CASSAZIONE

Legittimo l’accertamento motivato quando il Pvc era stato già notificato al contribuente

Tributi – IVA, IRAP e IRPEF – Accertamento – Studi di settore – Processo verbale di constatazione – Contenzioso tributario – Definizione agevolata – Art. 56 del d.P.R. n. 633/1972 –  Motivazione per relationem – Notifica al contribuente – Legittimità

La Corte di Cassazione, nell’ordinanza n. 6064 del 23 febbraio 2022, dedicandosi al tema dell’accertamento sulle imposte sui redditi, ha disposto che un avviso di accertamento è giustamente motivato quando è in relazione al relativo processo verbale di constatazione, regolarmente notificato o consegnato all’intimato, senza che l’Amministrazione finanziaria sia poi tenuta ad includervi notizia delle prove poste a fondamento o riportarne, sia pure sinteticamente, il contenuto.

In altre parole, sulla scia di una nutrita giurisprudenza, l’odierna interpretazione dei Giudici di legittimità afferma che nel caso in cui copia di detto verbale sia stata sottoscritta e consegnata al contribuente, e che pertanto ha già una integrale e legale conoscenza del contenuto del verbale, rende non più necessario riannetterlo all’avviso di accertamento.

Per costante insegnamento giurisprudenziale, ora codificato dall’art. 3, comma 3, della legge n. 241/1990, deve ritenersi ammissibile la motivazione per relationem a condizione che siano indicati e resi disponibili gli atti cui si fa rinvio: va intesa nel senso che all’interessato deve essere possibile prenderne visione, richiederne e ottenerne copia in base alla normativa sul diritto di accesso ai documenti amministrativi e chiederne la produzione in giudizio, con la conseguenza che non sussiste per l’Amministrazione l’obbligo di notificare all’interessato tutti gli atti richiamati nel provvedimento, ma soltanto di indicarne gli estremi e di metterli a disposizione su sua richiesta. La motivazione per relationem si ha quando chi la redige richiama un altro atto, collegato al primo, che in tal modo ne entra a far parte.

Di fatto l’obbligo di motivazione, nella moderna e condivisa accezione sostanziale, va riferito allo sviluppo della funzione amministrativa nel suo complesso e non al solo provvedimento conclusivo, con conseguente possibilità di ricostruirne la trama attraverso la lettura complessiva di tutti gli atti, se noti, della sequenza procedimentale. L’omessa allegazione dell’atto richiamato nella motivazione non invalida il provvedimento conclusivo, ma legittima l’interessato a proporre eventuali ulteriori censure in seguito alla effettiva conoscenza dell’atto endoprocedimentale successivamente acquisito al giudizio.

A rafforzare l’odierno pronunciamento ricordiamo alcuni significativi precedenti, come le sentenze della Cassazione n. 1906/2008 e n. 407/2015, nelle quali veniva specificato che, ai sensi dell’articolo 42 del DPR 600/1973 e dell’articolo 56 del DPR 633/1972, quando la motivazione dell’avviso di accertamento fa riferimento a un altro atto non conosciuto né ricevuto dal contribuente, questo deve essere allegato all’atto che lo richiama, salvo che quest’ultimo non ne riproduca il contenuto essenziale.

È consolidato l’orientamento di legittimità in base al quale l’avviso di accertamento, avente carattere di provocatio ad opponendum, soddisfa l’obbligo di motivazione ogni qualvolta l’Amministrazione abbia posto il contribuente in grado di conoscere la pretesa tributaria nei suoi elementi essenziali e, quindi, di contestarne efficacemente l’an e il quantum debeatur: deve pertanto ritenersi correttamente motivato ove faccia riferimento a un processo verbale di constatazione, regolarmente notificato o consegnato all’intimato (ex multis Cassazione, sentenze 5677/2014, 15327/2014, 18073/2008 e 15842/2006). 

