Lavoro dipendente di fonte estera: i chiarimenti della Corte di Cassazione
Tributi – IRPEF – Lavoro dipendente di fonte estera – Doppia imposizione fiscale – Convenzione Italia – Stati Uniti – Art. 36-ter del DPR 600/1973 – Residenza fiscale in Italia – Cartella di pagamento – Validità – Detrazione
La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 30800 del 2 dicembre 2024, intervenendo in tema di tassazione per lavoro dipendente di fonte estera con la quale ci si riferisce a un’attività lavorativa subordinata svolta per un datore di lavoro straniero, ha stabilito che le retribuzioni percepite da un residente in Italia per un lavoro, in questo caso negli Stati Uniti, sono imponibili in entrambi gli Stati, come peraltro è stabilito dall’articolo 15 della Convenzione contro le doppie imposizioni in vigore tra Italia e USA.
La Convenzione del 19 luglio 1956 n. 943, poi ratificata con legge 763/1985, prescrive all’articolo citato “Metodi per evitare la doppia imposizione”, sulla base dei quali: “… Si conviene che la doppia imposizione sarà evitata nel modo seguente: a) gli Stati Uniti nel calcolare le proprie imposte sul reddito specificate nell’articolo 1 della presente Convenzione nei confronti dei propri cittadini, residenti o societa’ o altri enti, possono, prescindendo da ogni altra norma prevista nella Convenzione stessa, includere nella base sulla quale tali imposte vengono determinate tutti i cespiti di reddito imponibile secondo le leggi fiscali degli Stati Uniti, come se questa Convenzione non fosse entrata in vigore. Gli Stati Uniti, devono, tuttavia, in conformità delle norme delle sezioni 901, 902, 903, 904 e 905 del Codice fiscale del 1954, dedurre dalle proprie imposte l’ammontare delle imposte italiane sul reddito; b) l’Italia nel calcolare le proprie imposte sui redditi specificate nell’art. 1 della presente Convenzione nei confronti dei propri cittadini, residenti, societa’ o altri enti, può, prescindendo da ogni altra norma prevista nella Convenzione stessa, includere nella base sulla quale tali imposte vengono determinate tutti i cespiti di reddito, come se questa Convenzione non fosse entrata in vigore. L’Italia deve, tuttavia, dedurre dalle imposte cosi’ determinate l’imposta degli Stati Uniti sul reddito derivante da fonti situate negli Stati Uniti (non esenti dall’imposta negli Stati Uniti in virtù della presente Convenzione), non costituito da dividendi, ma per un ammontare non eccedente la quota delle imposte italiane attribuibile a tale reddito (diverso dai dividendi) nella proporzione in cui il detto reddito ha concorso a formare il reddito complessivo (diverso dai dividendi) del contribuente. Per i dividendi che provengono da fonti situate negli Stati Uniti e ivi tassati, l’Italia concede una detrazione dell’8 per cento dell’ammontare di tali dividendi”.
Lavorare (come in questo caso) negli Stati Uniti comporta considerazioni aggiuntive riguardo alla tassazione praticata, specialmente se si è cittadini italiani o per chi mantiene in Italia il proprio centro d’interessi. Più specificatamente, secondo il quadro previsto per le imposte, negli Stati Uniti ci sono: le Imposte federali sul reddito (Federal Income Tax),che però variano in base al reddito e allo scaglione fiscale con aliquote progressive dal 10% al 37%; le Imposte statali sul reddito (State Income Tax), che non sono applicate in tutti gli Stati. Alcuni, come la Florida e il Texas, non hanno imposte sul reddito, mentre altri, come la California e New York, hanno aliquote più alte (fino al 13%); infine, le Imposte sui salari (Payroll Taxes), che includono le trattenute per la Social Security (6.2%) e il Medicare (1.45%).
