elevato a dignità costituzionale ex art. 25 Cost., “l’emanazione di leggi con efficacia retroattiva da parte del legislatore incontra una serie di limiti…..che attengono alla salvaguardia di fondamentali valori di civiltà giuridica posti a tutela dei destinatari della norma e dello stesso ordinamento, tra i quali vanno ricompresi il rispetto del principio generale di ragionevolezza e di eguaglianza, la tutela dell’affidamento legittimamente sorto nei soggetti quale principio connaturato allo Stato di diritto e il rispetto delle funzioni costituzionalmente riservate al potere giudiziario” (sent. n. 282 del 15 luglio 2005). Entro tale prospettiva il giudice delle leggi ha più volte affermato che la retroattività della legge deve trovare un’adeguata giustificazione sul piano della ragionevolezza e non deve contrastare con altri valori o interessi costituzionalmente protetti (sent. n. 69 del 2014; sent. n. 257 del 2011; sent. n. 74 del 2008; sent. n. 234 del 2007). E’ necessario, in particolare, che interventi interpretativi e retroattivi trovino un’adeguata giustificazione nell’esigenza di tutelare principi, diritti e beni di rilievo costituzionale, che costituiscono altrettanti “motivi imperativi di interesse generale” anche nella prospettiva delineata dalla giurisprudenza della Corte EDU (sent n. 46 del 2021; sent. n. 170 del 2013 e n. 78 del 2012).
Nella elaborazione giurisprudenziale della Corte EDU, infatti, si è più volte ribadito che i principi del giusto processo sancito dall’art. 6 CEDU ostano, salvo motivi imperativi di interesse generale, all’interferenza del potere legislativo nell’amministrazione della giustizia allo scopo di influenzare l’esito giudiziario della controversia (Corte EDU, 30 gennaio 2020, Cicero e altri contro Italia; Corte EDU, 15 aprile 2014, Stefanetti e altri contro Italia e 28 ottobre 1999, Zielinski ed altri contro Francia). Occorre, altresì, che la retroattività della norma non contrasti con altri valori ed interessi costituzionalmente protetti (sent. n. 93 e n. 41 del 2011). A tal fine, dunque, la Corte ha individuato una serie di limiti generali all’efficacia retroattiva delle leggi con riferimento alla salvaguardia dei principi costituzionali e di altri valori di civiltà giuridica, tra i quali sono ricompresi: a) il rispetto del principio generale di ragionevolezza, che si riflette nel divieto di introdurre ingiustificate disparità di trattamento; b) la tutela dell’affidamento legittimamente sorto nei soggetti quale principio connaturato allo Stato di diritto; c) la coerenza e la certezza dell’ordinamento giuridico; d) il rispetto delle funzioni costituzionalmente riservate al potere giudiziario (sent. n 78 del 2012 e n. 209 del 2010).
4. Ora, a seguito della entrata in vigore della disposizione di cui all’art. 5-quinquies cit., deve ritenersi che la qualifica soggettiva di responsabile d’imposta vada riconosciuta al gestore della struttura ricettiva anche per i fatti relativi all’omesso, ritardato o parziale versamento dell’imposta di soggiorno verificatisi in epoca antecedente all’entrata in vigore del D.L. n. 34 del 2020, ossia alla data del 19 maggio 2020. Conseguenza immediata della novella legislativa è, sul piano penale, quella secondo cui il mancato, ritardato o parziale versamento dell’imposta di soggiorno, anche per i fatti antecedenti al 19 maggio 2020, non è più sussumibile nel delitto di peculato, postulando tale fattispecie incriminatrice come presupposto necessario della condotta del soggetto attivo la veste giuridica del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio (v., supra, il par. 2.1.).
Ne consegue che il fatto oggetto di contestazione non è più previsto dalla legge come reato, in ragione dell’intervento operato dal legislatore con l’aggiunta dell’art. 5-quinquies in fase di conversione del D.L. 21 ottobre 2021, n. 146, sì come incidente su una normativa extra-penale con effetti riflessi su quella penale in virtù di una modifica solo mediata dei presupposti applicativi della su indicata figura criminosa.
Si tratta di una soluzione esegetica imposta dal ius superveniens, e in sé non irragionevole, nonostante si diriga verso una determinata categoria di attività imprenditoriali e un determinato settore economico-commerciale: lo scopo dell’intervento normativo è infatti quello di porre riparo, secondo una scelta discrezionale compiuta dal legislatore, ad una complessiva situazione di incoerenza obiettivamente determinatasi nell’ordinamento a seguito della precedente riforma legislativa del 2020, per la quale il gestore di una struttura ricettiva (eventualmente identificabile anche nella stessa persona fisica) che abbia omesso, ritardato o versato solo in parte le somme relative all’imposta di soggiorno dopo il 19 maggio 2020 ne risponde solo in sede amministrativo-tributaria ai sensi del D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 471, art. 13, mentre prima di quella data poteva rispondere di tali fatti a titolo di peculato. Gli effetti legati all’applicazione della riforma del 2020 comportavano il prodursi della singolare situazione per cui alla diversa qualità soggettiva della persona si ricollegavano due diversi statuti (anche per quanto riguardava il trattamento penale), sicchè al cambiamento della qualità conseguiva anche il cambiamento dello statuto, che tuttavia non poteva operare in via retroattiva per l’assenza di un’apposita regola di diritto intertemporale.