Ancor più recentemente la Suprema Corte, con l’ordinanza n. 25588/2021, aveva spiegato quali fossero i presupposti di legittimità per motivare per relationem un avviso di accertamento, statuendo con precisione che l’obbligo dell’Amministrazione finanziaria di allegare tutti gli atti citati nell’avviso deve essere inteso in necessaria correlazione con la finalità “integrativa” delle ragioni che sorreggono l’atto impositivo, secondo quanto dispone l’art. 3, comma 3, della citata legge 241/1990. Ne consegue, quindi, che all’avviso di accertamento vanno allegati i soli atti aventi contenuto integrativo della motivazione dell’avviso medesimo e che non siano stati già trascritti nella loro parte essenziale, ma non anche gli altri atti cui l’Amministrazione finanziaria faccia comunque riferimento, i quali, pur non facendo parte della motivazione, sono utilizzabili ai fini della prova della pretesa impositiva (v. Cass. n. 24417/2018, n. 28574/2020 e n. 3183/2021).

Conseguentemente, anche nel regime introdotto dall’art. 7 della legge 212/2000, l’obbligo di motivazione degli atti tributari può essere adempiuto anche per relationem, ovverosia mediante il riferimento a elementi di fatto risultanti da altri atti o documenti, a condizione che questi ultimi siano allegati all’atto notificato, ovvero che lo stesso ne riproduca il contenuto essenziale, per tale dovendosi intendere l’insieme di quelle parti (oggetto, contenuto e destinatari) dell’atto o del documento che risultino necessarie e sufficienti per sostenere il contenuto del provvedimento adottato, e la cui indicazione consenta al contribuente – e al giudice in sede di eventuale sindacato giurisdizionale – di individuare i luoghi specifici dell’atto richiamato nei quali risiedono quelle parti del discorso che formano gli elementi della motivazione del provvedimento (così: Cass. n. 6914/2011; Cass. n. 13110/2012; Cass. n. 9032/2013; Cass. n. 9323/2017; Cass. n. 21066/2017; Cass. n. 4396/2018; Cass. n. 24417/2018; Cass. n. 28574/2020; Cass. n. 3183/2021).

Tanto premesso e tornando al caso in dibattimento, dei contribuenti, ricevuti alcuni avvisi di accertamento emessi nei confronti della società e dei soci, ricorrevano alla giustizia tributaria ritenendo gli accertamenti insufficientemente motivati deducendo la “violazione o falsa applicazione dell’art. 7 della legge n. 212 del 2000 e dell’art. 3 della legge 7 agosto 1990, n. 241”: in sostanza lamentavano che gli avvisi di accertamento notificati alla società e ai soci richiamavano il processo verbale di constatazione, senza spiegare in alcun modo le ragioni per le quali l’Agenzia delle entrate aveva inteso tali risultanze come plausibili. Gli appelli sono stati rigettati in entrambe le sedi di giudizio.

Di qui il ricorso in Cassazione in cui essenzialmente si ripropone la “violazione o falsa applicazione dell’art. 7 della legge n. 212 del 2000 e dell’art. 3 della legge 7 agosto 1990, n. 241”.

