CASSAZIONE EUROPA FISCALITA SENTENZE
Legittima la condanna del legale rappresentante della società alla quale sia stata già disposta la sanzione fiscale
Reati fiscali – Sanzioni tributarie – IVA – Violazione del principio del ne bis in idem – Presunzione – Sanzioni penali – Giurisprudenza Corte EDU
La Corte di Cassazione, con la Sentenza n. 25734 dell’11 giugno 2019 ha affermato il principio di diritto della mancata violazione del principio del ne bis in idem quando uno stesso illecito tributario abbia determinato la condanna in sede penale del legale rappresentante di una società già destinataria di comminatorie in sede tributaria.
Ricordiamo che con recente sentenza, la n. 35156 del 1° marzo 2017, la giurisprudenza della Corte rammentava che non sussiste violazione del principio del ne bis in idem laddove, a fronte dell’instaurazione del procedimento penale con correlativa condanna nei confronti di amministratore di persona giuridica (nella specie per reati tributari), la condanna sia stata invece disposta in via diretta nei confronti della persona giuridica stessa, difettando i presupposti per ravvisare una duplicazione di sanzioni nei confronti dello stesso soggetto a seguito delle medesime condotte, a fronte del connotato ineludibile della identità dei soggetti sanzionati.
Il principio del ne bis in idem è un principio generale di diritto (penale) presente in molti sistemi giuridici, talvolta riconosciuto quale principio di diritto costituzionale, come la clausola relativa al ne bis in idem che proibisce la doppia punizione contenuta nel Quinto Emendamento della Costituzione degli Stati Uniti d’America. In passato si è sostenuto che il principio del ne bis in idem trovasse applicazione soltanto a livello nazionale e che fosse limitato alla giustizia penale.
Il rapporto tra giudice nazionale e giudice comunitario/convenzionale ha acquisito negli ultimi anni un rilievo sempre maggiore, destinato peraltro ad accrescere in ragione della via via più forte incidenza del diritto sovranazionale sulla produzione e sull’interpretazione della legislazione interna.
Un nuovo parametro valutativo ha fatto recentemente breccia nella giurisprudenza della Corte EDU, grazie alla sentenza n. 24130/11 Grande Chambre, A e B c. Norvegia del 15 novembre 2016, dove la Grande Camera, pur non sconfessando la propria giurisprudenza consolidata sulle nozioni di materia penale e di idem factum, utilizza infatti in tale pronuncia una nuova chiave di valutazione per la verifica della sussistenza di una violazione del divieto di doppio giudizio nell’ordinamento interno di uno Stato membro, nel caso in cui a una sanzione amministrativa definitiva si affianchi un procedimento penale per lo stesso fatto, nei confronti della stessa persona: i procedimenti sanzionatori, penale e amministrativo, possono coesistere – si dice – qualora si ritenga tra loro una “connessione sostanziale e temporale sufficientemente stretta” (v. Cass., Sez. III, sent. 22 settembre 2017 n. 6993).
In sintesi, la direttiva 2014/57/UE e il regolamento n. 596/2014 indicano agli Stati membri un regime distinto di sanzioni, penali e amministrative, rapportato alla maggiore o minore gravità dei fatti, non escludendo peraltro che “conformemente al diritto nazionale” gli Stati, pur se non tenuti, possano “imporre sanzioni sia amministrative che penali per lo stesso reato… se il loro diritto nazionale lo consente”.
Nel sistema tributario nazionale la previsione espressa dell’autonomia e indipendenza del procedimento tributario e penale consente l’applicazione delle sanzioni tributarie, che non sono tuttavia eseguite in attesa dell’esito del processo penale. L’apparato normativo del D.Lgs. n. 74/2000 (artt. 19-21), pur avendo l’obiettivo di impedire una duplicazione di sanzioni in considerazione del rapporto di specialità tra la disposizione penale e tributaria può non evitare, tuttavia, la duplicazione dei procedimenti.
Da non dimenticare, per avere un campo più largo d’informazione, l’intervento della Consulta sulla questione relativa all’ammissibilità del doppio giudizio, penale e amministrativo, nei confronti del medesimo soggetto per lo stesso fatto tributario (V. sentenza n. 43 del 2 marzo 2018), ma all’esito dello scrutinio la Consulta ha restituito gli atti al giudice rimettente, dovendosi valutare la persistenza dei dubbi di legittimità alla luce dei più recenti arresti della giurisprudenza europea in tema di ne bis in idem.
