Legittimo l’accertamento basato sul “tovagliometro”
Tributi – IVA –Avvisi di accertamento – Ricostruzione induttiva del reddito dell’impresa – Tovagliometro – Omesso esame ex art. 360 n. 5 c.p.c. – Rilevanza – Condizioni. La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 10388 del 31 marzo 2022, intervenendo sulle modalità di ricostruzione induttiva del reddito dell’impresa ha ribadito l’idoneità del riferimento ai tovaglioli
utilizzati da un esercizio di ristorazione come indicatore delle dimensioni dell’attività svolta, confermando un orientamento abbastanza costante della giurisprudenza della Suprema Corte.
La Giurisprudenza sia di merito che di legittimità, negli ultimi anni, si è infatti più volte pronunciata sulle circostanze in cui è ammesso l’utilizzo dell’accertamento analitico-induttivo (ex art. 39, primo comma, lettera d, del DPR 29/9/73, n. 600) e sulla legittimità dell’operato dell’ufficio che prende a base i consumi delle materie prime. La vasta produzione giurisprudenziale conferma che la constatazione di alcuni dati reali, quali indicatori delle dimensioni dell’attività svolta, possono confutare anche quanto risulta dalle scritture contabili. Al pari di altri strumenti simili, come il farinometro, il meccanismo è semplice: viene confrontato il consumo relativo a un determinato tipo di bene, ritenuto caratterizzante per l’attività esercitata, con i redditi dichiarati. Ed è così che si è iniziato a parlare di “Tovagliometro” (CTR di Venezia n. 77 del 10/07/2012), “Bottigliometro” (Cassazione n. 17408/2010), “Farinometro” (Cassazione n. 15858/2011), “Lenzuolometro” (C.T.R. di Genova n. 12 del 15/03/2013) e di “Barometro” (CTP di Ravenna n. 243/02/2011).
In particolare, per l’attività di ristorazione, l’utilizzo di tovaglioli usati è un elemento di sicura affidabilità in quanto centrale per tale tipologia di attività. Da allora, ad avviso dei giudici di legittimità, in simili ipotesi l’applicazione dell’accertamento fondato nell’ambito dell’art. 39, comma 1, lett. d) del DPR 600/1973 è legittimo dove vengono confermate le ricostruzioni indirette dei maggiori ricavi operate dall’Amministrazione finanziaria basate su questi indicatori con i quali si confrontano le spese del contribuente con i redditi dichiarati, al fine di individuare possibili anomalie.
Sul punto in questione, la stessa Corte di Cassazione si era espressa più volte (v. Ord. n. 11593/2021) avendo occasione di chiarire che “l’accertamento induttivo del reddito, ai sensi dell’art. 39, comma 1, lett. d) Dpr 600/1973, operato mediante la determinazione dei ricavi di un’impresa di ristorazione in base al consumo unitario dei tovaglioli utilizzati (risultante per quelli di carta dalle fatture o ricevute di acquisto e per quelli di stoffa dalle ricevute della lavanderia), è legittimo, in quanto costituisce un dato assolutamente normale quello secondo cui per ciascun pasto ogni cliente adoperi un solo tovagliolo e rappresentando, quindi, il numero di questi un fatto noto idoneo, anche di per sé solo, a lasciare presumere il numero dei pasti effettivamente consumati, pur dovendosi ragionevolmente sottrarre dal totale una certa percentuale di tovaglioli normalmente utilizzati per altri scopi, quali i pasti dei dipendenti, l’uso da parte dei camerieri e le evenienze più varie per le quali ciascun cliente può essere indotto ad utilizzare più tovaglioli”. (v. Cass. nn. 8822/2019, 20060/2014, 13068/2011, nonché, per l’analogo rilievo presuntivo anche delle materie prime utilizzate per la preparazione di ciascun pasto, la n. 51/1999).
Caratteristica principale dell’accertamento induttivo del reddito è dunque quella di consentire di desumere “… l’esistenza di attività non dichiarate … anche sulla base di presunzioni semplici, purché queste siano gravi, precise e concordanti”.
Questa, in sintesi, è l’attuale interpretazione prevalente della Corte di Cassazione.
Ricordiamo in proposito che l’accertamento induttivo è quello strumento in virtù del quale l’ufficio delle imposte determina il reddito d’impresa senza tener conto, o tenendo parzialmente conto, delle risultanze del bilancio e delle scritture contabili ma avvalendosi anche di presunzioni prove dei requisiti di gravità precisione e concordanza, dette presunzioni semplicissime o accertamento induttivo extra contabile.