Da segnalare che il giudizio era stato sospeso, con ordinanza della Suprema Corte, avendo aderito la società ed il socio G. M. alla definizione agevolata di cui all’art. 6 del D.L. 119/2018. La Suprema Corte ha rigettato il ricorso e stabilito che “… Invero, per questa Corte, in tema di contenzioso tributario, l’avviso di accertamento soddisfa l’obbligo di motivazione, ai sensi dell’art. 56 del d.P.R. n. 633 del 1972, ogni qualvolta l’Amministrazione abbia posto il contribuente in grado di conoscere la pretesa tributaria nei suoi elementi essenziali e, quindi, di contestarne efficacemente l’”an” ed il “quantum debeatur”, sicché lo stesso è correttamente motivato quando fa riferimento ad un processo verbale di constatazione della Guardia di Finanza regolarmente notificato o consegnato all’intimato, senza che l’Amministrazione sia tenuta ad includervi notizia delle prove poste a fondamento del verificarsi di taluni fatti o a riportarne, sia pur sinteticamente, il contenuto (Cass., sez. 5, 30 ottobre 2019, n. 27800).Nella specie, è pacifico che il processo verbale di constatazione sia stato notificato al legale rappresentante della società, tanto che risulta allegato al n. 1 del ricorso presentato dinanzi alla Commissione tributaria provinciale, come pure al n. 2 del ricorso in appello (cfr. pagina 7 del ricorso per cassazione). Peraltro, i ricorrenti non hanno neppure trascritto, negli stralci essenziali, il contenuto degli avvisi di accertamento, onde consentire a questa Corte di comprendere se gli stessi fossero sufficientemente motivati. Con il secondo motivo di impugnazione i ricorrenti lamentano la “violazione o falsa applicazione dell’art. 39 del d.P.R. n. 600 del 1973 e degli articoli 2727, 2729 e 2197 c.c., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., nonché vizio di omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c. “. Il giudice d’appello ha affermato che l’accertamento impugnato è analitico-induttivo., ex art. 39, primo comma, lettera d) d.P.R. n. 600 del 1973. Tuttavia, i sistemi di calcolo utilizzati derivano dagli studi di settore elaborati dal Ministero delle finanze e dalle Metodologie di controllo delle piccole medie imprese e dei professionisti, per il settore relativo a “ristoranti trattorie, pizzerie”, costituiscono semplici indizi privi delle caratteristiche richieste dall’art. 2229 c.c. e dell’art. 39 d.P.R., primo comma, lettera d), n. 600 del 1973. Con il terzo motivo di impugnazione i ricorrenti deducono la “violazione ed errata applicazione degli articoli 112 e 116 c.p.c., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., e vizio di omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c. “. In particolare, era pacifica l’incidenza sul fatturato dei menù operai pari a 4,48%, come quella dell’1,48% riferita ai menù turistici, restando al menù alla carta la restante percentuale di produzione; tuttavia, erano pacifici n. 448 primi, 448 secondi e 448 per acqua, a fronte però di n. 662 contorni, n. 417 acqua ed oltre n. 570 caffè. Inoltre, errori erano stati commessi anche con riferimento al caffè, calcolato in quantità da 7 grammi a porzione, invece che 9 grammi a porzione, come pure ai liquori, calcolati in 0,040 porzione, invece che 0,070 a porzione. Vi sarebbe stato, allora, l’omesso esame circa un fatto decisivo, in relazione agli errori commessi dai verbalizzanti, sicché il giudice d’appello “non [ha] sufficientemente motivato sull’esistenza e sull’ammontare dell’errore, neppure individuandolo nella sua consistenza aritmetica”. I motivi secondo e terzo, che vanno trattati congiuntamente per strette ragioni di connessione, sono anch’essi infondati. In particolare, si rileva che il giudice d’appello, con articolata ed ampia motivazione, ha rigettato il gravame articolato dalla società e dai soci, mentre i ricorrenti richiedono a questa Corte una nuova valutazione degli elementi istruttori, già congruamente effettuata nel giudizio di appello, non consentita in sede di legittimità.  […] Le spese del giudizio di legittimità, relative alla controversia tra i soci R. S. e G. I. M. con l’Agenzia delle entrate, vanno poste a carico dei ricorrenti, per il principio della soccombenza, e si liquidano come da dispositivo. Le spese del giudizio relative alla società ed al socio G. M., con riferimento all’adesione alla definizione agevolata ed all’estinzione parziale del giudizio, restano a carico delle parti che le hanno anticipate. Con riferimento alla posizione della società D. E. s.n.c. e del socio G. M., si rileva che nell’ipotesi di causa di inammissibilità sopravvenuta alla proposizione del ricorso per cassazione non sussistono i presupposti per imporre al ricorrente il pagamento del cd. “doppio contributo unificato” – fattispecie in tema di rinuncia al ricorso da parte del contribuente per adesione alla definizione agevolata di cui all’art. 6, comma 2, del d.l. n. 193 del 2016, convertito, con modificazioni, dalla l. n. 225 del 2016 – (Cass., sez. 5, 7 dicembre 2018, n. 31732)”.