Ricordiamo, comunque, che se il lavoratore è fiscalmente residente in Italia è soggetto al principio della tassazione mondiale (World Wide Taxation), il che significa che deve dichiarare in Italia i redditi percepiti all’estero, anche se tassati nel Paese di origine. Per evitare la doppia imposizione l’Italia riconosce un credito per le imposte pagate all’estero (art. 165 del TUIR), che permette di scomputare dall’imposta italiana l’importo delle tasse già versate all’estero, purché non superi la quota di imposta italiana corrispondente al reddito estero.
In sostanza, per ottenere il riconoscimento dei requisiti per il credito d’imposta è necessario che le imposte siano state pagate su redditi prodotti all’estero, che tali redditi siano soggetti a tassazione anche in Italia (doppia imposizione) e che le imposte estere siano state pagate a titolo definitivo.
Riassumendo, i residenti all’estero titolari di redditi prodotti in Italia devono dichiararli all’Amministrazione finanziaria secondo la normativa fiscale vigente.
L’Italia ha un accordo contro la doppia imposizione con gli Stati Uniti per evitare di pagare le tasse due volte sullo stesso reddito, ma quelle pagate negli USA possono essere utilizzate come credito d’imposta in Italia. Dalla lettura dell’art. 15 della Convenzione Italia-Stati Uniti si evince che le retribuzioni sono “imponibili” nello Stato della fonte del reddito, ma non si deduce che sono imponibili “soltanto” in tale Stato, assumendo così una tassazione concorrente e non esclusiva: sulle imposte pagate all’estero spetterà quindi il credito d’imposta appositamente previsto dalla legge fiscale italiana.
Tanto premesso e tornando alla vicenda odierna, essa ha inizio quando a un contribuente l’Agenzia delle entrate rettificava, ai sensi dell’art. 36-ter del DPR 600/1973, il reddito dichiarato e annullava il credito di imposta per il reddito prodotto all’estero, imputando lo stesso importo a maggior reddito con imposte, sanzioni e interessi conseguenti.
Il contribuente impugnava l’atto impositivo innanzi alla giustizia tributaria, sostenendo che il reddito percepito negli Stati Uniti era da considerarsi imponibile solo in quel Paese e non in Italia, benché questi fosse fiscalmente residente in Italia.
La Commissione adita accoglieva il ricorso e annullava l’atto impositivo mentre la successiva CTR accoglieva parzialmente l’appello e, in riforma della sentenza impugnata, confermava l’atto impositivo, salvo che per la parte relativa alle somme corrispondenti alle imposte federali già versate dal contribuente negli Stati Uniti, per le quali imponeva all’Amministrazione finanziaria il ricalcolo e il riconoscimento della detrazione.
Il contribuente ricorreva in Cassazione, lamentando violazione dell’art. 15 della citata Convenzione Italia-Stati Uniti con tre motivi, sostanzialmente deducendo l’erroneità della sentenza perché avrebbe interpretato la disposizione invocata nel senso di affermare l’imponibilità del reddito da lavoro dipendente percepito all’estero da cittadino italiano residente in Italia, con applicazione della detrazione dell’imposta eventualmente corrisposta negli Stati Uniti.