Questione dunque ancora non completamente definita, in cui gli Ermellini hanno voluto dare un ulteriore contributo ritenendo che da una condotta illecita possono derivare due tipologie di sanzioni senza che per questo si possa invocare il ne bis in idem.
Nei fatti i Supremi giudici hanno affrontato un’evasione IVA pari a 256.000 euro, cifra oltre soglia e nella quale si è in presenza di un reato, ritenendo che si doveva applicare oltre alla sanzione amministrativa anche quella penale, in quanto: “… questa Corte di Cassazione ha chiarito che nelle ipotesi di non coincidenza tra l’imputato e chi ha ricevuto la sanzione amministrativa (in genere la società) non sussiste preclusione all’azione penale: «Non sussiste la preclusione all’esercizio dell’azione penale di cui all’art. 649 cod. proc. pen., quale conseguenza della già avvenuta irrogazione, per lo stesso fatto, di una sanzione formalmente amministrativa ma avente carattere sostanzialmente “penale” ai sensi dell’art. 4 del Protocollo n. 7 alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, allorquando non vi sia coincidenza fra la persona chiamata a rispondere in sede penale e quella sanzionata in via amministrativa. (In applicazione del principio, la Corte ha escluso la violazione del divieto di “bis in idem” con riferimento a persona imputata ai sensi dell’art. 10-ter d.lgs 10 marzo 2000, n. 74 per il mancato versamento dell’acconto IVA, fatto per il quale era stata inflitta sanzione amministrativa alla società cooperativa dello stesso soggetto legalmente rappresentata)» (Sez. 3, n. 23839 del 07/11/2017 – dep.28/05/2018, Passaro, Rv. 27310701; vedi anche Sez. 3, n. 24309 del 19/01/2017 – dep. 17/05/2017, Bernardoni, Rv. 27051501). Nel caso in giudizio l’imputato è il legale rappresentante della “S. Y. S. s.a.s.”; è la società il soggetto passivo delle sanzioni amministrative e, quindi, non può operare il divieto del secondo giudizio sanzionatorio, interessando (le sanzioni penali e quelle amministrative) soggetti diversi. 4. Relativamente alla particolare tenuità del fatto, la sentenza impugnata adeguatamente motiva, senza contraddizione e senza manifeste illogicità, rilevando come l’applicazione dell’art. 131 bis, cod. pen. deve essere valutata in rapporto alla condotta nel suo complesso, e non solo all’entità del tributo evaso, al di sopra della soglia di punibilità; nel caso di specie la Corte di appello rileva in concreto, con accertamento in fatto, insindacabile in sede di legittimità, che il «fatto resta significativo anche nei suoi effetti di danno all’erario, né la parte ha dedotto alcunché in merito a condotte riparatorie». Inoltre, «In tema omesso versamento di IVA, la causa di non punibilità della “particolare tenuità del fatto”, prevista dall’art. 131-bis cod. pen., è applicabile soltanto alla omissione per un ammontare vicinissimo alla soglia di punibilità, fissata a 250.000 euro dall’art. 10-ter D.Lgs. n. 74 del 2000, in considerazione del fatto che il grado di offensività che dà luogo a reato è già stato valutato dal legislatore nella determinazione della soglia di rilevanza penale. (In applicazione del principio, la Corte ha ritenuto non particolarmente tenue, sul piano oggettivo, l’omesso versamento di 270.703 euro)» (Sez. 3, n. 13218 del 20/11/2015 – dep. 01/04/2016, Reggiani Viani, Rv. 26657001) . Nel ricorso per cassazione l’imputato genericamente richiama solo l’entità della somma evasa al di sopra della soglia di punibilità, senza confrontarsi con le motivazioni della sentenza. 5. Del tutto generico è l’ulteriore motivo di ricorso, mancanza dell’elemento soggettivo del reato e omesso accertamento se, al momento del pagamento dell’imposta, il ricorrente fosse ancora il rappresentante legale. Anche per questo motivo si deve, tuttavia, rilevare l’assenza di prospettazione in sede di appello, con la conseguenza dell’inammissibilità in sede di legittimità. Comunque, il motivo risulta anche manifestamente infondato. Il reato previsto dall’art. 10-ter del D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, presuppone che il debito IVA risulti dalla dichiarazione del contribuente (Sez. 3, n. 38487 del 21/04/2016 – dep. 