CASSAZIONE

Le dichiarazioni di terzi hanno valenza indiziaria ma devono trovare riscontro probatorio

Accertamento analitico- induttivo – Indagini bancarie – Processo tributario – Dichiarazione giurata di parenti – Artt. 32 e 51 del D.P.R. n. 600/1973– Contraddittorio procedimentale – Vizio di motivazione

La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 25804 del 23 settembre 2021, intervenendo in tema di accertamento bancario ha osservato che le dichiarazioni introdotte dal contribuente per superare la presunzione legale, e al fine di fornire la prova contraria, per dimostrare la natura e le origine delle movimentazioni bancarie relativamente alle operazioni di accredito e addebito, non sono idonee se rese da terzi legati da vincoli familiari, prive di data e provenienza certa, e comunque carenti di ulteriore riscontro probatorio. Ciò, vogliono precisare gli Ermellini, non intacca il valore probatorio delle dichiarazioni di terzi rese in favore della parte contribuente, che costituisce sempre una concreta attuazione dei principi del giusto processo ex art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), ratificata e resa esecutiva dalla legge 4 agosto 1955, n. 848.

La Suprema Corte, inoltre rammentando che la questione è stata nel tempo molto dibattuta, ha confermato che la presunzione legale della disponibilità di maggior reddito non riguarda soltanto i titolari di reddito di impresa o da lavoro autonomo, ma la stessa generalità dei contribuenti.

Al riguardo, citando la pronuncia della Corte europea dei Diritti dell’uomo depositata il 23 novembre 2006, ricorso n. 73053/01, che prendeva in considerazione la posizione di un contribuente finlandese, il quale ricorreva alla Corte sostenendo di non essere stato in grado di difendersi in modo adeguato perché il sistema tributario in vigore non prevedeva, di norma, un’udienza pubblica e conseguentemente la possibilità di ricorrere alla prova testimoniale. La Corte in quel caso concluse affermando che l’assenza della pubblica udienza e la conseguente impossibilità di ricorrere alla prova testimoniale nel processo tributario sono da ritenersi compatibili con il principio dell’equo processo stabilito dalla Convenzione “solo se da tali divieti non deriva un grave pregiudizio della posizione processuale del ricorrente-contribuente sul piano probatorio, non altrimenti rimediabile”.

La preclusione era stata in concreto esclusa, ma in linea di principio l’eventuale divieto, generalizzato e irrimediabile, potrebbe ancora porsi in contrasto con l’art. 6 della Convenzione citata. In linea con tale divieto, la giurisprudenza nazionale ha dunque ritenuto i verbali di testimonianze acquisite in altri processi, così come le informative di terzi raccolti dall’Amministrazione finanziaria nel corso di indagini amministrative, prive di efficacia di prova. Ciò in quanto sarebbe altrimenti eluso il diritto alla formazione in contraddittorio delle prove.

Tuttavia, è bene ricordarlo, tali verbalizzazioni possono comunque essere valutate dal giudice quali elementi indiziari in grado di contribuire alla valutazione dell’attendibilità delle prove ammesse al procedimento tributario. Nel particolare, dopo la sentenza della Corte Costituzionale n. 228 del 2014, le operazioni bancarie di prelevamento assumono valore presuntivo nei confronti dei soli titolari di reddito di impresa, mentre quelle di versamento hanno tale valenza nei confronti di tutti i contribuenti, che possono contrastarne l’efficacia dimostrando che le stesse sono già incluse nel reddito soggetto a imposta o sono irrilevanti.

Pertanto, e in altre parole, nel caso odierno è possibile affermare che le dichiarazioni extra processuali rese dai familiari stretti del contribuente sottoposto alle indagini bancarie non sono idonee a superare la presunzione di evasione e reputate insufficienti se prive di validi riscontri probatori.