La Corte di Cassazione ha respinto il ricorso della parte contribuente, ritenendo il motivo di doglianza infondato e affermando, invece, che :” … 2. Con il secondo motivo di ricorso la difesa del contribuente deduce la nullità della sentenza per violazione dell’art. 112 cod. proc. civ. ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 4), cod. proc. civ.. In particolare si lamenta la violazione del principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato perché la decisione impugnata avrebbe motivato il rigetto della tesi proposta dal S. e avrebbe affermato l’inapplicabilità dell’art. 15, comma 2, lett. a) della convenzione sulle doppie imposizioni tra Italia e Stati Uniti all’epoca vigente, in virtù di argomenti mai dedotti dalla Amministrazione finanziaria. 2.1. Il motivo è infondato. I fatti all’origine dell’atto impositivo, e cioè della rettifica ai sensi dell’art. 36-ter d.P.R. 29/09/1973, n. 600, sono incontestati e sono quelli di rilievo per definire il perimetro della controversia, in via prioritaria rispetto alle argomentazioni spese dalle parti. Peraltro, osserva il Collegio, l’Agenzia delle Entrate ha fondato la sua pretesa fiscale sulla residenza e sul domicilio fiscale in Italia e sulla applicazione dell’art. 15 della convenzione tra Italia e Stati Uniti contro le doppie imposizioni siglata il 17/04/1984 e ratificata con la legge 11/12/1985 n. 763, e cioè sulla versione della Convenzione ratione temporis vigente, rimanendo di competenza del giudice l’esatta qualificazione giuridica della fattispecie. Si consideri, altresì, che: «in tema di giudizio di appello, il principio della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato, come il principio del tantum devolutum quantum appellatum, non osta a che il giudice renda la pronuncia richiesta in base ad una ricostruzione dei fatti autonoma rispetto a quella prospettata dalle parti, ovvero in base alla qualificazione giuridica dei fatti medesimi ed all’applicazione di una norma giuridica diverse da quelle invocate dall’istante, né incorre nella violazione di tale principio il giudice d’appello che, rimanendo nell’ambito del petitum e della causa petendi , confermi la decisione impugnata sulla base di ragioni diverse da quelle adottate dal giudice di primo grado o formulate dalle parti, mettendo in rilievo nella motivazione elementi di fatto risultanti dagli atti, ma non considerati o non espressamente menzionati dal primo giudice» (Cass. 12/03/2024, n. 6533). 3. Con il terzo motivo di ricorso la difesa del contribuente deduce violazione dell’art. 15 della citata Convenzione Italia – Stati Uniti (quella, appunto, ratificata e resa esecutiva con legge 11/12/1985, n. 763 e ratione temporis vigente) ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3), cod. proc. civ.. In tale prospettiva il ricorrente deduce l’erroneità della sentenza perché avrebbe interpretato la disposizione invocata nel senso di affermare l’imponibilità del reddito da lavoro dipendente percepito all’estero da cittadino italiano residente in Italia, con applicazione della detrazione dell’imposta eventualmente corrisposta negli Stati Uniti. Secondo il ricorrente la chiara interpretazione dell’art. 15, comma 1, della convenzione dovrebbe indurre a concludere che, a prescindere dalla residenza e dal domicilio fiscale in Italia, il reddito percepito dal dipendente negli Stati Uniti è da considerarsi imponibile (solo) negli Stati Uniti e non in Italia; secondo il ricorrente nemmeno ricorrerebbero nella fattispecie le circostanze che, ai sensi del comma 2, potrebbero consentire di derogare al principio espresso dall’art. 15, comma 1, della convenzione e a ritenere che il reddito sia imponibile solo in Italia. 3.1. Il motivo è infondato. L’articolo 15 della Convenzione, ai paragrafi 1 e 2 recita: «Salve le disposizioni degli artt. 16, (Compensi e getto di presenza) 18 (Pensioni, ecc.) e 19 (Funzioni pubbliche), i salari, gli stipendi e le altre remunerazioni analoghe che un residente di uno Stato contraente riceve in corrispettivo di una attività dipendente sono imponibili soltanto in detto Stato, a meno che tale attività non venga svolta nell’altro Stato contraente. Se l’attività è quivi svolta, le remunerazioni percepite a tal titolo sono imponibili in questo altro Stato. 