16/09/2016, Reale, Rv. 26801201), ma non è richiesto che sia la stessa persona fisica (legale rappresentante) a presentare la dichiarazione e ad omettere il pagamento. Con il ricorso il ricorrente esprime un dubbio soggettivo, ipotetico, scollegato da qualsiasi atto processuale (“potrei non essere io il legale rappresentante al momento del pagamento”), non dimostrato davanti al giudice di merito e, quindi, non può essere considerato dalla Corte di legittimità, in assenza di elementi probatori, non indicati nel ricorso e riferibili ad atti del processo (vedi espressamente Cassazione, Sez. 5, n. 18999 del 19/02/2014 – dep. 08/05/2014, C e altro, Rv. 260409: «La regola dell’ al di là di ogni ragionevole dubbio, secondo cui il giudice pronuncia sentenza di condanna solo se è possibile escludere ipotesi alternative dotate di razionalità e plausibilità, impone all’imputato che, deducendo il vizio di motivazione della decisione impugnata, intenda prospettare, in sede di legittimità, attraverso una diversa ricostruzione dei fatti, l’esistenza di un ragionevole dubbio sulla colpevolezza, di fare riferimento ad elementi sostenibili, cioè desunti dai dati acquisiti al processo, e non meramente ipotetici o congetturali»). 4. Anche sul dolo la motivazione della sentenza impugnata risulta adeguata e non contraddittoria o manifestamente illogica, perché rileva che per l’integrazione della fattispecie di reato in contestazione risulta sufficiente il dolo generico, ossia la coscienza e volontà di non versare all’Agenzia delle entrate l’IVA, senza alcuna deduzione contraria dell’imputato (ad esempio crisi di impresa non imputabile)”.

Corte di Cassazione – Sentenza 11 giugno 2019, n. 25734
Sul ricorso proposto da:
M. A. nato a MESSINA il 05/06/1960 avverso la sentenza del 01/06/2018 della CORTE APPELLO di MESSINA visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere ANGELO MATTEO SOCCI;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore ROBERTA MARIA BARBERINI che ha concluso chiedendo l’inammissibilità del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
1. La Corte d’Appello di Messina con sentenza del 1 giugno 2018 ha confermato la decisione del Tribunale di Messina del 4 luglio 2017, che aveva condannato A. M. alla pena di mesi 4 di reclusione per il reato di cui all’art. 10 ter, d. Igs. n. 74 del 2000, perché nella sua qualità di rappresentante legale della “S. Y. S. s.a.s.” non versava l’IVA dovuta, pari ad € 256.564,00 in base alla dichiarazione annuale 2010 per l’anno di imposta 2009.
2. L’imputato propone ricorso per cassazione, tramite il difensore, deducendo i motivi di seguito enunciati, nei limiti strettamente necessari per la motivazione, come disposto dall’art. 173, commal, disp. att., c.p.p. 2.
1. Violazione di legge (art. 4, Prot. N. 7, Cedu) per il divieto di un secondo giudizio.
L’Amministrazione finanziaria ha provveduto ad irrogare in via definitiva al contribuente le sanzioni fiscali previste dalla normativa tributaria; sanzioni oggi iscritte a ruolo.
Conseguentemente il giudice penale, in epoca successiva, non avrebbe potuto sanzionare penalmente il ricorrente già sottoposto a sanzione dall’amministrazione finanziaria (vedi Corte di Giustizia del 2 maggio 2018 causa C 574/15).
2. 2. Carenza e contraddittorietà della motivazione relativamente alla particolare tenuità del fatto.
La soglia di punibilità è di € 250.000,00 e nel caso in giudizio la stessa è stata superata di soli € 6.664,00, quindi, avrebbe dovuto applicarsi l’art. 131 bis cod. pen.
La sentenza impugnata esclude l’applicazione dell’art. 131 bis, cod. pen. con motivazione contraddittoria poiché riferita alla soglia di punibilità; orbene se non si fosse superata la soglia di punibilità il fatto non sarebbe reato, conseguentemente il limitato superamento per pochi C doveva essere valutato per l’applicazione della particolare tenuità del fatto. All’imputato, inoltre, sono state riconosciute anche le circostanze attenuanti generiche.
2. 3. Violazione di legge (art. 10 ter, d.lgs. 74/2000, 27 e 11 della Costituzione, art. 530, comma 2, cod. proc. pen.) relativamente all’accertamento dell’elemento soggettivo del reato.
