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Le società di comodo e il diritto della detrazione dell’IVA

Tributi  – IRES, IRAP e IVA – Art. 30, legge 724/1994 – Presunzione di reddito minimo – Onere probatorio – Causa di esclusione della presunzione di non operatività delle società di comodo – Avvisi di accertamento –  Prestazioni dichiarate come non imponibili – Detrazione IVA – Diritto – Perdita – Giustizia europea

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 7137 del 17 marzo 2025 si è pronunciata sulla rilevanza della disciplina delle società di comodo in ordine alla detrazione dell’IVA e, nell’illustrare le sovrastanti interpretazioni della Corte di giustizia europea, ha riportato il seguente principio di diritto: “… L’art. 30, L. 794 del 1994, ai fini IVA, va disapplicato, non potendosi far derivare la privazione del diritto di detrazione dall’entità delle operazioni realizzate dalla contribuente ma solo ove la situazione sia riconducibile ad una frode o ad un abuso, alla luce degli stessi principi affermati dalla Corte unionale”. In sintesi, se la negazione della detrazione non è giustificata da una reale condotta fraudolenta o abusiva, si tratterebbe di una violazione dei principi fondamentali del sistema IVA dell’Unione europea.

In sostanza gli Ermellini oggi chiariscono che l’art. 30 della legge 794/1994, se interpretato in modo da negare il diritto alla detrazione IVA basandosi esclusivamente sull’entità delle operazioni svolte dal contribuente, deve essere disapplicato, perché si pone in contrasto con l’art. 9, par. 1 e l’art. 167 della direttiva 2006/112/CE, deve pertanto essere disapplicato dal giudice nazionale.

La qualità di soggetto passivo IVA non può essere negata a una società che effettui operazioni rilevanti ai fini IVA il cui valore economico non raggiunga la soglia di reddito fissata dalla normativa nazionale, in quanto tale qualifica deriva esclusivamente dall’esercizio di un’attività economica, indipendentemente dallo scopo o dai risultati.

Il diritto alla detrazione dell’IVA assolta a monte costituisce un principio fondamentale del sistema comune IVA, che non può essere limitato e che si esercita immediatamente per l’intero importo, purché sussista un nesso diretto e immediato tra operazioni a monte e a valle, o quantomeno con il complesso dell’attività economica del soggetto passivo.

Tale diritto può essere negato solo qualora sia dimostrato, sulla base di elementi oggettivi, che è invocato fraudolentemente o abusivamente, non potendo le misure anti-elusione adottate dagli Stati membri eccedere quanto necessario per contrastare frodi ed evasioni, né mettere sistematicamente in discussione il principio di neutralità dell’IVA.

La perdita del diritto alla detrazione IVA prevista per le società non operative, che per tre periodi d’imposta consecutivi non effettuino operazioni rilevanti superiori alla soglia di legge, contrasta con i principi unionali, non potendo il diritto a detrazione essere subordinato al raggiungimento di determinate soglie di fatturato.

Conseguentemente, il principio di detrazione che si riverbera nel diritto di riporto a nuovo o di rimborso del credito IVA, non può essere sovrastato dalla inoperatività del soggetto: la Corte di giustizia Ue (sent. 29 febbraio 1996, C-110/94 “Inzo”) ha spiegato che salvo nei casi di situazioni fraudolente o abusive, la qualità di soggetto passivo IVA non può essere revocata con effetto retroattivo, qualora in considerazione dei risultati delle indagini di mercato svolte preliminarmente non si decida di passare alla fase operativa e di mettere in liquidazione alla società, di modo che l’attività economica prevista non viene a generare operazioni imponibili ai fini IVA.

Ancora, sempre per il giudice europeo (sentenza 15 gennaio 1998, causa C-37/95 “Ghent Coal Terminal”), la prospettiva del ribaltamento a valle delle operazioni imponibili, quale elemento giustificativo della detrazione IVA a monte, non dev’essere intesa come presupposto indefettibile del diritto del riporto a nuovo o del rimborso dell’eccedenza dell’IVA, in quanto per la Corte Ue (testualmente): “… Il diritto alla detrazione rimane acquisito qualora, a causa di circostanze estranee alla sua volontà, il soggetto agente non abbia mai fatto uso dei suddetti beni e servizi (sui quali ha operato il diritto della detrazione iva) per realizzare operazioni imponibili”.

Quindi, se la società documenta con un’istanza di interpello che esistono validi motivi oggettivi per la scarsa operatività, può ottenere la disapplicazione della disciplina.