L’intervento da ultimo operato costituisce dunque il frutto di una scelta discrezionale del legislatore, compiuta all’esito di un bilanciamento di principi ed interessi costituzionalmente protetti, la cui cristallizzazione in sede normativa, pur interferendo sull’area delle attribuzioni riservate al potere giudiziario, là dove incide sulla definizione di attività processuali in corso di trattazione ovvero già esaurite, trova una sua giustificazione sul piano della ragionevolezza e della complessiva coerenza dell’ordinamento giuridico nella prospettiva di evitare il rischio di ingiustificate disparità di trattamento nei confronti di persone che svolgono il medesimo tipo di attività. La disposizione di cui all’art. 5-quinquies cit., come già rilevato, ha determinato l’equiparazione, con efficacia retroattiva, delle condotte poste in essere dai gestori delle strutture ricettive in qualsiasi tempo commesse, ossia anche anteriormente all’entrata in vigore del D.L. n. 34 del 2020. L’estensione retroattiva dell’apparato sanzionatorio, in particolare, costituisce un indizio della volontà del legislatore di non lasciare priva di copertura la tutela attivabile dalle pubbliche autorità dinanzi alla realizzazione di condotte considerate comunque illecite dall’ordinamento giuridico.
Proprio il meccanismo di retroazione della disciplina relativa all’apparato sanzionatorio consente di individuare un ulteriore argomento a sostegno della ragionevolezza della modifica operata dal legislatore, evitando che l’entrata in vigore delle nuove disposizioni determini un’ingiustificata diversità di trattamento in favore degli autori dei fatti pregressi. Entro tale prospettiva, il legislatore ha optato per l’introduzione di una deroga rispetto alla regola generale dei rapporti intertemporali in materia di illeciti amministrativi (enucleabile dalla L. 24 novembre 1981, n. 689, art. 1, per le sanzioni amministrative, e per le sanzioni tributarie dal D.Lgs. 19 dicembre 1997, n. 472, art. 3, comma 1), muovendo da un duplice ordine di considerazioni: a) per un verso, dal possibile rilievo che in relazione alle misure sanzionatorie diverse dalle pene in senso stretto la Corte costituzionale (sent. n. 276 del 2016) ha affermato che sussiste “l’esigenza della prefissione ex lege di rigorosi criteri di esercizio del potere relativo all’applicazione (o alla non applicazione) di esse” (sent. n. 447 del 1988), precisando come la necessità “che sia la legge a configurare, con sufficienza adeguata alla fattispecie, i fatti da punire” risulti pur sempre “ricavabile anche per le sanzioni amministrative dall’art. 25 Cost., comma 2” (sent. n. 78 del 1967); b) per altro verso, dal dato di fatto che le più favorevoli conseguenze concretamente riconducibili all’applicazione di una sanzione solo amministrativa in luogo di quella penale non comportano alcuna violazione del generale divieto di retroattività.
Nè, peraltro, sembrano sorgere, come osservato dalla dottrina, problemi di diritto intertemporale in ordine alla possibile applicazione retroattiva delle sanzioni amministrative previste dalla novella, non operando per esse, in quanto connotate da finalità essenzialmente ripristinatorie di carattere erariale, il principio costituzionale di irretroattività sancito per la materia penale dall’art. 25 Cost., comma 2, la cui rilevanza, di converso, è suscettibile di ampliare il suo raggio di incidenza, secondo una progressione interpretativa di recente portata a compimento dalla Corte costituzionale, alle sole sanzioni amministrative di natura sostanzialmente “punitiva” (sent. n. 68 del 16 aprile 2021).
5. Sulla base delle su esposte considerazioni s’impone, conclusivamente, l’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata secondo la formula in dispositivo enunciata. Deve disporsi la trasmissione della presente sentenza al Comune di Como per quanto di eventuale competenza riguardo all’applicazione delle sanzioni amministrative di cui al D.Lgs. 14 marzo 2011, n. 23, art. 4, comma 1-ter, in relazione al D.L. 21 ottobre 2021, n. 146, art. 5-quinquies, convertito dalla L. 17 dicembre 2021, n. 215.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata perché il fatto non è più previsto dalla legge come reato. Dispone la trasmissione della presente sentenza per quanto di eventuale competenza al Comune di Como.
Conclusione
Così deciso in Roma, il 15 febbraio 2022.
Depositato in Cancelleria il 17 marzo 2022