L’accertamento con metodo analitico induttivo, con il quale l’ufficio finanziario procede alla rettifica di componenti reddituali, è consentito ai sensi dell’art. 39, co. 1, lett. d), DPR 600/1973, pure in presenza di contabilità formalmente tenuta, in quanto la disposizione presuppone scritture regolarmente tenute che tuttavia appaiano contestabili in forza di valutazioni condotte sulla base di presunzioni gravi, precise e concordanti che facciano seriamente dubitare della completezza e della fedeltà della contabilità esaminata, sicché essa possa essere considerata, nel suo complesso, inattendibile. Il metodo di accertamento c.d. analitico-induttivo è una metodologia di accertamento che consente all’Amministrazione finanziaria di potersi avvalere di presunzioni aventi determinati requisiti per determinare attività non dichiarate ovvero disconoscere passività dichiarate, disattendendo in parte le risultanze delle scritture contabili.
Quindi, il presupposto di tale metodo di accertamento è costituito dall’incompletezza, falsità o inesattezza dei dati indicati nella dichiarazione, risultanti dall’ispezione delle scritture contabili e dalle altre verifiche di cui all’articolo 33 del DPR 600/1973, dal controllo della completezza, esattezza e veridicità delle registrazioni contabili sulla scorta delle fatture e degli altri atti e documenti relativi all’impresa e, infine, dei dati e delle notizie raccolti dall’ufficio nei modi previsti dall’articolo 32 del DPR 600/1973.
Sostanzialmente, i presupposti affinché l’Amministrazione finanziaria possa procedere attraverso un accertamento di tipo analitico-induttivo sono costituiti dall’esistenza di prove dirette, materiali e/o documentali e prove indirette di tipo presuntivo caratterizzate da gravità, precisione e concordanza.
In buona sostanza, anche oggi la Cassazione ribadisce che in materia di accertamento dei redditi il metodo analitico-induttivo può basarsi sulla complessiva inattendibilità della contabilità, da valutarsi sulla base di presunzioni dell’articolo articolo 39 comma 1, lett. d) DPR 600/1973, alla stregua di criteri di ragionevolezza, ancorché le scritture contabili siano formalmente corrette, e dette presunzioni non devono essere necessariamente plurime, potendosi il convincimento del giudice fondare anche su un elemento unico, preciso e grave (cfr. Cassazione nn. 33604/2019, 7025/2018 e 30803/2017).
Tanto premesso e tornando al caso esaminato, la vicenda ha inizio quando un esercente di un’attività di ristorazione riceveva dall’ufficio fiscale un avviso di accertamento ex art. 39, comma 1, lett. d) del DPR 600/1973, con cui si comunicavano maggiori ricavi sulla base delle presunzioni e delle ricostruzioni conseguenti all’applicazione del cd “tovagliometro”.
Adita alla giustizia tributaria, la parte contribuente vedeva la soddisfazione delle proprie ragioni in quanto la CTR dichiarava che la presunzione di ricavi non dichiarati derivante dal calcolo dei tovaglioli utilizzati dall’attività di ristorazione rimaneva una presunzione semplice, che non fondava legittimamente l’accertamento posto in essere. L’Agenzia ricorreva in Cassazione con quattro motivi, nei quali essenzialmente si lamentava che i giudici tributari avevano erroneamente ritenuto non sussistenti le presunzioni necessarie a legittimare l’accertamento, senza indicare il modo in cui il calcolo avrebbe dovuto essere eseguito. La tesi della difesa erariale non ha convinto i Supremi giudici di legittimità, che invece hanno riconosciuto: “… Nel caso di specie l’ufficio aveva contestato la presunzione di ricavi non dichiarati derivante dal calcolo dei tovaglioli utilizzati dall’attività del ristorante sulla constatazione della irragionevole esiguità del reddito dichiarato e della non congruità dei ricavi al numero dei tovaglioli utilizzati. La complessiva inattendibilità della contabilità aziendale, desumibile dai rilievi suesposti, era astrattamente idonea a legittimare l’accertamento induttivo, espletato dall’Ufficio sulla base dei criteri già approvati da questa Corte in occasione di altre pronunce (Cass. n. 8643/15 del 06/04/2007; n. 16048 del 29/7/2005 e n. 9884 delP8/7/2002); in particolare, in tema di accertamento dei redditi d’impresa, con riguardo ad un’attività di ristorazione questa Corte ha affermato che, una volta calcolata la quantità normale di materie prime necessarie per la preparazione dei pasti, è ragionevole presumere