L’iter logico seguito dai Supremi Giudici è quindi conforme ai principi dell’attuale giurisprudenza, secondo cui, vogliamo ripeterlo, nel contenzioso tributario, tanto al contribuente quanto all’Amministrazione finanziaria, deve essere riconosciuta la possibilità d’introdurre nel giudizio dichiarazioni rese da terzi in sede extra processuale, che hanno valore probatorio trovando collocazione tra gli elementi indiziari che, come tali, devono essere valutati dal giudice nel contesto probatorio emergente dagli atti.

Tornando al caso in esame, la vicenda processuale scaturisce da un accertamento bancario con cui l’Amministrazione finanziaria rideterminava il reddito del contribuente, un imprenditore individuale, recuperando a tassazione redditi non dichiarati. Al fine di contestare i maggiori ricavi dedotti dalle movimentazioni bancarie, l’avviso veniva impugnato dinanzi alla competente Commissione tributaria provinciale, la quale rigettava il ricorso. Anche i giudici di appello respingevano il gravame fondato sull’illegittimità del provvedimento impositivo, ritenendo corretta la valutazione del primo giudice circa i presupposti per l’accertamento operato ai sensi dell’articolo 32, DPR 600/1973.

Per questo motivo il contribuente proponeva ricorso in Cassazione lamentando, tra l’altro, la violazione dell’articolo 32, DPR 600/1973 e dell’articolo 51, DPR 633/1972, per non avere riconosciuto, da un lato, la  violazione dell’art. 324 cod. proc. pen. per il mancato riconoscimento degli effetti della sentenza penale di assoluzione dai reati fiscali contestati e, dall’altro, la violazione del citato art. 32 per non aver riconosciuto la sufficienza delle prove allegate a giustificazione delle operazioni di versamento e di prelievo dal conto corrente bancario

La Corte di Cassazione ha ritenuto inammissibile questa doglianza, osservando che “… Il ricorrente sostiene che il giudice d’appello, erroneamente interpretando l’art. 32 del d.P.R. 600 del 1973, abbia mal governato le prove allegate, in particolare abbia negato valore alle dichiarazioni di terzi prodotte dal ricorrente a dimostrazione della provenienza dei versamenti sul proprio conto corrente (la genitrice e la sorella). Nella pronuncia il giudice regionale, partendo dai principi formulati dalla giurisprudenza di legittimità in merito alla rilevanza indiziaria delle testimonianze scritte, ha tuttavia rilevato che «pur ritenendo ammissibili le dichiarazioni introdotte dal contribuente, esse non appaiono idonee a fornire la prova contraria tale da dimostrare, in modo oggettivo e determinato, la natura e l’origine delle movimentazioni bancarie e superare la presunzione legale relativamente alle operazioni di accredito e di addebito. Fra l’altro, perché si tratta di dichiarazioni di terzi legati a vincoli familiari, prive di data e provenienza certa, comunque senza ulteriore riscontro probatorio». Si tratta, come evidente, di una valutazione in fatto, non censurabile neppure sul piano logico, atteso che la commissione ha ritenuto quelle dichiarazioni inattendibili sotto un triplice profilo, la provenienza da familiari, l’assenza di data certa e, soprattutto, la mancanza di ulteriori riscontri probatori. Ha ritenuto dunque che la valenza indiziaria delle dichiarazioni non era sufficiente a superare il dato oggettivo delle operazioni bancarie e delle presunzioni ad esse riconducibili. L’iter logico seguito dal giudice regionale è conforme ai principi, dispensati da questa Corte, secondo cui nel contenzioso tributario al contribuente, al pari che all’Amministrazione finanziaria, deve essere riconosciuta la possibilità d’introdurre nel giudizio innanzi alle commissioni tributarie dichiarazioni rese da terzi in sede extra processuale. Ciò in attuazione dei principi del giusto processo e della parità delle parti di cui all’art. 111 Cost. e 6 CEDU. Ad esse va riconosciuto valore probatorio, trovando collocazione tra gli elementi indiziari, che, come tali tuttavia devono essere valutati dal giudice nel contesto probatorio emergente dagli atti (Cass., 30/09/2011, n. 20028; 19/10/2015, n. 21153; 27/05/2020, n. 9903). A tal fine pertanto resta in capo al giudice tributario il “potere- dovere” di valutare l’attendibilità del contenuto delle dichiarazioni, nell’alveo della corretta applicazione del principio della libera valutazione delle prove, e dunque l’obbligo di confrontare le dichiarazioni acquisite, al fine di riscontrare la credibilità dei dichiaranti in base ad elementi soggettivi ed oggettivi, quali la loro qualità e vicinanza alle parti, così come la congruenza delle dichiarazioni alla luce di eventuali ulteriori elementi allegati al processo (cfr. Cass., 27/02/2020, n. 5340). Questo è quello che ha fatto il giudice d’appello, dandone atto in sentenza sia pur sinteticamente. Dalla motivazione della pronuncia impugnata emerge infatti che le dichiarazioni non siano state ignorate, ma valutate, e le critiche mosse dalla difesa del ricorrente in realtà sollecitano una rivalutazione di merito, che è inibita in sede di legittimità. Infondato infine è il quarto motivo, con il quale il T. si duole perché la Commissione non ha riconosciuto i maggiori costi a fronte dei maggiori ricavi induttivamente accertati. La giurisprudenza di legittimità ha chiarito che l’Amministrazione finanziaria deve ricostruire il reddito del contribuente tenendo conto anche delle componenti negative, emerse dagli accertamenti compiuti ovvero, in difetto, determinate induttivamente. Ciò al fine di evitare che, in contrasto con il principio della capacità contributiva di cui all’art. 53 Cost., venga sottoposto a tassazione il profitto lordo, anziché quello netto. Tuttavia ciò afferisce all’accertamento induttivo cd. puro (Cass., 20/01/2017, n. 1506 ; 23/10/2018, n. 26748 ; vedi anche 4/02/2021, n. 2581). Nell’ipotesi oggetto di controversia l’accertamento, condotto anche ai sensi dell’art. 32 del d.P.R. 600 cit., non rientrava in quello induttivo puro, ma in quello cd. analitico- induttivo, per il quale il principio appena enunciato non trova applicazione. Il ricorso va dunque rigettato”.