L’accusa non ha fornito prova certa della commissione del reato e della riferibilità al ricorrente.
Nessun accertamento, infatti, è stato effettuato relativamente alla effettività della carica di rappresentante legale, da parte del ricorrente, al momento della consumazione del reato.
La sola lettura del Modello Unico 2010 non è sufficiente al fine di individuare l’autore del fatto-reato, in quanto lo stesso viene inoltrato prima della effettiva consumazione del reato di omissione del pagamento dell’IVA.
Nessuna prova sussiste relativamente al fatto che, al momento della consumazione del reato, fosse il ricorrente il legale rappresentante della società. Ha chiesto quindi l’annullamento della decisione impugnata.
CONSIDERATO IN DIRITTO
3. Il ricorso è inammissibile per genericità e manifesta infondatezza dei motivi; inoltre il motivo del doppio trattamento sanzionatorio, fiscale e penale, non è stato proposto in appello, e così anche l’ulteriore motivo della violazione di legge relativamente all’accertamento dell’elemento soggettivo del reato (relativo, cioè, alla considerazione dell’assenza di prove che al momento del pagamento dell’IVA il ricorrente fosse ancora il rappresentante legale della società).
3. 1. Il motivo del divieto del doppio trattamento sanzionatorio, prima fiscale e poi penale, non risulta proposto in sede di motivi d’appello, con la conseguenza che in sede di legittimità è inammissibile: «Non possono essere dedotte con il ricorso per cassazione questioni sulle quali il giudice di appello abbia correttamente omesso di pronunziarsi perché non devolute alla sua cognizione» (Sez. 2, n. 13826 del 17/02/2017 – dep. 21/03/2017, Bolognese, Rv. 26974501).
Conseguentemente nessun vizio della sentenza sussiste.
Del resto era onere del ricorrente contestare l’elencazione dei motivi di appello effettuata dalla sentenza e allegare i relativi atti, per il principio della specificità del ricorso – o autosufficienza: «E inammissibile, per difetto di specificità del motivo, il ricorso per cassazione con cui si deducano violazioni di legge verificatesi nel giudizio di primo grado, se l’atto non procede alla specifica contestazione del riepilogo dei motivi di appello contenuto nella sentenza impugnata, qualora questa abbia omesso di indicare che l’atto di impugnazione proposto avverso la decisione del primo giudice aveva anch’esso già denunciato le medesime violazioni di legge» (Sez. 2, n. 9028 del 05/11/2013 – dep. 25/02/2014, Carrieri, Rv. 25906601).
3. 2. Comunque, il motivo risulta, anche, manifestamente infondato, in quanto questa Corte di Cassazione ha chiarito che nelle ipotesi di non coincidenza tra l’imputato e chi ha ricevuto la sanzione amministrativa (in genere la società) non sussiste preclusione all’azione penale: «Non sussiste la preclusione all’esercizio dell’azione penale di cui all’art. 649 cod. proc. pen., quale conseguenza della già avvenuta irrogazione, per lo stesso fatto, di una sanzione formalmente amministrativa ma avente carattere sostanzialmente “penale” ai sensi dell’art. 4 del Protocollo n. 7 alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, allorquando non vi sia coincidenza fra la persona chiamata a rispondere in sede penale e quella sanzionata in via amministrativa. (In applicazione del principio, la Corte ha escluso la violazione del divieto di “bis in idem” con riferimento a persona imputata ai sensi dell’art. 10-ter d.lgs 10 marzo 2000, n. 74 per il mancato versamento dell’acconto IVA, fatto per il quale era stata inflitta sanzione amministrativa alla società cooperativa dello stesso soggetto legalmente rappresentata)» (Sez. 3, n. 23839 del 07/11/2017 – dep.28/05/2018, Passaro, Rv. 27310701; vedi anche Sez. 3, n. 24309 del 19/01/2017 – dep. 17/05/2017, Bernardoni, Rv. 27051501).
Nel caso in giudizio l’imputato è il legale rappresentante della “S. Y. S. s.a.s.”; è la società il soggetto passivo delle sanzioni amministrative e, quindi, non può operare il divieto del secondo giudizio sanzionatorio, interessando (le sanzioni penali e quelle amministrative) soggetti diversi.