che ne sia stato servito un numero pari al complesso dei generi alimentari acquistati, diviso per le quantità di essi occorrenti per ciascun pasto e che la mancata registrazione di consistenti ricavi sulla base dei piatti e delle bevande vendute in determinati anni, legittima l’ufficio finanziario a procedere all’accertamento ai sensi dell’art. 39, secondo comma, lettera d), del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, trattandosi di omissioni e falsità che per il loro numero e gravità minano la credibilità dell’intera documentazione contabile (Cass. 25001/2006). Questa Corte ha altresì affermato la legittimità dell’accertamento nei confronti di un ristorante in cui l’ufficio che ha dedotto il reddito dalla quantità di materie prime (carne e pesce) acquistata o dal numero di tovaglioli lavati (Cass. 7 gennaio 1999, n.51; Cass.22 dicembre 1998 n. 12774 del e n. 12482 dell’Il dicembre 1998). Erroneamente quindi la CTR ha affermato che, poiché non erano emerse inesattezze o irregolarità nella dichiarazione, la presunzione di ricavi non dichiarati, derivante dal calcolo dei tovaglioli rimaneva una presunzione semplice che non poteva fondare l’accertamento induttivo posto in essere. La CTR, tuttavia, ha in ogni caso, esaminato nel merito l’accertamento induttivo, sicchè le censure devono essere disattese. Con il secondo motivo di impugnazione la ricorrente deduce l’omesso esame di fatti decisivi per il giudizio che sono stati oggetto di discussione tra le parti in relazione all’art. 360 comma 1 n. 5 c.p.c. Con il terzo motivo deduce la nullità della sentenza per violazione e falsa applicazione degli artt. 36 e 61 del D.lgs. 546/1992 e dell’art.132 c.p.c. in relazione all’art. 360 comma 1 n. 4 c.p.c. e in subordine omesso esame di fatti decisivi per il giudizio che sono stati oggetto di discussione tra le parti in relazione all’art. 360 comma 1 n. 5 c.p.c. Lamenta che la CTR aveva posto a base della sua decisione i tovaglioli più piccoli destinati all’attività di bar che erano invece stati esclusi dal calcolo e che la motivazione della sentenza era apparente in quanto non rendeva esplicito l’iter logico della decisione. Le censure sono suscettibili di trattazione congiunta. Esse non sono fondate. In disparte la circostanza che ciò che si denuncia sembra essere l’insufficiente o errata motivazione della sentenza, invece ai sensi dell’art. 360 primo comma n. 5 cod. proc. civ., riformulato dall’art. 54 del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv. in legge 7 agosto 2012, n. 134, il vizio specifico denunciabile per cassazione è relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario in ogni caso deve risultare dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che il fatto che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia). Ne consegue che, nel rigoroso rispetto delle previsioni degli artt. 366, primo comma, n. 6, e 369, secondo comma, n. 4, cod. proc. civ., il ricorrente deve indicare il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività”, fermo restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (Cass. Sez. U. n. 8053/2014 cit.). La riformulazione dell’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., disposta dall’art. 54 del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv. in legge 7 agosto 2012, n. 134, deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 delle preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione. Pertanto, è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione (Cass., Sez. U, Sentenza n. 8053 del 07/04/2014, Rv. 629830). La CTR ha valutato il fatto controverso e ha escluso che anche i tovaglioli di 1 velo di misura 33×33, in quanto molto leggeri non erano adatti all’attività di ristorazione, affermando che gli stessi erano utilizzati nella connessa attività di bar. La CTR ha quindi concluso che la disponibilità di tovaglioli quantificata (n.47.480), anche con l’abbattimento del 50% operato dall’ufficio non sarebbe stata ragionevole per un locale di circa 40 posti a sedere perché il numero dei pasti presunto avrebbe comportato che il locale doveva essere pieno a pranzo e cena”.

Corte di Cassazione – Ordinanza 31 marzo 2022, n. 10388
sul ricorso iscritto al n. 24899/2015 R.G. proposto da
Agenzia delle Entrate rappresentata e difesa ex lege dall’Avvocatura generale dello Stato presso i cui uffici è domiciliata in Roma, alla via dei Portoghesi, n.12.