2 Nonostante le disposizioni del paragrafo 1, le remunerazioni che un residente di uno Stato contraente riceve in corrispettivo di un’attività dipendente svolta nell’altro Stato contraente sono imponibili soltanto nel primo Stato se: a) il beneficiario soggiorna nell’altro Stato per un periodo o periodi che non oltrepassano in totale 183 giorni nel corso dell’anno fiscale considerato; b) le remunerazioni sono pagate da o per conto di un datore di lavoro che non è residente dell’altro Stato; c) l’onere delle remunerazioni non è sostenuto da una stabile organizzazione o da una base fissa che il datore di lavoro ha nell’altro Stato». 3.2. Orbene, l’art. 15, paragrafo 1, primo periodo, si riferisce alle retribuzioni che un soggetto residente in uno Stato riceve in questo primo Stato e sono imponibili soltanto nel medesimo primo stato. L’art. 15, paragrafo 1, secondo periodo, si riferisce alle retribuzioni che un soggetto residente nel primo stato riceve nel secondo Stato per un lavoro svolto nel secondo Stato: queste retribuzioni sono imponibili nel primo Stato se il soggetto è residente nel primo Stato e (anche) nel secondo Stato nel quale sono percepite. La disposizione dice infatti che le retribuzioni sono imponibili nel secondo Stato ma non dice che sono imponibili «soltanto» nel secondo Stato come invece si esprime l’art. 15, paragrafo 1, primo periodo e come dice, per le eccezioni di seguito indicate, l’art. 15, paragrafo 2. In questa ipotesi quanto eventualmente pagato nel secondo Stato (negli Stati Uniti) è poi detraibile dal dovuto nel primo Stato (in Italia), secondo le specifiche regole a tal fine dettate dal diritto interno e in tal senso assume rilievo e significato l’art. 165 d.P.R. 22/12/1986, 917 (t.u.i.r.) che stabilisce «1.Se alla formazione del reddito complessivo concorrono redditi prodotti all’estero, le imposte ivi pagate a titolo definitivo su tali redditi sono ammesse in detrazione dall’imposta netta dovuta fino alla concorrenza della quota d’imposta corrispondente al rapporto tra i redditi prodotti all’estero ed il reddito complessivo al netto delle perdite di precedenti periodi d’imposta ammesse in diminuzione». L’articolo 15, paragrafo 2, della Convenzione si riferisce ai casi che fanno eccezione rispetto a quelli del secondo periodo del paragrafo 1 e in cui il reddito percepito negli Stati Uniti dal soggetto residente in Italia è tassabile soltanto in Italia ove ricorra una delle tre condizioni esemplificate. 3.3. Questa interpretazione consente di confermare il principio che i redditi ovunque prodotti sono sempre tassati nel paese nel quale si ha la residenza fiscale; il ricorrente –come incontestato – aveva residenza fiscale in Italia e ha presentato dichiarazione dei redditi in Italia. Il reddito percepito negli Stati Uniti è imponibile in quel Paese in ragione dell’art. 15, paragrafo 1, secondo periodo, della Convenzione e anche in Italia in ragione della residenza fiscale; la legge italiana stabilisce come detrarre quanto già pagato negli Stati Uniti, detrazione peraltro riconosciuta nella specie dal giudice di merito. 4. Il ricorso merita integrale rigetto; …”.
Corte di Cassazione – Ordinanza 2 dicembre 2024, n. 30800
sul ricorso iscritto al n. 05622/2016 R.G. proposto da:
M. S., rappresentato e difeso dall’Avv. M. Nucci in virtù di procura speciale in calce al ricorso ed elettivamente domiciliato presso lo studio del difensore in Roma, Via Lutezia n. 8;
– ricorrente –
Contro AGENZIA DELLE ENTRATE, domiciliata ex lege in Roma, Via dei Portoghesi n. 12, presso l’Avvocatura generale dello Stato che la rappresenta e difende;
– controricorrente –
avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della Toscana n. 1396/13/15 del 28/08/2015;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 18 ottobre 2024 dal consigliere Riccardo Rosetti;
Fatti di causa
1. Con atto notificato il 25.10.2011 l’Agenzia delle Entrate rettificava ai sensi dell’art. 36-ter del d.P.R. 29/09/1973, n. 600 il reddito dichiarato da S. M. e, in particolare, annullava il credito di imposta per il reddito prodotto all’estero per euro IRPEF, CARTELLA DI PAGAMENTO ART. 36-TER TUIR 31.086,00, imputava la stessa cifra a maggior reddito con imposte, sanzioni e interessi conseguenti.
2. Il contribuente impugnava l’atto impositivo innanzi alla Commissione tributaria provinciale di Firenze assumendo che la rettifica operata dall’Ufficio fosse illegittima perché l’art. 15 della Convenzione Italia – Stati Uniti contro la doppia imposizione fiscale valesse ad escludere l’imponibilità in Italia del reddito percepito dal contribuente negli Stati Uniti benché questi fosse fiscalmente residente in Italia.