4. Relativamente alla particolare tenuità del fatto, la sentenza impugnata adeguatamente motiva, senza contraddizione e senza manifeste illogicità, rilevando come l’applicazione dell’art. 131 bis, cod. pen. deve essere valutata in rapporto alla condotta nel suo complesso, e non solo all’entità del tributo evaso, al di sopra della soglia di punibilità; nel caso di specie la Corte di appello rileva in concreto, con accertamento in fatto, insindacabile in sede di legittimità, che il «fatto resta significativo anche nei suoi effetti di danno all’erario, né la parte ha dedotto alcunché in merito a condotte riparatorie».
Inoltre, «In tema omesso versamento di IVA, la causa di non punibilità della “particolare tenuità del fatto”, prevista dall’art. 131-bis cod. pen., è applicabile soltanto alla omissione per un ammontare vicinissimo alla soglia di punibilità, fissata a 250.000 euro dall’art. 10-ter D.Lgs. n. 74 del 2000, in considerazione del fatto che il grado di offensività che dà luogo a reato è già stato valutato dal legislatore nella determinazione della soglia di rilevanza penale. (In applicazione del principio, la Corte ha ritenuto non particolarmente tenue, sul piano oggettivo, l’omesso versamento di 270.703 euro)» (Sez. 3, n. 13218 del 20/11/2015 – dep. 01/04/2016, Reggiani Viani, Rv. 26657001) .
Nel ricorso per cassazione l’imputato genericamente richiama solo l’entità della somma evasa al di sopra della soglia di punibilità, senza confrontarsi con le motivazioni della sentenza.
5. Del tutto generico è l’ulteriore motivo di ricorso, mancanza dell’elemento soggettivo del reato e omesso accertamento se, al momento del pagamento dell’imposta, il ricorrente fosse ancora il rappresentante legale.
Anche per questo motivo si deve, tuttavia, rilevare l’assenza di prospettazione in sede di appello, con la conseguenza dell’inammissibilità in sede di legittimità.
Comunque, il motivo risulta anche manifestamente infondato.
Il reato previsto dall’art. 10-ter del D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, presuppone che il debito IVA risulti dalla dichiarazione del contribuente (Sez. 3, n. 38487 del 21/04/2016 – dep. 16/09/2016, Reale, Rv. 26801201), ma non è richiesto che sia la stessa persona fisica (legale rappresentante) a presentare la dichiarazione e ad omettere il pagamento.
Con il ricorso il ricorrente esprime un dubbio soggettivo, ipotetico, scollegato da qualsiasi atto processuale (“potrei non essere io il legale rappresentante al momento del pagamento”), non dimostrato davanti al giudice di merito e, quindi, non può essere considerato dalla Corte di legittimità, in assenza di elementi probatori, non indicati nel ricorso e riferibili ad atti del processo (vedi espressamente Cassazione, Sez. 5, n. 18999 del 19/02/2014 – dep. 08/05/2014, C e altro, Rv. 260409: «La regola dell’ al di là di ogni ragionevole dubbio, secondo cui il giudice pronuncia sentenza di condanna solo se è possibile escludere ipotesi alternative dotate di razionalità e plausibilità, impone all’imputato che, deducendo il vizio di motivazione della decisione impugnata, intenda prospettare, in sede di legittimità, attraverso una diversa ricostruzione dei fatti, l’esistenza di un ragionevole dubbio sulla colpevolezza, di fare riferimento ad elementi sostenibili, cioè desunti dai dati acquisiti al processo, e non meramente ipotetici o congetturali»).
4. Anche sul dolo la motivazione della sentenza impugnata risulta adeguata e non contraddittoria o manifestamente illogica, perché rileva che per l’integrazione della fattispecie di reato in contestazione risulta sufficiente il dolo generico, ossia la coscienza e volontà di non versare all’Agenzia delle entrate l’IVA, senza alcuna deduzione contraria dell’imputato (ad esempio crisi di impresa non imputabile).
Il ricorso, del resto, non contiene effettivi motivi di legittimità nei confronti della motivazione della sentenza impugnata, limitandosi a prospettare l’assenza di prove relative alla sua qualifica di rappresentante legale al momento del pagamento dell’IVA.
Alla dichiarazione di inammissibilità consegue il pagamento in favore della Cassa delle ammende della somma di € 2.000,00, e delle spese del procedimento, ex art 616 cod. proc. pen.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di € 2.000,00.
Così deciso il 26/02/2019