– ricorrente –
Contro G. 3M s.r.l. in persona del legale rappresentante
– intimata –
per la cassazione della sentenza della Commissione tributaria regionale del Lazio n.5148/40/14 depositata in data 14.8.2014;
sentita la relazione svolta dal consigliere Rosaria Maria Castorina nella camera di consiglio del 12.11.2021.
Ritenuto in fatto
Con sentenza n.5148/40/14 depositata in data 14.8.2014 la Commissione Tributaria Regionale del Lazio respingeva l’appello proposto dall’Agenzia delle Entrate nei confronti di G. 3M s.r.l. esercente l’attività di ristorazione avverso la sentenza della Commissione Tributaria provinciale di Latina che aveva accolto il ricorso della contribuente su un avviso di accertamento con cui l’Ufficio, aveva accertato, ex art. 39 comma 1 lett. d) del DPR 600/1973 maggiori ricavi per l’anno di imposta 2003 sulla base delle presunzioni e delle ricostruzioni conseguenti all’applicazione del cd “tovagliometro ”.
La CTR affermava che la presunzione di ricavi non dichiarati, derivante dal calcolo dei tovaglioli utilizzati dall’attività di ristorazione rimaneva una presunzione semplice che non fondava legittimamente l’accertamento posto in essere.
Avverso la sentenza di appello l’Ufficio ha proposto ricorso per cassazione, affidato a quattro motivi.
La contribuente non ha spiegato difese.
Ragioni della decisione
1.Con il primo motivo la ricorrente deduce la violazione dell’art. 39 comma 1 lett. d) DPR 600/1973 nonché degli artt. 2697, 2727 e 2729 c.c. in relazione all’art. 360 comma 1 n. 3 c.p.c.
2. Con il quarto motivo formulato in subordine la ricorrente deduce la violazione dell’art. 39 comma 1 lett. d) DPR 600/1973 nonché degli artt. 2 e 35 comma 3 del D.lgs. 546/1992 e dell’art. 112, 115 e 277 c.p.c. in relazione all’art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c.
Lamenta che la CTR aveva erroneamente ritenuto non sussistenti le presunzioni necessarie a legittimare l’accertamento, senza indicare il modo in cui il calcolo avrebbe dovuto essere eseguito.
Le censure, suscettibili di trattazione congiunta non sono fondate anche se deve essere corretta la motivazione della sentenza impugnata.
L’accertamento con metodo analitico induttivo, con il quale l’Ufficio finanziario procede alla rettifica di componenti reddituali, è consentito ai sensi dell’art. 39 comma 1, lett. d) del d.P.R. n. 600/73, pure in presenza di contabilità formalmente tenuta, in quanto la disposizione presuppone scritture regolarmente tenute, che tuttavia appaiano contestabili in forza di valutazioni condotte sulla base di presunzioni gravi, precise e concordanti che facciano seriamente dubitare della completezza e della fedeltà della contabilità esaminata, sicché essa possa essere considerata, nel suo complesso inattendibile (cfr. Cass.n. 20857/07; n. 26341/07; n. 5731/12).
Nel caso di specie l’Ufficio aveva contestato la presunzione di ricavi non dichiarati derivante dal calcolo dei tovaglioli utilizzati dall’attività del ristorante sulla constatazione della irragionevole esiguità del reddito dichiarato e della non congruità dei ricavi al numero dei tovaglioli utilizzati.
La complessiva inattendibilità della contabilità aziendale, desumibile dai rilievi suesposti, era astrattamente idonea a legittimare l’accertamento induttivo, espletato dall’Ufficio sulla base dei criteri già approvati da questa Corte in occasione di altre pronunce (Cass. n. 8643/15 del 06/04/2007; n. 16048 del 29/7/2005 e n. 9884 delP8/7/2002);
in particolare, in tema di accertamento dei redditi d’impresa, con riguardo ad un’attività di ristorazione questa Corte ha affermato che, una volta calcolata la quantità normale di materie prime necessarie per la preparazione dei pasti, è ragionevole presumere che ne sia stato servito un numero pari al complesso dei generi alimentari acquistati, diviso per le quantità di essi occorrenti per ciascun pasto e che la mancata registrazione di consistenti ricavi sulla base dei piatti e delle bevande vendute in determinati anni, legittima l’ufficio finanziario a procedere all’accertamento ai sensi dell’art. 39, secondo comma, lettera d), del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, trattandosi di omissioni e falsità che per il loro numero e gravità minano la credibilità dell’intera documentazione contabile (Cass. 25001/2006).