Corte di Cassazione – Ordinanza 23 settembre 2021, n. 25804 

sul ricorso 13931-2015 proposto da:

T. M., elettivamente domiciliato in ROMA, Piazza Cavour presso la cancelleria della Corte di Cassazione, rappresentato e difeso dagli avvocati LUCA ANDREA BREZIGAR e GIORGIO PAGLIANI;

 – ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE DIREZIONE GENERALE, in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 2085/2014 della COMM. TRIB. REG. EMILIA ROMAGNA, depositata il 28/11/2014;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica Udienza del 29/04/2021 dal Consigliere Dott.. FRANCESCO FEDERICI;

lette le conclusioni scritte del pubblico ministero in persona del sostituto procuratore generale dott. STANISLAO DE MATTEIS che ha chiesto rigettarsi il ricorso.

Conseguenze di legge;

FATTI DI CAUSA

T. M. ha chiesto la cassazione della sentenza n. 2085/03/2014, depositata dalla Commissione tributaria regionale dell’Emilia-Romagna il 28 novembre 2014, con la quale, confermando la decisione di primo grado, era stato rigettato il ricorso introduttivo del contribuente avverso l’avviso di accertamento notificato dalla Agenzia delle entrate relativamente all’anno d’imposta 2006.

Ha rappresentato che all’esito di un accertamento bancario condotto ai sensi dell’art. 32 del d.P.R. 29 settembre 1997, n. 600, l’Amministrazione finanziaria aveva rideterminato il reddito 2006 del T., recuperando ad imponibile redditi non dichiarati. Erano stati inoltre disconosciuti costi ritenuti non deducibili.

Contestando i maggiori ricavi dedotti dalle movimentazioni bancarie, era seguito il contenzioso dinanzi alla Commissione tributaria provinciale di Modena, che con sentenza n. 282/01/2011 aveva rigettato il ricorso introduttivo del contribuente.