La Suprema Corte, infatti, ricorda in proposito che: “…10. Invero, il diritto di detrazione va riconosciuto se: a) nel corso del periodo d’imposta controverso, in relazione al quale l’autorità tributaria ha reputato la società non operativa, la stessa abbia effettivamente esercitato un’attività economica (indipendentemente dallo scopo o dai risultati), intesa come comprensiva di ogni attività di produzione, commercializzazione o prestazione di servizi, per ricavarne introiti aventi carattere di stabilità; b) la società medesima abbia impiegato i beni e servizi acquistati per le sue operazioni soggette ad imposta, e ciò indipendentemente dai risultati delle attività economiche; c) le operazioni non si inseriscano in una frode o non integrino, ai fini unionali, un abuso, inteso anche, come si esprime la sentenza della CGUE (v. par. 33-36), quale «realizzazione di una costruzione artificiosa». Se l’art. 30 l. n. 724 del 1994 va disapplicato, non potendosi far derivare la privazione del diritto di detrazione dall’entità delle operazioni realizzate dalla contribuente ma solo ove la situazione sia riconducibile ad una frode o ad un abuso, alla luce degli stessi principi affermati dalla Corte unionale, il motivo deve essere accolto nei predetti termini, relativamente al credito IVA, con conseguenza cassazione della sentenza in parte qua e rinvio alla Corte di giustizia di secondo grado” (v. Cass. Sent. n. 4151/2025).

Tanto premesso e tornando alla discussione odierna, essa ha inizio quando a seguito di una verifica fiscale venivano emessi nei confronti di una società contribuente avvisi di accertamento con cui si chiedeva il recupero di IRES, IRAP e IVA e irrogazione delle relative sanzioni. La società contribuente, rivolgendosi alla giustizia tributaria, proponeva distinti ricorsi e tutti respinti dalla CTP. La CTR annullava l’avviso di accertamento ai fini IRES e IRAP per l’anno 2004, annullava l’applicazione della sanzione e rigettava nel resto l’appello, con conseguente legittimità dei restanti provvedimenti impugnati.

Contro tale sentenza proponeva ricorso per cassazione la società, sulla base di un motivo in cui essenzialmente rilevava la nullità della sentenza per violazione e falsa applicazione degli artt. 42, DPR 600/1973 e 56, DPR 633 del 1972, e dell’art. 30 della legge 724/1994, deducendo un errato apprezzamento degli elementi per ritenere non operativa la società, sia ai fini del calcolo del reddito minimo, sia per la perdita del credito IVA.