Corte di Cassazione – Ordinanza 23 febbraio 2022, n. 6064

sul ricorso iscritto al n. 14010/2013 R.G. proposto da:

D. E. s.n.c. di M. I. G. & C., in persona del legale rappresentante pro tempore,

S. R., in proprio e quale rappresentante legale pro tempore nonché socio illimitatamente responsabile,

M. I. G., in proprio e quale rappresentante legale pro tempore, nonché socio illimitatamente responsabile,

M. G., in proprio e quale rappresentante legale pro tempore, nonché socio illimitatamente responsabile, tutti rappresentati e difesi dall’Avv. Giulio Mario Guffanti e dall’Avv. Fabrizio Grassetti, giusta procura speciale a margine del ricorso, elettivamente domiciliata presso lo suo studio dell’Avv. Fabrizio Grassetti, in Roma, via Pompeo Magno, n. 2/B

– ricorrente –

contro Agenzia delle entrate, in persona del Direttore pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura distrettuale dello Stato e presso i cui uffici domicilia in Roma, alla Via dei Portoghesi n. 12

-controricorrente-

avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della Lombardia, n. 159/44/2012, depositata il 23 novembre 2012.

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 25 gennaio 2022 dal consigliere Luigi D’Orazio.

RILEVATO CHE

1. La Commissione tributaria regionale della Lombardia rigettava l’appello proposto dalla società D. E.s.n.c. di M. I. G. e C., esercente attività di ristorazione, nonché dai soci R. S., I. G. M. e G. M. avverso la sentenza della Commissione tributaria provinciale di Como (n.198/3/2011), che aveva rigettato i ricorsi proposti dai contribuenti contro gli avvisi di accertamento emessi nei confronti della società e dei soci, per gli anni 2005 e 2006, ai fini Iva, Irap e Irpef.

In particolare, il giudice d’appello evidenziava la mancata esibizione alla Guardia di Finanza del dettaglio delle rimanenze di magazzino, la sussistenza di perdite d’impresa negli anni 2005 e 2006, rispettivamente per euro 5.635,00 ed euro 42.298,00, oltre che la non congruità con gli studi di settore. Inoltre, la società aveva avuto perdite anche negli anni 2003 e 2004, come pure nel successivo anno 2007; l’attività gestionale si manifestava, quindi, come antieconomica ed il dato reddituale dichiarato risultava incongruo e irragionevoli, tanto più che i tre soci non avevano dichiarato redditi di partecipazione sufficienti alle loro necessità di vita, in quanto non avevano avuto fonti reddituali diverse, salvo la socia S. che aveva una pensione annua di circa € 10.000,00.

Neppure era credibile la giustificazione addotta dalla società secondo cui le perdite sarebbero derivate dal rimborso di un finanziamento contratto con un istituto di credito nel 2001 per euro 200.000,00. Inoltre, le spese per stipendi dei dipendenti nel 2006 erano più che raddoppiate rispetto a quelle del 2005. L’incidenza degli errori emersi in sede di accertamento non era stata dimostrata, non avendo indicato la contribuente in concreto un diverso conteggio ragionato e complessivo.

2. Avverso tale sentenza propongono ricorso per cassazione la società ed i soci.

3. Resiste con controricorso l’Agenzia delle entrate.

4. Il giudizio è stato sospeso con ordinanza di questa corte del 15 maggio 2019, avendo aderito la società ed il socio G. M. alla definizione agevolata di cui all’art. 6 del d.l. n. 119 2018.