La Commissione tributaria regionale dell’Emilia-Romagna, con la decisione ora al vaglio della Corte, ha rigettato l’appello.

Il giudice regionale ha ritenuto che l’esito del processo penale a carico del T., conclusosi con formula assolutiva, non poteva incidere sul processo tributario.

Nel merito dell’accertamento poi ha ritenuto che le prove addotte dal contribuente non avevano offerto elementi di prova sufficienti a superare le presunzioni.

Il ricorrente ha censurato la decisione affidandosi a quattro motivi, cui ha resistito l’Agenzia delle entrate con controricorso. Alla pubblica udienza del 29 aprile 2021 la causa è stata discussa e decisa sulla base degli atti difensivi delle parti.

RAGIONI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo, articolato in due sub-motivi, il ricorrente denuncia la violazione dell’art. 324 cod. proc. pen. e dell’art. 2909 cod. civ., perché nella pronuncia non sono stati riconosciuti gli effetti della sentenza penale di assoluzione dai reati fiscali contestati, nonché per inosservanza del principio del ne bis in idem;

con il secondo motivo lamenta la violazione dell’art. 32 del d.P.R. 600 del 1973, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., per non aver escluso, nella sua qualità di lavoratore autonomo, l’efficacia presuntiva degli accertamenti bancari con riguardo alle operazioni di prelievo, così come dovuto a seguito della sentenza n. 228 del 6 ottobre 2014 pronunciata dalla Corte Costituzionale;

con il terzo si duole della violazione degli artt. 32 del d.P.R. n. 600 del 1973 e 51 del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, in relazione alll’art. 360, primo comma, n. 3, per non aver riconosciuto la sufficienza delle prove allegate a giustificazione delle operazioni di versamento e di prelievo dal conto corrente bancario;

con il quarto, in subordine, denuncia la violazione dell’art. 75, del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, e dell’art. 2, comma 6 bis del d.l. 26 aprile 1990, n. 90, conv in I. 165 del 1990, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3 cod. proc. civ., per non aver riconosciuto maggiori costi a fronte dei maggiori ricavi induttivamente accertati.

Esaminando il primo motivo, con esso il contribuente sostiene innanzitutto l’illegittimità della pronuncia impugnata perché il giudice regionale non avrebbe tenuto conto della sentenza penale con la quale, con la formula “il fatto non sussiste”, è stata esclusa la sua responsabilità in quella sede.

Sostiene che quella pronuncia faceva stato per i fatti ivi accertati anche ai fini della controversia tributaria. Sotto l’aspetto appena evidenziato il motivo è inammissibile per difetto di autosufficienza.

Se è vero infatti che la giurisprudenza di questa Corte ha affermato che la sentenza penale irrevocabile di assoluzione dal reato tributario, emessa con la formula “perché il fatto non sussiste”, non spiega automaticamente efficacia di giudicato nel processo tributario, ancorché i fatti accertati in sede penale siano gli stessi per i quali l’Amministrazione finanziaria ha promosso l’accertamento nei confronti del contribuente, ma può essere presa in considerazione come possibile fonte di prova dal giudice tributario, il quale, nell’esercizio dei propri poteri di valutazione, deve verificarne la rilevanza nell’ambito specifico in cui detta decisione è destinata ad operare (Cass., 22/05/2015, n. 10578; 27/06/2019, n. 17258), e se ciò implica che è compito del giudice di merito valutare nell’ambito del processo tributario la rilevanza dei fatti accertati in sede penale, doveva essere onere del ricorrente indicare quali fossero quei fatti ed in che misura essi potevano incidere sulla presente controversia.

Il motivo resta invece del tutto generico, privo di contenuto e riferimenti circoscritti, limitandosi ad affermazioni di principio incapaci di far comprendere se e in quale misura fossero stati accertati fatti utili nella controversia fiscale.

Con il medesimo motivo il ricorrente denuncia inoltre la violazione del principio del ne bis in idem, lamentando in particolare l’illegittimità della decisione per non aver tenuto conto della sovrapposizione e del cumulo delle sanzioni penali e fiscali.

