CASSAZIONE

Lo studio di settore è il più sofisticato dei parametri

La Corte di Cassazione, con una sentenza del 2014, ha definitivamente confermato la decisione con la quale i giudici di merito avevano bocciato l’Amministrazione finanziaria

per aver notificato a un contribuente un atto impositivo ai fini delle Imposte dirette e dell’IVA sulla base di un accertamento effettuato con l’utilizzo dei parametri previsti dal DPCM del 1996 e non, invece, determinando redditi e ricavi secondo gli studi di settore, come richiesto dallo stesso contribuente in sede precontenziosa.
Nel caso in questione, inoltre, il ricorso a tali più adeguati strumenti di ricostruzione era stata accettata dall’ufficio finanziario nel corso della procedura di accertamento per adesione (poi fallita) e con riferimento al cosiddetto ricavo o compenso di riferimento puntuale. Questa circostanza costituiva una riprova del fatto che l’accertamento standardizzato mediante l’applicazione degli studi di settore costituisce un valido sistema di presunzioni semplici.

L’iter processuale

corte cassazioneCon pronuncia del 2006 una Commissione Tributaria Regionale rigettava l’appello proposto dall’Agenzia delle Entrate nei confronti di un avvocato, confermando la sentenza di prime cure che, in parziale accoglimento del ricorso del 2003 contro l’avviso di accertamento notificato, aveva stabilito che il Fisco, in relazione all’anno 1998, avrebbe dovuto determinare ricavi e redditi del contribuente, ai fini delle imposte dirette e dell’IVA, secondo gli studi settore e “nei limiti dei compensi puntuali”. Il giudice d’appello rilevava che i parametri utilizzati nell’atto impositivo e previsti dal DPCM del 1996 rappresentavano semplici presunzioni (DPR n. 600/1973, art. 39, comma 1, lett. d), contro le quali era ammessa prova contraria, osservando inoltre che in sede di contraddittorio precontenzioso di accertamento per adesione era stato proprio l’ufficio finanziario a proporre al contribuente – che chiedeva l’applicazione, al posto dei parametri, degli studi settore “con adeguamento al compenso minimo ammissibile” – di applicare gli stessi studi “con adeguamento al compenso puntuale”.

Lo stesso giudice concludeva affermando che “ciò induceva a ritenere valido il criterio adottato dalla sentenza impugnata di commisurare gli imponibili al compenso puntuale degli studi di settore”.

L’Agenzia delle Entrate proponeva ricorso per la cassazione di tale decisione e il contribuente resisteva con controricorso.

La sentenza

La Suprema Corte, nel ritenere ineccepibile la decisione del giudice di merito che aveva rideterminato il ricavo fondatamente attribuibile al contribuente in misura superioie a quella dichiarata tenendo conto non dei vecchi parametri presuntivi, ma dei più sofisticati studi di settore, ha anche voluto riaffermare che questi ultimi altro non sono che una presunzione che, in assenza di ulteriori elementi di fatto riferibili all’attività svolta dal contribuente, non può fondare la maggiore pretesa impositiva perché non è contraddistinta dai requisiti di gravità, precisione e concordanza richiesti dalla legge.

Con il primo motivo, denunciando la violazione del D.Lgs. n. 546/1992, art. 18, comma 2, lett. e), l’Agenzia sosteneva che il giudice d’appello avrebbe dovuto rilevare d’ufficio l’inammissibilità del ricorso introduttivo perché assolutamente carente di motivi, rilevando al riguardo che non era assolutamente sufficiente limitarsi a dedurre che “i parametri non tengono conto di alcuni fattori determinanti per la determinazione del reddito”.

ADG-giudiciGli Ermellini bocciavano tale motivo poiché il D.Lgs. n. 546/1992, art. 18, ultimo comma, stabilisce che “il ricorso è inammissibile se manca o è assolutamente incerta una delle indicazioni di cui al comma 2, ad eccezione di quella relativa al codice fiscale e all’indirizzo di posta elettronica certificata..”. In coerenza con il successivo art. 19 del decreto citato, che parla espressamente di vizi dell’atto, la sanzione processuale dell’inammissibilità del ricorso introduttivo del processo tributario è destinata a operare, “secondo condivisibile dottrina, quando dall’esame complessivo del suo contenuto non è dato individuare quali siano le istanze in concreto avanzate dal ricorrente alla commissione”.