L’Agenzia delle entrate resisteva con controricorso e proponeva ricorso incidentale affidato a due motivi. La Suprema Corte ha invece affermato che: “… 2.3. Nell’ultima parte del motivo il ricorrente censura l’applicazione del comma 4 dell’art. 30 della l. n. 724 del 1994 e cioè la fattispecie preclusiva del riporto della perdita, integrata da tre anni di non operatività e dal mancato compimento di operazioni rilevanti a fini Iva. La censura è fondata nei termini che seguono. Con specifico riferimento all’Iva, alla ritenuta presunzione di inoperatività consegue, per effetto della l. n. 724 del 1994, art. 30, citato comma 4, che il soggetto passivo è privato del diritto di chiedere il rimborso dell’eccedenza di credito risultante dalla dichiarazione ovvero di utilizzare tale eccedenza in compensazione orizzontale o di cederla a terzi, residuando unicamente il diritto di riportarla a scomputo dell’Iva a debito relativa ai periodi di imposta successivi. In base alla medesima disposizione il diritto a riportare tale eccedenza a scomputo dell’Iva a debito relativa ai periodi di imposta successivi è, tuttavia, negato qualora per tre periodi di imposta consecutivi la società o l’ente non operativo non effettui operazioni rilevanti ai fini dell’imposta sul valore aggiunto non inferiore all’importo che risulta dalla applicazione delle percentuali previste per il test di operatività. Occorre sul punto dare conto del recente intervento della giurisprudenza unionale sulla disposizione in esame (Corte giustizia Unione Europea Sez. III, 07/03/2024, n. 341/2022) che ha affermato che: a) l’art. 9, paragrafo 1, della direttiva 2006/112/CE del Consiglio, del 28 novembre 2006, relativa al sistema comune d’imposta sul valore aggiunto, deve essere interpretato nel senso che esso non può condurre a negare la qualità di soggetto passivo dell’imposta sul valore aggiunto (IVA) al soggetto che, nel corso di un determinato periodo d’imposta, effettui operazioni rilevanti ai fini dell’IVA il cui valore economico non raggiunge la soglia fissata da una normativa nazionale, la quale soglia corrisponde ai ricavi che possono ragionevolmente attendersi dalle attività patrimoniali di cui tale persona dispone; b) l’art.167 della direttiva 2006/112 nonché i principi di neutralità dell’IVA e di proporzionalità devono essere interpretati nel senso che essi ostano a una normativa nazionale in forza della quale il soggetto passivo è privato del diritto alla detrazione dell’IVA assolta a monte, a causa dell’importo, considerato insufficiente, delle operazioni rilevanti ai fini dell’IVA effettuate da tale soggetto passivo a valle. Ciò posto,come già evidenziato da questa Corte (Cass. 6/08/2024, n. 22249; Cass. 11/09/2024, nn.24416 e 244 4 2) , la Corte di giustizia ha altresì affermato: 1) «l’articolo 9, paragrafo 1, della direttiva IVA deve essere interpretato nel senso che esso non può condurre a negare la qualità di soggetto passivo IVA al soggetto che, nel corso di un determinato periodo d’imposta, effettui operazioni rilevanti ai fini dell’IVA il cui valore economico non raggiunge la soglia fissata da una normativa nazionale, la quale soglia corrisponde ai ricavi che possono ragionevolmente attendersi dalle attività patrimoniali di cui tale persona dispone» (par. 25) posto che per determinare la qualità di soggetto passivo rileva «esclusivamente il fatto che detta persona eserciti effettivamente un’attività economica e … sfrutti un bene materiale o immateriale per ricavarne introiti aventi carattere di stabilità» (par. 23); 2) «nessuna disposizione della direttiva IVA subordina il diritto a detrazione al requisito che l’importo delle operazioni rilevanti ai fini dell’IVA, effettuate a valle da un soggetto passivo nel corso di un determinato periodo, raggiunga una certa soglia» e, anzi, al contrario, «il diritto alla detrazione dell’IVA è garantito, purché ricorrano le condizioni richieste … indipendentemente dai risultati delle attività economiche del soggetto passivo interessato» (par. 31), fatta salva l’ipotesi in cui ricorra una frode o un abuso del diritto(come delineati dai par. da 33 a 36 della sentenza); 3) l’art. 30 della legge n. 724/1994 assolve alla funzione di disincentivare le evasioni e, a tal fine, si basa sulla presunzione per cui, quando l’importo delle operazioni effettuate a valle da una società in un determinato periodo d’imposta non raggiunge una soglia (calcolata applicando i criteri previsti dalla norma), la società non è operativa salvo che essa «non riesca a dimostrare che elementi oggettivi giustificano l’impossibilità di raggiungere la soglia» (par. 38), da cui l’impossibilità di esercitare il diritto di detrazione; 4) tuttavia, tale presunzione, si fonda «su un criterio, quello di una soglia di ricavi, che è estraneo a quelli richiesti ai fini della dimostrazione di un’evasione o di un abuso» poiché prescinde da una valutazione «della realtà effettiva delle operazioni rilevanti ai fini IVA» ed è ancorata solo al parametro della «valutazione del volume» degli affari (par. 39), sicché essa «eccede quanto necessario per conseguire l’obiettivo di prevenire le evasioni e gli abusi» (par. 42). Invero, il diritto di detrazione va riconosciuto se: a) nel corso del periodo d’imposta controverso, in relazione al quale l’autorità tributaria ha reputato la società non operativa, la stessa abbia effettivamente esercitato un’attività economica (indipendentemente dallo scopo o dai risultati), intesa come comprensiva di ogni attività di produzione, commercializzazione o prestazione di servizi, per ricavarne introiti aventi carattere di stabilità; b) la società medesima abbia impiegato i beni e servizi acquistati per le sue operazioni soggette ad imposta, e ciò indipendentemente dai risultati delle attività economiche; c) le operazioni non si inseriscano in una frode o non integrino, ai fini unionali, un abuso, inteso anche, come si esprime la sentenza della CGUE (v. par. 33-36), quale « realizzazione di una costruzione artificiosa». Se l’art. 30 l. n. 724 del 1994 va disapplicato, non potendosi far derivare la privazione del diritto di detrazione dall’entità delle operazioni realizzate dalla contribuente ma solo ove la situazione sia riconducibile ad una frode o ad un abuso, alla luce degli stessi principi affermati dalla Corte unionale, il motivo deve essere accolto nei predetti termini, relativamente al credito IVA , con conseguenza cassazione della sentenza in parte quae rinvio alla Corte di giustizia di secondo grado”.