Questa Corte ha altresì affermato la legittimità dell’accertamento nei confronti di un ristorante in cui l’ufficio che ha dedotto il reddito dalla quantità di materie prime (carne e pesce) acquistata o dal numero di tovaglioli lavati (Cass. 7 gennaio 1999, n.51; Cass.22 dicembre 1998 n. 12774 del e n. 12482 dell’11 dicembre 1998). Erroneamente quindi la CTR ha affermato che, poiché non erano emerse inesattezze o irregolarità nella dichiarazione, la presunzione di ricavi non dichiarati, derivante dal calcolo dei tovaglioli rimaneva una presunzione semplice che non poteva fondare l’accertamento induttivo posto in essere.
La CTR, tuttavia, ha in ogni caso, esaminato nel merito l’accertamento induttivo, sicchè le censure devono essere disattese.
3.Con il secondo motivo di impugnazione la ricorrente deduce l’omesso esame di fatti decisivi per il giudizio che sono stati oggetto di discussione tra le parti in relazione all’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c.
4. Con il terzo motivo deduce la nullità della sentenza per violazione e falsa applicazione degli artt. 36 e 61 del D.lgs. 546/1992 e dell’art.132 c.p.c. in relazione all’art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c. e in subordine omesso esame di fatti decisivi per il giudizio che sono stati oggetto di discussione tra le parti in relazione all’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c.
Lamenta che la CTR aveva posto a base della sua decisione i tovaglioli più piccoli destinati all’attività di bar che erano invece stati esclusi dal calcolo e che la motivazione della sentenza era apparente in quanto non rendeva esplicito l’iter logico della decisione.
Le censure sono suscettibili di trattazione congiunta.
Esse non sono fondate.
In disparte la circostanza che ciò che si denuncia sembra essere l’insufficiente o errata motivazione della sentenza, invece ai sensi dell’art. 360 primo comma n. 5 cod. proc. civ., riformulato dall’art. 54 del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv. in legge 7 agosto 2012, n. 134, il vizio specifico denunciabile per cassazione è relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario in ogni caso deve risultare dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che il fatto che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia).
Ne consegue che, nel rigoroso rispetto delle previsioni degli artt. 366, primo comma, n. 6, e 369, secondo comma, n. 4, cod. proc. civ., il ricorrente deve indicare il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività”, fermo restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (Cass. Sez. U. n. 8053/2014 cit.).
La riformulazione dell’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., disposta dall’art. 54 del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv. in legge 7 agosto 2012, n. 134, deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 delle preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione.
Pertanto, è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali.
Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione (Cass., Sez. U, Sentenza n. 8053 del 07/04/2014, Rv. 629830).
La CTR ha valutato il fatto controverso e ha escluso che anche i tovaglioli di 1 velo di misura 33×33, in quanto molto leggeri non erano adatti all’attività di ristorazione, affermando che gli stessi erano utilizzati nella connessa attività di bar.
La CTR ha quindi concluso che la disponibilità di tovaglioli quantificata (n.47.480), anche con l’abbattimento del 50% operato dall’ufficio non sarebbe stata ragionevole per un locale di circa 40 posti a sedere perché il numero dei pasti presunto avrebbe comportato che il locale doveva essere pieno a pranzo e cena.
Vero è che la CTR ha ritenuto erroneamente che ogni tovagliolo corrispondesse a un pasto. In realtà, come si evince dell’estratto dell’avviso riprodotto in ossequio dell’autosufficienza, l’amministrazione aveva contestato che al numero dei tovaglioli complessivi, quantificato con l’abbattimento del 50% (n. 23.715= n. 47.430/2) corrispondesse non un intero pasto ma una singola consumazione, tuttavia il fatto storico è stato esaminato, il percorso logico esplicitato in motivazione è perfettamente comprensibile e adeguatamente motivato e la sentenza si sottrae alla censura di legittimità.
Il ricorso deve essere, conseguentemente, rigettato.
Nulla sulle spese in assenza di costituzione di parte intimata.
Rilevato che risulta soccombente parte ammessa alla prenotazione a debito del contributo unificato per essere l’amministrazione pubblica difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, non si applica l’art. 13, comma 1- quater del d.P.R. 30 maggio 2012, n. 115.
PQM
Rigetta il ricorso.
Così deciso nella Camera di consiglio del 12 novembre 2021