Anche tale profilo del motivo è inammissibile.

Lo è innanzitutto perché tutta la giurisprudenza invocata dalla difesa nulla ha a che vedere con la parte dell’atto impositivo impugnato afferente l’accertamento ed il recupero d’imposta. Quanto poi alla parte dell’atto impositivo destinato alla comminazione delle sanzioni, a parte che i principi maturati in materia e le condizioni imposte anche dalla giurisprudenza euro-unitaria, al fine di preservare il contribuente dalla doppia sanzione, richiedono una serie di presupposti qui inesistenti (a partire dai cd. “criteri Engel” enunciati dalla Corte EDU), nel caso di specie non vi è stata alcuna condanna in sede penale e per conseguenza non è stata applicata alcuna sanzione penale, sicché l’odierna controversia esula dall’ipotesi del cumulo delle sanzioni.

Con il secondo motivo il T. critica la decisione per non aver tenuto conto che a seguito dell’intervento della Corte Costituzionale, con sentenza n. 228/2014, è stata parzialmente esclusa per i lavoratori autonomi la presunzione di riconducibilità al reddito di tutte le operazioni bancarie di prelievo e versamento. Il motivo è infondato.

È vero che la Corte Costituzionale ha riconosciuto l’illegittimità costituzionale dell’art. 32 co. 1, n. 2, secondo periodo, d.P.R. n. 600/1973, come modificato dall’art. 1, co. 402, lett. a), I. n. 311/2004, limitatamente alle parole ««o compensi» per violazione degli artt. 3 e 53 Cost. In particolare ha ritenuto che l’ambito operativo della presunzione relativa alla riconducibilità a reddito d’impresa dei versamenti e dei prelievi dai conti correnti, non giustificati, estesa dalla I. n. 311/2004 anche ai lavoratori autonomi, fosse lesiva del principio di ragionevolezza e della capacità contributiva, essendo arbitrario ipotizzare che i prelievi ingiustificati da conti correnti bancari effettuati da un lavoratore autonomo siano destinati ad un investimento nell’ambito della propria attività professionale, e che questo sia a sua volta produttivo di un reddito. Ed è vero dunque che ha affermato che resta invariata la presunzione legale posta dall’art. 32 cit. solo con riferimento ai versamenti effettuati su un conto corrente dal professionista o lavoratore autonomo, così che questi è onerato di provare in modo analitico l’estraneità di tali movimenti ai fatti imponibili, essendo venuta meno l’equiparazione logica tra attività imprenditoriale e professionale limitatamente ai prelevamenti sui conti correnti (Cass., 9/08/2016, n. 16697; 30/03/2018, n. 795).

Sennonché, come ha evidenziato nel controricorso l’Agenzia delle entrate, il T. non è un lavoratore autonomo ma proprio un imprenditore, in contabilità ordinaria, circostanza in alcun modo contestata dal contribuente, che pertanto non può invocare la declaratoria di parziale incostituzionalità della disciplina.

Inammissibile è anche il terzo motivo.

Il ricorrente sostiene che il giudice d’appello, erroneamente interpretando l’art. 32 del d.P.R. 600 del 1973, abbia mal governato le prove allegate, in particolare abbia negato valore alle dichiarazioni di terzi prodotte dal ricorrente a dimostrazione della provenienza dei versamenti sul proprio conto corrente (la genitrice e la sorella).

Nella pronuncia il giudice regionale, partendo dai principi formulati dalla giurisprudenza di legittimità in merito alla rilevanza indiziaria delle testimonianze scritte, ha tuttavia rilevato che «pur ritenendo ammissibili le dichiarazioni introdotte dal contribuente, esse non appaiono idonee a fornire la prova contraria tale da dimostrare, in modo oggettivo e determinato, la natura e l’origine delle movimentazioni bancarie e superare la presunzione legale relativamente alle operazioni di accredito e di addebito.