Corte di Cassazione – Sentenza 17 marzo 2025, n. 7137

sul ricorso iscritto al n.6417/20 19 R.G. proposto da:

S. S.R.L., in persona del l.r.p.t., società incorporante la società P. s.r.l., già rappresentata e difesa dall’avv. Angelo Scala, in forza di procura a margine del ricorso, già elettivamente domiciliata presso l’avv. Alessandro Izzo in Roma alla via GP da Palestrina n. 55;

– ricorrente –

contro AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del l.r. pro tempore, domiciliata in Roma alla via dei Portoghesi n. 12 presso l’Avvocatura Generale dello Stato, dalla quale è rappresentata e difesa ope legis;

 – controricorrente e ricorrente incidentale –

avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della Toscana n. 1365/2018 pubblicata in data 9/07/2018, non notificata;

udita la relazione della causa svolta nella udienza pubblica del 13/12/2024 dal consigliere dott. Federico Lume;

udito il PM, in persona del sostituto Procuratore generale dott. Aldo Ceniccola, che ha concluso per il rigetto del ricorso principale e di quello incidentale;

udito l’avv. Lucrezia Fiandaca per l’Avvocatura Generale dello Stato.

Fatti di causa

1. A seguito di verifica fiscale effettuata dall’Ufficio antifrode della Direzione regionale della Toscana dell’Agenzia delle entrate, la Direzione provinciale di Lucca emetteva nei confronti di S. s.r.l., quale incorporante della società P. S.r.l. , avvisi di accertamento con cui recuperava Ires, Irap e Iva per gli anni di imposta 2004, 2006, 2007, 2008, nonché provvedimento di irrogazione delle sanzioni. In particolare, per il 2004, l’Agenzia, stante l’assenza di documentazione contabile, recuperava a fini Ires e Irap, componenti positivi di reddito non imputati a conto economico, per euro 126.954,00, e, a fini Iva, assoggettava ad imposta le prestazioni dichiarate come non imponibili, alla luce della mancanza di prova della non imponibilità;

per l’anno 2006 , l’ufficio evidenziava che la società P. s.r.l. aveva emesso un’unica fattura, il 30/11/2006, nei confronti di U. S.r.l. per la somma di euro 12.500,00, per assistenza nel campo del trasporto e indicazione dei nominativi di autisti;

tale fattura non trovava alcun riscontro probatorio per cui la prestazione era da ritenersi inesistente;

poiché la P. S.r.l. non aveva compiuto altre operazioni nel 2006 ed era completamente inattiva nel 2005, 2007 e 2008 , l ‘ufficio procedeva ad accertare il reddito annuo minimo, ai sensi dell’art. 30 della l. n. 724 del 1994, della società per gli anni 2006,2007 e 2008 in base al valore del patrimonio; per l’anno 2008 inoltre annullava un credito Iva di euro 468.505,00 essendo maturato un triennio di inattività, ai sensi dell’art. 30,comma 4, della l. n. 724/1994.

Infine, irrogava le sanzioni.

2. Contro tali avvisi la S. s.r.l. proponeva distinti ricorsi poi riuniti e tutti respinti dalla Commissione tributaria provinciale di Lucca (CTP).

3. La Commissione tributaria regionale della Toscana (CTR), parzialmente riformando la sentenza di primo grado, annullava l’avviso di accertamento ai fini Ires e Irap per l’anno 2004, annullava l’applicazione della sanzione per mancata presentazione dell’istanza di disapplicazione delle norme in merito alle società non operative, e rigettava nel resto l’appello, con conseguente legittimità dei restanti provvedimenti impugnati. In particolare, per quanto riguarda l’anno 2004, riteneva che non sussistessero le condizioni per il raddoppio dei termini per l’accertamento in connessione all’ipotesi del reato di occultamento della contabilità,ritenendo condivisibile la tesi che l’indicazione in contabilità di operazioni non imponibili fosse il frutto di un mero errore di trascrizione, il che lasciava ritenere che non sussistessero elementi sufficienti per presumere la sussistenza di un reato.

In merito alla ritenuta inesistenza della operazione fatturata per euro 12.500,00 nel 2006, la CTR osservava che i molteplici elementi indiziari dedotti dall’ufficio, non smentiti da alcuna prova contraria prodotta dalla società contribuente, deponevano nel senso che si trattasse di una fattura per operazione inesistente: sia la P. s.r.l. che la U. s.r.l. erano del tutto inattive;

inoltre, mancava qualsiasi elemento documentale che confermasse la veridicità della prestazione;

era estremamente improbabile che il legale rappresentante della società, persona ultraottantenne, potesse aver concretamente effettuato direttamente la prestazione, mancando ogni altro collaboratore della società;

non vi erano riscontri contabili presso la società destinataria della prestazione e mancavano gli importi corrispondenti alle prestazioni nelle movimentazioni bancarie.