L’Agenzia delle Entrate si costituiva in giudizio chiedendo il rigetto del ricorso e la conferma della rettifica adottata. Con la sentenza 134/10/2013 la Commissione adita accoglieva il ricorso e annullava l’atto impositivo.
3. Avverso detta pronuncia proponeva appello l’Agenzia delle Entrate ribadendo la legittimità della condotta impositiva. Si costituiva in giudizio S. M. eccependo l’inammissibilità dell’impugnazione e chiedendone, ad ogni modo, il rigetto nel merito. Con la sentenza n. 1396/13/15 del 28/08/2015 la Commissione tributaria regionale della Toscana accoglieva parzialmente l’appello e, in riforma della sentenza impugnata, confermava l’atto impositivo, salvo che per la parte relativa alle somme corrispondenti alle imposte federali già versate dal contribuente negli Stati Uniti per le quali la Commissione ha imposto alla Amministrazione finanziaria il ricalcolo e il riconoscimento della detrazione.
4. Avverso detta pronuncia ha proposto ricorso per cassazione S. M. con tre strumenti di impugnazione. L’Agenzia delle Entrate si è costituita con controricorso chiedendo il rigetto del gravame e dichiarando di aver dato spontanea esecuzione alla pronuncia di appello nella parte in cui imponeva la riliquidazione del dovuto previo ricalcolo e detrazione delle imposte federali versate da S. M. negli Stati Uniti. La difesa del contribuente ha successivamente depositato memoria ai sensi dell’art. 378 cod. proc. civ..
5. Il ricorso è stato trattato dal Collegio nella camera di consiglio del 18/10/2024.
Ragioni della decisione
1. Con il primo motivo di ricorso la difesa del contribuente denuncia nullità della sentenza per violazione dell’art. 53 d.lgs. 31/12/1992, n. 546 in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4), cod. proc. civ..
In particolare il ricorrente lamenta che la sentenza avrebbe errato nel respingere l’eccezione di inammissibilità dell’appello perché l’impugnazione non conteneva critiche specifiche alla sentenza ma si limitava a riproporre le argomentazioni circa l’interpretazione dell’art. 15 della Convenzione Italia – Stati Uniti contro le doppie imposizioni fiscali poste dalla amministrazione a fondamento del recupero fiscale, della cartella e delle difese svolte in primo grado.
1.1. Il motivo è infondato. In proposito va rilevato che l’atto di appello, nel proporre una differente interpretazione della disposizione controversa critica in modo implicito ma diretto la decisione di primo grado, affermando che l’interpretazione offerta dalla Commissione tributaria provinciale fosse da censurare; tale circostanza è riferita anche dalla sentenza impugnata.
1.2. La decisione della Commissione tributaria regionale, che ha respinto l’eccezione di inammissibilità dell’appello, è peraltro conforme al costante orientamento di questa Corte, secondo il quale: «in tema di contenzioso tributario, la riproposizione in appello delle ragioni poste a fondamento dell’originaria impugnazione del provvedimento impositivo da parte del contribuente ovvero della legittimità dell’accertamento da parte dell’Amministrazione finanziaria, in contrapposizione alle argomentazioni adottate dal giudice di primo grado, assolve l’onere di impugnazione specifica imposto dall’art. 53 del d.lgs. n. 546 del 1992, quando il dissenso investa la decisione nella sua interezza e, comunque, ove dall’atto di gravame, interpretato nel suo complesso, siano ricavabili in modo inequivoco, seppur per implicito, i motivi di censura» (Cass. 10/01/2024, n. 1030); ed ancora: «nel processo tributario, ove l’Amministrazione finanziaria si limiti a ribadire e riproporre in appello le stesse ragioni ed argomentazioni poste a sostegno della legittimità del proprio operato, come già dedotto in primo grado, in quanto considerate dalla stessa idonee a sostenere la legittimità dell’avviso di accertamento annullato, è da ritenersi assolto l’onere d’impugnazione specifica previsto dall’art. 53 del d.lgs. n. 546 del 1992» (Cass. 25/02/2022, n. 6302).