Fra l’altro, perché si tratta di dichiarazioni di terzi legati a vincoli familiari, prive di data e provenienza certa, comunque senza ulteriore riscontro probatorio».

Si tratta, come evidente, di una valutazione in fatto, non censurabile neppure sul piano logico, atteso che la commissione ha ritenuto quelle dichiarazioni inattendibili sotto un triplice profilo, la provenienza da familiari, l’assenza di data certa e, soprattutto, la mancanza di ulteriori riscontri probatori. Ha ritenuto dunque che la valenza indiziaria delle dichiarazioni non era sufficiente a superare il dato oggettivo delle operazioni bancarie e delle presunzioni ad esse riconducibili.

L’iter logico seguito dal giudice regionale è conforme ai principi, dispensati da questa Corte, secondo cui nel contenzioso tributario al contribuente, al pari che all’Amministrazione finanziaria, deve essere riconosciuta la possibilità d’introdurre nel giudizio innanzi alle commissioni tributarie dichiarazioni rese da terzi in sede extra processuale.

Ciò in attuazione dei principi del giusto processo e della parità delle parti di cui all’art. 111 Cost. e 6 CEDU. Ad esse va riconosciuto valore probatorio, trovando collocazione tra gli elementi indiziari, che, come tali tuttavia devono essere valutati dal giudice nel contesto probatorio emergente dagli atti (Cass., 30/09/2011, n. 20028; 19/10/2015, n. 21153; 27/05/2020, n. 9903).

A tal fine pertanto resta in capo al giudice tributario il “potere- dovere” di valutare l’attendibilità del contenuto delle dichiarazioni, nell’alveo della corretta applicazione del principio della libera valutazione delle prove, e dunque l’obbligo di confrontare le dichiarazioni acquisite, al fine di riscontrare la credibilità dei dichiaranti in base ad elementi soggettivi ed oggettivi, quali la loro qualità e vicinanza alle parti, così come la congruenza delle dichiarazioni alla luce di eventuali ulteriori elementi allegati al processo (cfr. Cass., 27/02/2020, n. 5340).

Questo è quello che ha fatto il giudice d’appello, dandone atto in sentenza sia pur sinteticamente.

Dalla motivazione della pronuncia impugnata emerge infatti che le dichiarazioni non siano state ignorate, ma valutate, e le critiche mosse dalla difesa del ricorrente in realtà sollecitano una rivalutazione di merito, che è inibita in sede di legittimità. Infondato infine è il quarto motivo, con il quale il T. si duole perché la Commissione non ha riconosciuto i maggiori costi a fronte dei maggiori ricavi induttivamente accertati. La giurisprudenza di legittimità ha chiarito che l’Amministrazione finanziaria deve ricostruire il reddito del contribuente tenendo conto anche delle componenti negative, emerse dagli accertamenti compiuti ovvero, in difetto, determinate induttivamente.

Ciò al fine di evitare che, in contrasto con il principio della capacità contributiva di cui all’art. 53 Cost., venga sottoposto a tassazione il profitto lordo, anziché quello netto.

Tuttavia ciò afferisce all’accertamento induttivo cd. puro (Cass., 20/01/2017, n. 1506 ; 23/10/2018, n. 26748 ; vedi anche 4/02/2021, n. 2581).

Nell’ipotesi oggetto di controversia l’accertamento, condotto anche ai sensi dell’art. 32 del d.P.R. 600 cit., non rientrava in quello induttivo puro, ma in quello cd. analitico- induttivo, per il quale il principio appena enunciato non trova applicazione.

Il ricorso va dunque rigettato.

Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza e vanno liquidate in favore dell’Agenzia delle entrate nella misura specificata in dispositivo.

P.Q.M.

 La Corte rigetta il ricorso;

condanna il T. alla rifusione in favore dell’Agenzia delle spese legali sostenute nel giudizio di legittimità, che si liquidano in € 7.300,00 per competenze, oltre spese prenotate a debito.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, nella misura pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis del medesimo articolo 13, se dovuto.

23 settembre 2021Così deciso in Roma, il giorno 29 aprile 2021.

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