Dalla confermata inesistenza della prestazione in questione,unica presente nella documentazione contabile aziendale, derivava automaticamente che anche per il 2006 la società P. s.r.l. era stata inattiva come nel 2007 e 2008 per cui era corretta la ripresa del reddito minimo per tali anni, risultando altresì corretto il conteggio effettuato dall’ufficio per la determinazione della redditività teorica, e altresì corretta era la perdita del diritto al rimborso dell’IVA  a credito residua.

4. Contro tale sentenza propone ricorso per cassazione la società sulla base di un motivo.

L’Agenzia delle entrate resiste con controricorso e propone ricorso incidentale affidato a due motivi.

Il ricorso è stato fissato per l’udienza pubblica del 7 giugno 2024 e poi per la nuova udienza del 13 dicembre 2024 , per la quale il PM , in persona del sostituto Procuratore generale dott. Aldo Ceniccola, ha depositato conclusioni scritte per il rigetto di entrambi i ricorsi.

Ragioni della decisione

1. Occorre premettere che a seguito della cancellazione dell’originario difensore dall’albo degli avvocati, la causa è stata rinviata a nuovo ruolo con comunicazione effettuata alla società in persona del liquidatore p.t. (Cass.,Sez. U., 14/11/2017, n. 26856 ha infatti statuito che nel procedimento di cassazione è invalida la comunicazione dell’avviso di fissazione di udienza nei confronti del difensore cancellatosi dall’albo in quanto indirizzata ad un soggetto non più abilitato a riceverla perché privo di jus postulandi).

2. Con il proprio unico motivo d’impugnazione, proposto in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., la società ricorrente deduce nullità della sentenza per violazione e falsa applicazione degli artt. 42, d.P.R. n. 600 del 1973 e 56, d.P.R. n. 633 del 1972, e dell’art. 30 della l. n. 724 del 1994.

In primo luogo la ricorrente deduce l’erroneità della decisione con cui la CTR ha ritenuto inesistente l’operazione fatturata nel 2006, evidenziando che la P. s.r.l. aveva svolto attività di autotrasporto merci per conto terzi negli anni 2002 e 2003 e quindi era in grado, nel 2006, di svolgere la prestazione fatturata, consistente nella indicazione dei nominativi di autisti;

che per tale prestazione non era obbligatoria alcuna forma contrattuale;

che per la sua esecuzione non occorreva alcuna complessa organizzazione aziendale;

che il pagamento era stato parzialmente riscontrato e che quindi le motivazioni addotte dall’ufficio si sostanziano in ragionamenti presuntivi privi di elementi oggettivi.

Con una seconda censura, deduce altresì un errato apprezzamento degli elementi per ritenere non operativa la società, ciò tanto ai fini del calcolo del reddito minimo quanto della perdita del credito IVA.

2.1. Il motivo è inammissibile laddove, nella sua prima parte, censura la statuizione con cui la CTR ha ritenuto inesistente l’unica operazione fatturata nel 2006.

In primo luogo, infatti, tale censura, contenuta nel corpo del motivo, è formulata direttamente nei confronti dell’avviso di accertamento e del comportamento dell’ufficio, non prendendo pienamente in considerazione gli elementi descritti dalla CTR, del resto apparentemente delineando un vizio di motivazione dell’avviso (nella rubrica è denunciata infatti la violazione degli artt. 42, d.P.R. n. 600 del 1973 e 56, d.P.R. n. 633 del 1972, disposizioni regolative – della forma e motivazione – degli accertamenti in tema di imposte dirette e Iva), questione che, se anche proposta nel giudizio di merito, appare assorbita dall’ampia motivazione della CTR sul merito della ripresa, e quindi sulle numerose circostanze indiziarie evidenziate dall’ufficio e non smentite con adeguato supporto probatorio dalla parte ricorrente.

In secondo luogo, il motivo è comunque evidentemente inammissibile laddove censura gli apprezzamenti fattuali della CTR, peraltro senza alcun riferimento a disposizioni in tema di vizio di motivazione o di prova presuntiva; il che è evidentemente inammissibile nel ricorso per cassazione, ove non si può rimettere in discussione, contrapponendone uno difforme, l’apprezzamento in fatto dei giudici del merito, tratto dall’analisi degli elementi di valutazione disponibili ed in sé coerente, atteso che l’apprezzamento dei fatti e delle prove è sottratto al sindacato di legittimità, in quanto, nell’ambito di quest’ultimo, non è conferito il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico formale e della correttezza giuridica, l’esame e la valutazione del giudice di merito, a cui resta riservato di individuare le fonti del proprio convincimento e, all’uopo, di valutare le prove, controllarne attendibilità e concludenza e scegliere, tra esse, quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione (da ultimo Cass. 22/11/2023 , n. 32505; Cass.19/07/2021, n. 20553).

