SENTENZE

L’indennità di accompagnamento non produce reddito

Il Consiglio di Stato, in merito al nuovo Indicatore della situazione economica equivalente ( Isee), con la sentenza n. 00842/2016 depositata il 29.02.2016 insieme ad altre due consimili, conferma la tesi precedentemente espressa dal Tar Lazio (pronunzia n.2459 dell’ 11/02/2015) e dispone che l’indennità di accompagnamento non può essere conteggiata come reddito.

E’ bene ricordare la natura di questo contributo, istituito con una legge del 1980 e riguarda gli invalidi civili totali, cioè a coloro che hanno ottenuto il riconoscimento di una invalidità totale e permanente del 100%. Questa indennità viene concessa se, a causa della minorazione fisica o psichica, l’invalido si trova nella impossibilità di deambulare senza l’aiuto permanente di un accompagnatore o, non essendo in grado di compiere gli atti quotidiani della vita, abbisogna di una assistenza continua. Da notare inoltre che la dimensione economica di tale indennità, peraltro non soggetta a IRPEF, per l’anno 2016 è di euro 512,34, al mese, retribuiti per 12 mensilità.

Le associazioni delle famiglie con disabilità vincono così il ricorso al Consiglio di Stato, che ha respinto nuovamente l’appello presentato dal governo sul nuovo Isee che avrebbe dovuto indicare la condizione economica complessiva delle famiglie italiane. Tutto era scaturito con il varo del nuovo Isee da parte del governo Letta, poi entrato in vigore sotto l’esecutivo Renzi, dopo che un decreto del ministero del Lavoro aveva predisposto i nuovi modelli per la dichiarazione sostitutiva unica (Dsu) a fine Isee.

Le modifiche, pensate anche per rendere il modello meno permeabile a elusioni e abusi, hanno coinvolto milioni di persone, visto che la dichiarazione Isee è fondamentale per l’accesso a prestazioni sociali agevolate e aiuti per le situazioni di bisogno. Uno degli aspetti più criticati era proprio l’inserimento dei contributi ricevuti a fine assistenziale nel conteggio nel reddito, cosicché per esempio il titolare di assegni e altre indennità sarebbe risultato in molti casi “ricco” e avrebbe paradossalmente perso il diritto a ulteriori aiuti o per esempio l’accesso alle case popolari.

I giudici amministrativi del Tar laziale, con tre sentenze (nn. 2454/15 – 2458/15- 2459/15) che quali accoglievano parzialmente altrettanti ricorsi, avevano però chiaramente manifestato dubbi sul nuovo Isee, non ritenendo idonee le franchigie introdotte dal governo proprio per abbattere la parte di reddito derivante dai contributi di tipo assistenziale, previdenziale e indennitario hanno cancellato una norma adottata nel dicembre del 2013 dal governo che prevedeva nella nozione di reddito dovevano essere compresi “… i trattamenti assistenziali, previdenziali e indennitari, incluse le carte di debito, a qualunque titolo percepiti da amministrazioni pubbliche”.

Senior woman with her caregiver at home
Senior woman with her caregiver at home

In particolare il Tar ha stabilito che è illegittimo calcolare nell’Isee le provvidenze economiche connesse all’invalidità civile e, in una delle tre sentenze, ha anche ritenuto che fosse illegittima la differenza tra le cosiddette. franchigie (somme che abbattono il calcolo totale dell’Isee) previste per i maggiorenni con disabilità non autosufficienti e quelle previste per i minori con disabilità non autosufficienti (che sono più alte). Per questo era stata annullata quella parte del decreto del presidente del Consiglio che considerava come parte del “reddito disponibile” tutti quei proventi “… che l’ordinamento pone a compensazione della oggettiva situazione di svantaggio, anche economico, che ricade sui disabili e sulle loro famiglie”. Annullata anche la parte di regolamento del nuovo Isee che prevedeva franchigie variabili a seconda che il disabile sia maggiorenne o minorenne: “… Non si individua una ragione – recitava la sentenza – per la quale al compimento della maggiore età una persona con disabilità sostenga automaticamente minori spese ad essa correlate”. In pratica gli indennizzi percepiti dai disabili non possono essere considerati una fonte di reddito. Ma il governo e, in particolare, la presidenza del Consiglio e i ministeri del Lavoro e dell’Economia, non si sono adeguati ai rilievi del tribunale amministrativo e, anziché modificare il decreto, hanno deciso di presentare ricorso al Consiglio di Stato, ritenendo che, come aveva ricordato il sottosegretario all’Economia Zanetti : “… giova ribadire che qualsivoglia iniziativa normativa dovrà necessariamente tener conto degli effetti negativi sui saldi di finanza pubblica per i quali è opportuno reperire idonei mezzi di copertura finanziaria”.

Affermazione non condivisa però dai giudici amministrativi di appello che hanno condiviso molte delle osservazioni dei precedenti giudizi, sottolineando che:”….. Per tirare le somme, deve il Collegio condividere l’affermazione degli appellanti incidentali quando dicono che “… ricomprendere tra i redditi i trattamenti… indennitari percepiti dai disabili significa allora considerare la disabilità alla stregua di una fonte di reddito -come se fosse un lavoro o un patrimonio- ed i trattamenti erogati dalle pubbliche amministrazioni, non un sostegno al disabile, ma una “remunerazione” del suo stato di invalidità… (dato) … oltremodo irragionevole … (oltre che) … in contrasto con l’art. 3 Cost. …”. Del tutto infondata è infine la deduzione delle appellanti principali, laddove contestano la sentenza che stigmatizza l’irrazionalità e l’illogicità del trattamento differenziato tra disabili minorenni (che hanno titolo all’incremento delle detrazioni ex art. 4, lett. d, nn. 1/3 del DPCM) e maggiorenni (che di tal incremento non debbono godere). Rettamente il TAR precisa che, quantunque il maggiorenne disabile possa far nucleo a sé stante, non solo la maggior età in sé non abbatte i costi della disabilità, ma non v’è un’evidenza statistica significativa sull’incidenza dei disabili facenti nucleo a sé rispetto alla popolazione dei disabili ed al gruppo di chi non costituisce tal nucleo. Ebbene, quanto al primo aspetto, il favor minoris di cui all’art. 7 della Convenzione ONU di New York sui diritti dei disabili (ratificata dalla l. 3 marzo 2009 n. 18) non può determinare, a parità di doveri di assistenza ex art. 38 Cost., un trattamento deteriore verso soggetti parimenti disabili per il sol fatto dell’età, ché, anzi, la disabilità tende a crescere man mano che il soggetto avanza nell’età. Sicché, venendo al secondo e correlato aspetto, il “far nucleo a sé” non compensa la decurtazione delle detrazioni, a cagione di tal aumentare dei disagi della disabilità connessi ad un’età più anziana. Si può forse discettare se la richiesta del TAR di almeno uno studio statistico possa costituire un onere probatorio gravoso per le appellanti principali, ma esse non s’avvedono che, in tal modo, confessano di aver statuito siffatto trattamento differenziato senza una fondata ragione, dedotta anche in modo empirico dalle vicende delle varie categorie di disabili. Gli appelli vanno così respinti”.

 

sentenza N. 00842/2016 REG.PROV.COLL

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