5. I soci e la società hanno depositato memoria scritta.

CONSIDERATO CHE

1. Anzitutto, deve essere dichiarata l’estinzione parziale del giudizio, per cessazione della materia del contendere, limitatamente alla società ed al socio G. M., avendo gli stessi aderito alla definizione agevolata di cui all’art. 6 del d.l. n. 119 del 2018.

1.1. In particolare, risulta che la società ed il socio G. M. hanno chiesto la definizione agevolata con riferimento agli avvisi di accertamento T9K020402385 del 2005 (per la società), T9K020402388 del 2006 (per la società), e n. T9K010702717 (per il 2005 relativo al socio G. M.).

La società ed il socio hanno provveduto ai pagamenti in pendenza di giudizio, come risulta dalle domande di definizione presentate il 30 maggio 2019.

L’Agenzia delle entrate, con atto del 14 dicembre 2020, ha chiesto dichiararsi l’estinzione parziale del giudizio per cessazione della materia del contendere limitatamente ai tre avvisi di accertamento sopra richiamati, relativi alle posizioni della società D. E. s.n.c. di M. I. G. e di M. G..

Il giudizio prosegue, dunque, limitatamente ai soci R. S. e I. G. M., con riferimento agli avvisi di accertamento nn. T9K010 702715 e T9K010702716.

2. Con il primo motivo di impugnazione la società e i soci deducono la “violazione o falsa applicazione dell’art. 7 della legge n. 212 del 2000 e dell’art. 3 della legge 7 agosto 1990, n. 241”.

Gli avvisi di accertamento notificati alla società ed ai soci richiamano il processo verbale di constatazione, senza spiegare in alcun modo le ragioni per le quali l’Agenzia ha inteso tali risultanze come plausibili.

Tali avvisi di accertamento erano dunque insufficientemente motivati.

2.1. Il motivo è infondato.

2.2. Invero, per questa Corte, in tema di contenzioso tributario, l’avviso di accertamento soddisfa l’obbligo di motivazione, ai sensi dell’art. 56 del d.P.R. n. 633 del 1972, ogni qualvolta l’Amministrazione abbia posto il contribuente in grado di conoscere la pretesa tributaria nei suoi elementi essenziali e, quindi, di contestarne efficacemente l’”an” ed il “quantum debeatur”, sicché lo stesso è correttamente motivato quando fa riferimento ad un processo verbale di constatazione della Guardia di Finanza regolarmente notificato o consegnato all’intimato, senza che l’Amministrazione sia tenuta ad includervi notizia delle prove poste a fondamento del verificarsi di taluni fatti o a riportarne, sia pur sinteticamente, il contenuto (Cass., sez. 5, 30 ottobre 2019, n. 27800).

Nella specie, è pacifico che il processo verbale di constatazione sia stato notificato al legale rappresentante della società, tanto che risulta allegato al n. 1 del ricorso presentato dinanzi alla Commissione tributaria provinciale, come pure al n. 2 del ricorso in appello (cfr. pagina 7 del ricorso per cassazione).

Peraltro, i ricorrenti non hanno neppure trascritto, negli stralci essenziali, il contenuto degli avvisi di accertamento, onde consentire a questa Corte di comprendere se gli stessi fossero sufficientemente motivati.

3. Con il secondo motivo di impugnazione i ricorrenti lamentano la “violazione o falsa applicazione dell’art. 39 del d.P.R. n. 600 del 1973 e degli articoli 2727, 2729 e 2197 c.c., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., nonché vizio di omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c. “.

Il giudice d’appello ha affermato che l’accertamento impugnato è analitico-induttivo, ex art. 39, primo comma, lettera d) d.P.R. n. 600 del 1973. Tuttavia, i sistemi di calcolo utilizzati derivano dagli studi di settore elaborati dal Ministero delle finanze e dalle Metodologie di controllo delle piccole medie imprese e dei professionisti, per il settore relativo a “ristoranti trattorie, pizzerie”, costituiscono semplici indizi privi delle caratteristiche richieste dall’art. 2229 c.c. e dell’art. 39 d.P.R., primo comma, lettera d), n. 600 del 1973. .