2.2. Con una seconda censura, la ricorrente deduce un errato apprezzamento degli elementi per ritenere non operativa la società, nel 2006, 2007 e 2008, sia ai fini dei redditi attribuiti alla società che in relazione al credito Iva, contestando anche il presupposto del triennio di non operatività, previsto dal quarto comma dell’art. 30 della l. n. 724 del 1994;

deduce infatti, sotto un primo profilo, che occorreva tener conto dei ricavi contabilizzati nel conto economico e quindi anche dell’indicazione della somma di euro 12.500,00, oggetto della ritenuta inesistenza, essendo irrilevante il profilo fiscale; e, sotto un secondo profilo, che l’ufficio avrebbe errato nel ritenere sussistenti immobilizzazioni negli anni 2005 e 2006, in base al dato del bilancio al 31/12/2004, laddove invece il bilancio del 2007 ne attestava la inesistenza.

La censura è infondata laddove deduce che i ricavi fatturati nel 2006, per la somma di euro 12.500,00, avrebbero dovuto essere comunque considerati ai fini del test di operatività, poiché laddove la disposizione considera rilevanti i ricavi risultanti dal conto economico, esclusi quelli straordinari, deve ritenersi faccia riferimento a ricavi realmente esistenti, mentre nel caso di specie la CTR ha ritenuto che si trattasse di operazioni oggettivamente inesistenti.

Tale censura è inoltre inammissibile in riferimento alla ricostruzione dell’esistenza o meno di immobilizzazioni, questione di fatto evidentemente dipendente dalla lettura del complessivo quadro probatorio, insuscettibile di essere dedotta sub specie di violazione di legge.

2.3. Nell’ultima parte del motivo il ricorrente censura l’applicazione del comma 4 dell’art. 30 della l. n. 724 del 1994 e cioè la fattispecie preclusiva del riporto della perdita, integrata da tre anni di non operatività e dal mancato compimento di operazioni rilevanti a fini Iva.

La censura è fondata nei termini che seguono.

Con specifico riferimento all’IVA, alla ritenuta presunzione di inoperatività consegue, per effetto della l. n. 724 del 1994, art. 30, citato comma 4, che il soggetto passivo è privato del diritto di chiedere il rimborso dell’eccedenza di credito risultante dalla dichiarazione ovvero di utilizzare tale eccedenza in compensazione orizzontale o di cederla a terzi, residuando unicamente il diritto di riportarla a scomputo dell’Iva a debito relativa ai periodi di imposta successivi.

In base alla medesima disposizione il diritto a riportare tale eccedenza a scomputo dell’Iva a debito relativa ai periodi di imposta successivi è, tuttavia, negato qualora per tre periodi di imposta consecutivi la società o l’ente non operativo non effettui operazioni rilevanti ai fini dell’imposta sul valore aggiunto non inferiore all’importo che risulta dalla applicazione delle percentuali previste per il test di operatività.

Occorre sul punto dare conto del recente intervento della giurisprudenza unionale sulla disposizione in esame (Corte giustizia Unione Europea Sez. III, 07/03/2024, n. 341/2022) che ha affermato che:

a) l’art. 9, paragrafo 1, della direttiva 2006/112/CE del Consiglio, del 28 novembre 2006, relativa al sistema comune d’imposta sul valore aggiunto, deve essere interpretato nel senso che esso non può condurre a negare la qualità di soggetto passivo dell’imposta sul valore aggiunto (Iva) al soggetto che, nel corso di un determinato periodo d’imposta, effettui operazioni rilevanti ai fini dell’Iva il cui valore economico non raggiunge la soglia fissata da una normativa nazionale, la quale soglia corrisponde ai ricavi che possono ragionevolmente attendersi dalle attività patrimoniali di cui tale persona dispone;

b) l’art.167 della direttiva 2006/112 nonché i principi di neutralità dell’IVA e di proporzionalità devono essere interpretati nel senso che essi ostano a una normativa nazionale in forza della quale il soggetto passivo è privato del diritto alla detrazione dell’IVA assolta a monte, a causa dell’importo, considerato insufficiente, delle operazioni rilevanti ai fini dell’IVA effettuate da tale soggetto passivo a valle.