2. Con il secondo motivo di ricorso la difesa del contribuente deduce la nullità della sentenza per violazione dell’art. 112 cod. proc. civ. ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 4), cod. proc. civ..
In particolare si lamenta la violazione del principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato perché la decisione impugnata avrebbe motivato il rigetto della tesi proposta dal S. e avrebbe affermato l’inapplicabilità dell’art. 15, comma 2, lett. a) della convenzione sulle doppie imposizioni tra Italia e Stati Uniti all’epoca vigente, in virtù di argomenti mai dedotti dalla Amministrazione finanziaria.
2.1. Il motivo è infondato.
I fatti all’origine dell’atto impositivo, e cioè della rettifica ai sensi dell’art. 36-ter d.P.R. 29/09/1973, n. 600, sono incontestati e sono quelli di rilievo per definire il perimetro della controversia, in via prioritaria rispetto alle argomentazioni spese dalle parti. Peraltro, osserva il Collegio, l’Agenzia delle Entrate ha fondato la sua pretesa fiscale sulla residenza e sul domicilio fiscale in Italia e sulla applicazione dell’art. 15 della convenzione tra Italia e Stati Uniti contro le doppie imposizioni siglata il 17/04/1984 e ratificata con la legge 11/12/1985 n. 763, e cioè sulla versione della Convenzione ratione temporis vigente, rimanendo di competenza del giudice l’esatta qualificazione giuridica della fattispecie.
Si consideri, altresì, che: «in tema di giudizio di appello, il principio della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato, come il principio del tantum devolutum quantum appellatum, non osta a che il giudice renda la pronuncia richiesta in base ad una ricostruzione dei fatti autonoma rispetto a quella prospettata dalle parti, ovvero in base alla qualificazione giuridica dei fatti medesimi ed all’applicazione di una norma giuridica diverse da quelle invocate dall’istante, né incorre nella violazione di tale principio il giudice d’appello che, rimanendo nell’ambito del petitum e della causa petendi , confermi la decisione impugnata sulla base di ragioni diverse da quelle adottate dal giudice di primo grado o formulate dalle parti, mettendo in rilievo nella motivazione elementi di fatto risultanti dagli atti, ma non considerati o non espressamente menzionati dal primo giudice» (Cass. 12/03/2024, n. 6533).
3. Con il terzo motivo di ricorso la difesa del contribuente deduce violazione dell’art. 15 della citata Convenzione Italia – Stati Uniti (quella, appunto, ratificata e resa esecutiva con legge 11/12/1985, n. 763 e ratione temporis vigente) ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3), cod. proc. civ..
In tale prospettiva il ricorrente deduce l’erroneità della sentenza perché avrebbe interpretato la disposizione invocata nel senso di affermare l’imponibilità del reddito da lavoro dipendente percepito all’estero da cittadino italiano residente in Italia, con applicazione della detrazione dell’imposta eventualmente corrisposta negli Stati Uniti. Secondo il ricorrente la chiara interpretazione dell’art. 15, comma 1, della convenzione dovrebbe indurre a concludere che, a prescindere dalla residenza e dal domicilio fiscale in Italia, il reddito percepito dal dipendente negli Stati Uniti è da considerarsi imponibile (solo) negli Stati Uniti e non in Italia; secondo il ricorrente nemmeno ricorrerebbero nella fattispecie le circostanze che, ai sensi del comma 2, potrebbero consentire di derogare al principio espresso dall’art. 15, comma 1, della convenzione e a ritenere che il reddito sia imponibile solo in Italia.