4. Con il terzo motivo di impugnazione i ricorrenti deducono la “violazione ed errata applicazione degli articoli 112 e 116 c.p.c., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., e vizio di omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c. “. In particolare, era pacifica l’incidenza sul fatturato dei menù operai pari a 4,48%, come quella dell’1,48% riferita ai menù turistici, restando al menù alla carta la restante percentuale di produzione; tuttavia, erano pacifici n. 448 primi, 448 secondi e 448 per acqua, a fronte però di n. 662 contorni, n. 417 acqua ed oltre n. 570 caffè.

Inoltre, errori erano stati commessi anche con riferimento al caffè, calcolato in quantità da 7 grammi a porzione, invece che 9 grammi a porzione, come pure ai liquori, calcolati in 0,040 porzione, invece che 0,070 a porzione. Vi sarebbe stato, allora, l’omesso esame circa un fatto decisivo, in relazione agli errori commessi dai verbalizzanti, sicché il giudice d’appello “non [ha] sufficientemente motivato sull’esistenza e sull’ammontare dell’errore, neppure individuandolo nella sua consistenza aritmetica”.

4.1. I motivi secondo e terzo, che vanno trattati congiuntamente per strette ragioni di connessione, sono anch’essi infondati.

4.2. In particolare, si rileva che il giudice d’appello, con articolata ed ampia motivazione, ha rigettato il gravame articolato dalla società e dai soci, mentre i ricorrenti richiedono a questa Corte una nuova valutazione degli elementi istruttori, già congruamente effettuata nel giudizio di appello, non consentita in sede di legittimità.

5. I ricorrenti, pur centrando il gravame su motivi di legittimità, in realtà rivolgono critiche proprio al ragionamento inferenziale compiuto dal giudice d’appello.

6.Anzitutto, gli avvisi di accertamento erano fondati anche sugli studi di settore, ma non si esaurivano in essi, avendo preso in esame altri elementi, quali la scarsa redditività dell’impresa, le perdite sistematiche negli anni, la mancata esibizione alla Guardia di Finanza del dettaglio delle rimanenze di magazzino, l’assenza di redditi di partecipazione da parte dei soci, ad esclusione della S. che aveva una pensione annua di circa € 10.000.

6.1. Si è affermato, quindi, che un accertamento tributario può dirsi fondato su uno studio di settore solo nel caso in cui trovi in esso il suo fondamento prevalente. Ciò non si verifica quando, mediante l’utilizzo degli studi di settore siano emerse incongruenze nella contabilità di impresa che abbiano indotto l’Ente accertatore ad approfondire l’analisi, scoprendo altri, e prevalenti, indici rivelatori dell’esistenza di una operatività economica non dichiarata, raccogliendo l’Amministrazione finanziaria elementi gravi, precisi e concordanti, posti a fondamento dell’accertamento tributario (Cass., sez. 5, 13555/2020; Cass., 5 dicembre 2019, n. 31814, Cass., 6 giugno 2019, n. 15344).

7. Invero, per questa Corte, in tema di imposte sui redditi, la tenuta della contabilità in maniera formalmente regolare non è di ostacolo alla rettifica delle dichiarazioni fiscali e, in presenza di un comportamento assolutamente contrario ai canoni dell’economia, che il contribuente non spieghi in alcun modo, è legittimo l’accertamento su base presuntiva, ed il giudice di merito, per poter annullare l’accertamento, deve specificare, con argomenti validi, le ragioni per le quali ritiene che l’antieconomicità del comportamento del contribuente non sia sintomatico di possibili violazioni di disposizioni tributarie – nella specie la S.C. ha cassato la decisione che aveva contraddetto, senza addure argomentazioni utili a proprio sostegno, il quadro emergente contrassegnato da una persistente perdita del profitto negli anni di esercizio di riferimento, un reddito di esercizio negativo, un esorbitante costo del lavoro, un incremento progressivo del costo del lavoro in misura inversamente proporzionale al “trend” degli utili – (Cass., sez. 5, 14 ottobre 2020, n. 22185; Cass., sez. 5, 15 ottobre 2007, n. 21536).