Ciò posto,come già evidenziato da questa Corte (Cass. 6/08/2024, n. 22249; Cass. 11/09/2024, nn.24416 e 244 4 2) , la Corte di giustizia ha altresì affermato:

1) «l’articolo 9, paragrafo 1, della direttiva IVA deve essere interpretato nel senso che esso non può condurre a negare la qualità di soggetto passivo IVA al soggetto che, nel corso di un determinato periodo d’imposta, effettui operazioni rilevanti ai fini dell’IVA il cui valore economico non raggiunge la soglia fissata da una normativa nazionale, la quale soglia corrisponde ai ricavi che possono ragionevolmente attendersi dalle attività patrimoniali di cui tale persona dispone» (par. 25) posto che per determinare la qualità di soggetto passivo rileva «esclusivamente il fatto che detta persona eserciti effettivamente un’attività economica e … sfrutti un bene materiale o immateriale per ricavarne introiti aventi carattere di stabilità» (par. 23);

2) «nessuna disposizione della direttiva IVA subordina il diritto a detrazione al requisito che l’importo delle operazioni rilevanti ai fini dell’IVA, effettuate a valle da un soggetto passivo nel corso di un determinato periodo, raggiunga una certa soglia» e, anzi, al contrario, «il diritto alla detrazione dell’IVA è garantito, purché ricorrano le condizioni richieste … indipendentemente dai risultati delle attività economiche del soggetto passivo interessato» (par. 31), fatta salva l’ipotesi in cui ricorra una frode o un abuso del diritto(come delineati dai par. da 33 a 36 della sentenza);

3) l’art. 30 della legge n. 724/1994 assolve alla funzione di disincentivare le evasioni e, a tal fine, si basa sulla presunzione per cui, quando l’importo delle operazioni effettuate a valle da una società in un determinato periodo d’imposta non raggiunge una soglia (calcolata applicando i criteri previsti dalla norma), la società non è operativa salvo che essa «non riesca a dimostrare che elementi oggettivi giustificano l’impossibilità di raggiungere la soglia» (par. 38), da cui l’impossibilità di esercitare il diritto di detrazione; 4) tuttavia, tale presunzione, si fonda «su un criterio, quello di una soglia di ricavi, che è estraneo a quelli richiesti ai fini della dimostrazione di un’evasione o di un abuso» poiché prescinde da una valutazione «della realtà effettiva delle operazioni rilevanti ai fini IVA» ed è ancorata solo al parametro della «valutazione del volume» degli affari (par. 39), sicché essa «eccede quanto necessario per conseguire l’obiettivo di prevenire le evasioni e gli abusi» (par. 42).

Invero, il diritto di detrazione va riconosciuto se:

a) nel corso del periodo d’imposta controverso, in relazione al quale l’autorità tributaria ha reputato la società non operativa, la stessa abbia effettivamente esercitato un’attività economica (indipendentemente dallo scopo o dai risultati), intesa come comprensiva di ogni attività di produzione, commercializzazione o prestazione di servizi, per ricavarne introiti aventi carattere di stabilità;

b) la società medesima abbia impiegato i beni e servizi acquistati per le sue operazioni soggette ad imposta, e ciò indipendentemente dai risultati delle attività economiche;

c) le operazioni non si inseriscano in una frode o non integrino, ai fini unionali, un abuso, inteso anche, come si esprime la sentenza della CGUE (v. par. 33-36), quale “realizzazione di una costruzione artificiosa”.

Se l’art. 30, l. n. 724 del 1994 va disapplicato, non potendosi far derivare la privazione del diritto di detrazione dall’entità delle operazioni realizzate dalla contribuente ma solo ove la situazione sia riconducibile ad una frode o ad un abuso, alla luce degli stessi principi affermati dalla Corte unionale, il motivo deve essere accolto nei predetti termini, relativamente al credito Iva, con conseguenza cassazione della sentenza in parte quale rinvio alla Corte di giustizia di secondo grado.

3. Con il primo motivo di ricorso incidentale l’Agenzia delle Entrate deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 43, comma 3, d.P.R. n. 600 del 1973, 57, comma 2-bis e comma 3, del d.P.R. n. 633 del 1972, censurando la decisione della CTR che ha ritenuto inapplicabile il cd. raddoppio dei termini, evidenziandone l’errore ove ha ritenuto di valutare la sussistenza del reato e non dei presupposti dell’obbligo di denuncia.

3.1. Il motivo è fondato in parte.

L’art. 43, comma 3, d.P.R. n. 600 del 1973, nel testo vigente ratione temporis, prevede che “in caso di violazione che comporta obbligo di denuncia ai sensi dell’articolo 331 del codice di procedura penale per uno dei reati previsti dal decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74, i termini di cui ai commi precedenti sono raddoppiati relativamente al periodo di imposta in cui è stata commessa la violazione”.