3.1. Il motivo è infondato.
L’articolo 15 della Convenzione, ai paragrafi 1 e 2 recita: «Salve le disposizioni degli artt. 16, (Compensi e getto di presenza) 18 (Pensioni, ecc.) e 19 (Funzioni pubbliche), i salari, gli stipendi e le altre remunerazioni analoghe che un residente di uno Stato contraente riceve in corrispettivo di una attività dipendente sono imponibili soltanto in detto Stato, a meno che tale attività non venga svolta nell’altro Stato contraente. Se l’attività è quivi svolta, le remunerazioni percepite a tal titolo sono imponibili in questo altro Stato. 2 Nonostante le disposizioni del paragrafo 1, le remunerazioni che un residente di uno Stato contraente riceve in corrispettivo di un’attività dipendente svolta nell’altro Stato contraente sono imponibili soltanto nel primo Stato se: a) il beneficiario soggiorna nell’altro Stato per un periodo o periodi che non oltrepassano in totale 183 giorni nel corso dell’anno fiscale considerato; b) le remunerazioni sono pagate da o per conto di un datore di lavoro che non è residente dell’altro Stato; c) l’onere delle remunerazioni non è sostenuto da una stabile organizzazione o da una base fissa che il datore di lavoro ha nell’altro Stato».
3.2. Orbene, l’art. 15, paragrafo 1, primo periodo, si riferisce alle retribuzioni che un soggetto residente in uno Stato riceve in questo primo Stato e sono imponibili soltanto nel medesimo primo stato. L’art. 15, paragrafo 1, secondo periodo, si riferisce alle retribuzioni che un soggetto residente nel primo stato riceve nel secondo Stato per un lavoro svolto nel secondo Stato: queste retribuzioni sono imponibili nel primo Stato se il soggetto è residente nel primo Stato e (anche) nel secondo Stato nel quale sono percepite. La disposizione dice infatti che le retribuzioni sono imponibili nel secondo Stato ma non dice che sono imponibili «soltanto» nel secondo Stato come invece si esprime l’art. 15, paragrafo 1, primo periodo e come dice, per le eccezioni di seguito indicate, l’art. 15, paragrafo 2. In questa ipotesi quanto eventualmente pagato nel secondo Stato (negli Stati Uniti) è poi detraibile dal dovuto nel primo Stato (in Italia), secondo le specifiche regole a tal fine dettate dal diritto interno e in tal senso assume rilievo e significato l’art. 165 d.P.R. 22/12/1986, 917 (t.u.i.r.) che stabilisce «1.Se alla formazione del reddito complessivo concorrono redditi prodotti all’estero, le imposte ivi pagate a titolo definitivo su tali redditi sono ammesse in detrazione dall’imposta netta dovuta fino alla concorrenza della quota d’imposta corrispondente al rapporto tra i redditi prodotti all’estero ed il reddito complessivo al netto delle perdite di precedenti periodi d’imposta ammesse in diminuzione». L’articolo 15, paragrafo 2, della Convenzione si riferisce ai casi che fanno eccezione rispetto a quelli del secondo periodo del paragrafo 1 e in cui il reddito percepito negli Stati Uniti dal soggetto residente in Italia è tassabile soltanto in Italia ove ricorra una delle tre condizioni esemplificate.
3.3. Questa interpretazione consente di confermare il principio che i redditi ovunque prodotti sono sempre tassati nel paese nel quale si ha la residenza fiscale; il ricorrente –come incontestato – aveva residenza fiscale in Italia e ha presentato dichiarazione dei redditi in Italia. Il reddito percepito negli Stati Uniti è imponibile in quel Paese in ragione dell’art. 15, paragrafo 1, secondo periodo, della Convenzione e anche in Italia in ragione della residenza fiscale; la legge italiana stabilisce come detrarre quanto già pagato negli Stati Uniti, detrazione peraltro riconosciuta nella specie dal giudice di merito.
4. Il ricorso merita integrale rigetto;
le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.
rigetta il ricorso; condanna il ricorrente a rifondere all’Agenzia delle Entrate le spese del giudizio di legittimità, che liquida in euro 4.100,00 (quattromilacento) a titolo di compensi, oltre alle spese prenotate a debito;
ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115/2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1-bis del citato art. 13, se dovuto. Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, del 18 ottobre 2024