7.1. Nella specie, il giudice d’appello ha evidenziato la sussistenza di perdite negli anni 2003, 2004, 2005 (euro 5.335,00), 2006 (euro 42.298,00), e 2007; ha sottolineato la manifesta antieconomicità della gestione dell’impresa e l’irragionevolezza del dato reddituale, soprattutto se rapportato al fatto che i tre soci non hanno dichiarato redditi di partecipazione sufficienti alle loro necessità di vita, in quanto non hanno avuto fonti reddituali diverse, ad eccezione della socia S. che aveva una pensione annua di circa euro 10.000,00.

Inoltre, la Commissione regionale ha rilevato che i ricorrenti non hanno dato la dimostrazione che le perdite sarebbero derivate dal rimborso di un finanziamento contratto con l’istituto di credito nel 2001 per euro 200.000,00, in quanto nella dichiarazione dei redditi relativa 2005 sono indicati un debito verso banche di euro 3.199,00, esigibile entro l’esercizio successivo, ed un altro debito di euro 14.876,00, esigibile oltre l’esercizio successivo, i cui interessi passivi risultavano indicati dalla società in euro 4.510,00 per il 2005 ed in euro 2.171,09 per il 2006, sicché tali debiti non potevano aver determinato le perdite menzionate.

Le spese per stipendi dei dipendenti nel 2006 erano più che raddoppiate rispetto all’anno 2005, costituendo questo un dato incongruo ed irragionevole in relazione al risultato economico degli anni, tutti sistematicamente in perdita.

Il rilievo sull’errore di calcolo non ha inciso sui presupposti degli accertamenti; né i ricorrenti hanno indicato in concreto, con un conteggio “ragionato e complessivo”, l’incidenza dell’errore sull’accertamento. Con riferimento ai costi, la società aveva compiuto una inammissibile modifica della domanda, assumendo che “i costi sono strettamente connessi ai maggiori ricavi accertati”, mentre in precedenza aveva riferito i costi ai pasti dei dipendenti ed all’autoconsumo dell’imprenditore.

8. Le spese del giudizio di legittimità, relative alla controversia tra i soci R. S. e G. I. M. con l’Agenzia delle entrate, vanno poste a carico dei ricorrenti, per il principio della soccombenza, e si liquidano come da dispositivo.

9. Le spese del giudizio relative alla società ed al socio G. M., con riferimento all’adesione alla definizione agevolata ed all’estinzione parziale del giudizio, restano a carico delle parti che le hanno anticipate.

10. Con riferimento alla posizione della società D. E. s.n.c. e del socio G. M., si rileva che nell’ipotesi di causa di inammissibilità sopravvenuta alla proposizione del ricorso per cassazione non sussistono i presupposti per imporre al ricorrente il pagamento del cd. “doppio contributo unificato” – fattispecie in tema di rinuncia al ricorso da parte del contribuente per adesione alla definizione agevolata di cui all’art. 6, comma 2, del d.l. n. 193 del 2016, convertito, con modificazioni, dalla l. n. 225 del 2016 – (Cass., sez. 5, 7 dicembre 2018, n. 31732)

P.Q.M.

dichiara l’estinzione parziale del giudizio, per cessazione della materia del contendere, limitatamente alla società D. E. s.n.c. di M. I. G. ed al socio G. M..

Rigetta il ricorso presentato da I. G. M. e da R. S.;

condanna I. G. M. e R. S. a rimborsare in favore dell’Agenzia delle entrate le spese del giudizio di legittimità che si liquidano in complessivi euro 4.000,00, oltre spese prenotate a debito.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti R. S. e I. G. M., dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis, dello stesso art. 1, se dovuto. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del 25 gennaio 2022

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