Come più volte chiarito da questa Corte, anche sulla scorta dei principi enunciati da Corte Cost. n. 247 del 2011, il raddoppio opera in presenza di tale presupposto astratto, indipendentemente dall’effettiva presentazione della denunzia, dall’inizio dell’azione penale e dall’accertamento del reato nel processo (Cass. 28/06/2019, n. 17586; Cass. 13/09/2018, n. 22337; Cass. 30/05/2016, n. 11171), non rilevando “né l’esercizio dell’azione penale da parte del p.m., ai sensi dell’articolo 405 c.p.p., mediante la formulazione dell’imputazione, né la successiva emanazione di una sentenza di condanna o di assoluzione da parte del giudice penale, anche in considerazione del doppio binario tra giudizio penale e procedimento e processo tributario” (Cass.15/05/2015, n. 9974).

Ciò naturalmente non rende di per sé legittimo qualunque accertamento compiuto dall’Amministrazione finanziaria oltre il termine-base fissato dalla legge, dovendo al contrario essere evitato, come chiarito dalla Corte costituzionale nella citata sentenza n. 247 del 2011, un uso pretestuoso e strumentale delle disposizioni in esame al fine di fruire ingiustificatamente di un più ampio termine di accertamento.

Per verificare l’uso pretestuoso del raddoppio dei termini “il giudice tributario dovrà controllare, se richiesto con i motivi di impugnazione, la sussistenza dei presupposti dell’obbligo di denuncia, compiendo, al riguardo, una valutazione ora per allora (cosiddetta “prognosi postuma”) circa la loro ricorrenza ed accertando, quindi, se l’amministrazione finanziaria abbia agito con imparzialità», con la precisazione però che «il correlativo tema di prova -e, quindi, l’oggetto della valutazione da effettuarsi da parte del giudice tributario – è circoscritto al riscontro dei presupposti dell’obbligo di denuncia penale e non riguarda l’accertamento del reato” (p. 5.3. della Sentenza della Corte costituzionale).

Tuttavia, deve rilevarsi che il raddoppio dei termini di accertamento non opera con riferimento all’Irap posto che, non essendo l’Irap un’imposta per la quale siano previste sanzioni penali è evidente che in relazione alla stessa non può operare la disciplina del raddoppio dei termini di accertamento quale applicabile ratione temporis (Cass. 25/08/2017,n. 20435; Cass. 11/03/2016, n. 4775; Cass. 7/11/2017, n. 26311; Cass. 9/10/2017, n. 23629; Cass. 3/05/2018, n. 10483 ; Cass. 10/01/2025, n. 600).

Ha quindi errato la CTR nel ritenere, a fini delle altre imposte, di dover esaminare la sussistenza degli elementi del reato anziché limitare la sua cognizione alla sussistenza dei presupposti dell’obbligo di denuncia e ad un uso non strumentale della denuncia da parte dell’amministrazione procedente, sul punto dovendosi accogliere il motivo.

4. Con il secondo motivo la difesa erariale deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 1, comma 2-bis, d.lgs. n. 471 del 1997, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3 cod. proc. civ., formulando due censure: con la prima deduce che la CTR ha errato ove ha ritenuto inapplicabile la sanzione per mancata presentazione dell’istanza di disapplicazione della normativa sulle società di comodo, in quanto la mancata presentazione, sebbene non precluda la facoltà di difesa in giudizio, è tuttavia sanzionata espressamente;con la seconda censura deduce che la CTR ha errato ove ha ritenuto che le sanzioni debbano essere applicate nel minimo edittale.

4.1. Il motivo è assorbito dall’accoglimento degli altri motivi.

5. In conclusione, il ricorso principale va accolto unicamente in relazione al credito Iva, nei termini sopra descritti;

il ricorso incidentale va accolto in relazione alla questione del raddoppio dei termini, ad esclusione della ripresa Irap;

la sentenza va cassata in relazione ai motivi accolti, per i quali occorrono ulteriori accertamenti in fatto;

la causa va pertanto rinviata alla Corte di giustizia tributaria di secondo grado della Toscana, in diversa composizione, cui si demanda di provvedere sulle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso principale, nei termini indicati in motivazione, in relazione alla ripresa Iva, rigettate le altre doglianze;

accoglie il primo motivo del ricorso incidentale, nei termini indicati in motivazione, assorbito il secondo motivo;

cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti;

rinvia alla Corte di giustizia tributaria di secondo grado della Toscana, in diversa composizione, cui demanda di provvedere sulle spese del giudizio di legittimità. Così deciso in Roma, il 13 dicembre 2024

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