Con il secondo motivo, denunciando vizi di motivazione apparente (violazione del D.Lgs. n. 546/1992, art. 36, comma 2, n. 4, e art. Ili Cost.), la ricorrente sosteneva che la motivazione adottata dal giudice d’appello sarebbe completamente carente rinviando, in sostanza, alle valutazioni che il primo giudice avrebbe desunto dalla condotta precontenziosa dell’ufficio e senza considerare le sue ragioni.

Anche questo motivo è respinto dalla Suprema Corte in quanto il difetto di motivazione rientra nella violazione di legge processuale “quando si traduca nella radicale carenza della motivazione, ovvero nel suo estrinsecarsi in argomentazioni non idonee a rivelare la motivazione apparente, o fra di loro logicamente inconciliabili, o comunque perplesse o obiettivamenie incomprensibili, e sempre che i relativi vizi emergano dal provvedimento in sé. (Sez. 3A, sentenza n. 26426 del 3/11/2008)”. Nel caso in discussione la sentenza d’appello parte dal rilievo che i parametri adoperati nell’atto impositivo rappresentavano semplici presunzioni – DPR n. 600/1973, art. 39, comma 1, lett. d), contro le quali era ammessa prova contraria.

Con il terzo motivo, denunciando la violazione sia della legge n. 549/1995, art. 3, commi 181 e 184, sia dei DPCM 29/1/1996 e DPCM 27/3/1997, sia degli arti. 2697 e 2727 c.c., le Entrate sostenevano che, contrariamente alla tesi della sentenza d’appello, le risultanze derivanti dall’applicazione dei parametri costituiscono fonte di prova per presunzioni e invertono l’onere probatorio, ponendo a carico della parte contribuente di produrre argomentazioni di segno contrario, senza che rilevino proposte e controproposte avanzate nella fase precontenziosa dell’accertamento per adesione. Il terzo motivo segue la sorte dei due precedenti, dovendo ritenere incensurabile la decisione del giudice di merito di determinare il reddito ai fini delle Imposte dirette e dell’IVA avvalendosi degli studi di settore, introdotti ed entrati in vigore nel 1998, rispetto ai parametri, alla luce della “natura più raffinata del nuovo mezzo di accertamento desumibile dalla normativa che lo ha introdotto. (Sez. 5, Sentenza n. 9613 del 11/04/2008)”.

Il rilievo che l’adozione di tali più adeguati strumenti di ricostruzione per elaborazione statistica della normale redditività fosse stata accettata dall’ufficio nel corso della fallita procedura di accertamento per adesione e con riferimento al cosiddetto ricavo o compenso di riferimento puntuale, costituisce una riprova, sul piano logico e circostanziale, del fatto che l’accertamento standardizzato mediante l’applicazione degli studi di settore costituisce un valido sistema di presunzioni semplici.

Del resto, già prima della notifica dell’avviso di accertamento, nella prassi amministrativa si è consolidato il principio – avvalorato dalle circolari n. 110/E n. 148/E del 1999 – secondo cui i valori di adeguamento alle risultanze degli studi di settore devono effettuarsi “….tenendo conto del valore che nella applicazione GERICO viene indicato quale ricavo di riferimento puntuale…”. E risulta inoltre evidenziato che l’adeguamento del ricavo all’interno del cosiddetto intervallo di confidenza è comunque da ritenersi un ricavo o compenso possibile: infatti, l’intervallo di confidenza è “…ottenuto come media degli intervalli di confidenza al livello del 99,99% per ogni gruppo omogeneo ponderata con le relative probabilità di appartenenza (circ. n. 11 O/E del 21 maggio 1999)”.

I valori compresi all’interno del predetto intervallo hanno dunque una elevata probabilità statistica di costituire il ricavo/compenso fondatamente attribuibile a un soggetto esercente un’attività con le caratteristiche previste dallo studio di settore (circolare n.5 del 2008).

Desidero ricevere in abbonamento gratuito il vostro periodico FiscotoDay