CASSAZIONE

L’Assoluzione nel procedimento penale non ha effetti sul giudizio tributario

La Corte di Cassazione con l’ordinanza n. 16262 depositata il 28 giugno 2017 intervenendo in tema rapporto tra processo penale e tributario ha affermato la legittimità della sentenza tributaria di condanna che abbia preso atto dell’assoluzione penale, dandone conto in motivazione, e abbia optato per un esito diverso, sfavorevole al contribuente. In sostanza la sentenza penale irrevocabile, di condanna o di assoluzione, emessa in materia di reati tributari non è vincolante per il giudice tributario, anche se i fatti accertati in sede penale siano gli stessi per i quali l’Amministrazione finanziaria ha promosso l’accertamento nei confronti del contribuente.

Ricordiamo brevemente che il combinato disposto dell’art.654 c.p.p. e dell’art.20 d. lgs.74 del 2000 rende chiaro che il giudicato penale non ha efficacia vincolante per l’AG tributaria neppure in punto di ricostruzione dei fatti accertati in sede penale.

Le limitazioni probatorie vigenti in sede tributaria ostano infatti a riconoscere tale efficacia extrapenale, il che però non significa che non vi sia una circolazione dell’informazione tra i due sistemi processuali. Tra i due riti non si è creata, infatti, alcuna paratia stagna, e ciò che è stato raccolto nel procedimento e nel processo penale può ben essere speso in quello tributario. Non si vede ragione, infatti, per negare agli atti formati nel procedimento e nel processo penale la natura di documenti utilizzabili in sede processual-tributaria ai sensi degli artt.24, 32 e 58 d. lgs.546 del 1992. La sentenza penale, ma più in generale gli atti del procedimento penale, costituiscono infatti – nella prospettiva del giudice tributario – documenti acquisibili ex artt.24, 32 e 58 d. lgs.546 del 1992.

Se tali dati e le informazioni in essi veicolati sono acquisibili ed utilizzabili nel processo tributario, ma senza che ne discendano automatismi probatori, ne consegue che la loro qualificazione – sotto il profilo delle teoria generale del processo – è quella degli indizi o degli elementi di prova.

Il giudice tributario, pertanto, non può limitarsi a richiamare il semplice dispositivo della sentenza, ma deve prendere in considerazione gli elementi da essa desumibili per procedere ad una propria ricostruzione dei fatti, dando conto della consistenza degli elementi di prova e delle ragioni del proprio convincimento.

Ne discende quindi che l’AG fiscale non può limitarsi a rilevare l’esistenza di una sentenza penale definitiva, recependone acriticamente le conclusioni assolutorie ma, nell’esercizio dei propri poteri di valutazione della condotta delle parti e del materiale probatorio agli atti, deve procedere ad un suo apprezzamento del contenuto della decisione, ponendolo a confronto con gli altri elementi di prova acquisiti nel giudizio. E, del resto, a parità di materiale probatorio, se gli schemi presuntivi e i criteri probatori propri del sistema tributario, non raggiungendo il garantisticamente elevato standard dell’oltre ogni ragionevole dubbio vigente in criminalibus, possono non fondare una declaratoria di penale responsabilità, essi invece possono ben risultare del tutto adeguati a sorreggere una sentenza erariale che riconosca esservi evasione fiscale. E così l’imputato può esser al contempo assolto in sede penale, pure con formula piena, e vedersi rigettato in sede tributaria – qualora vi siano indizi sufficienti per i parametri probatori vigenti in tale tipologia di giudizio – il suo ricorso avverso gli atti di accertamento o impositivi relativi alla medesima situazione considerata nel processo penale, così come decretato dalle pronunzie Cass. 6 ottobre 2010 n.20740, Cass. 18.5.2007 n.11599; Cass. n.10945 del 2005 hanno avuto cura di precisare che il provvedimento di archiviazione non impedisce che la situazione di fatto in esso presa in considerazione possa esser ritenuta rilevante dal giudice tributario.

Conseguentemente, a parere dei supremi giudici, la sentenza penale irrevocabile di assoluzione, emessa con la formula “perché il fatto non sussiste”, nel processo tributario non ha automaticamente efficacia di giudicato, ma può valere solo come possibile fonte di prova.

La vicenda ha riguardato una società a cui veniva notificato un avviso di accertamento, a seguito di verifica fiscale che aveva comportato anche fatti di rilevanza penale, dall’Agenzia delle Entrate.

Il giudizio dinanzi alla Suprema Corte veniva attivato con ricorso del contribuente contro una sentenza della Ctr di Viterbo, con la quale era stata confermata la legittimità della ripresa erariale. Nel ricorso, si faceva notare come i medesimi fatti fossero stati oggetto di autonomo giudizio penale, conclusosi con sentenza definitiva di assoluzione, con formula “perché il fatto non sussiste”; di ciò, si doleva il ricorrente, non poteva non tenersi conto nel giudizio tributario, ancorato sui medesimi fatti e presupposti.

La contribuente avverso la sentenza della CTR proponeva ricorso in cassazione fondato su un unico motivo.

La Cassazione ha però rigettato il ricorso, ricordando quali siano gli unici effetti da riconoscersi a un giudicato penale di assoluzione e i connessi limiti: in primis, non può riconoscersi alcuna efficacia espansiva al giudicato penale, che corre su un binario autonomo rispetto al rito tributario.

Ben può accadere che all’assoluzione penale segua la condanna in sede tributaria, poiché i due riti sono indipendenti e profondamente differenti quanto alla tipologia di prove ammesse e/o precluse.

I giudici del Palazzaccio chiariscono infatti il ruolo che deve riconoscersi al giudicato penale, ponendolo sullo stesso piano del cumulo di prove a disposizione del giudice tributario, per giungere alla propria decisione. Così che, la sentenza tributaria deve dare contezza dell’esistenza del giudicato penale e analizzare il contenuto della decisione, ma non deve necessariamente uniformandosi alla stessa, inquadrandola invece nell’insieme di indizi e prove a sostegno della domanda di annullamento.

In effetti, i due riti sono profondamente differenti, specialmente per quanto concerne la tipologia di prove ammesse, essendo per esempio negata nel processo tributario la prova testimoniale (che riveste un ruolo di primo piano in quello penale) ove trovano invece ingresso le presunzioni semplici (inidonee a supportare una condanna in sede penale).

Gli Ermellini inoltre hanno anche voluto elaborare importanti considerazioni sulla materia, a cui rimandiamo la lettura, e una serie di pregevoli “principi di diritto” sul doppio binario tra processo tributario e processo penale e, in particolare, spiegano che : “…Nel processo tributario, l’efficacia vincolante del giudicato penale di assoluzione del legale rappresentante della società contribuente per insussistenza del reato di esposizione di elementi passivi fittizi mediante utilizzazione di fatture per operazioni inesistenti, non opera automaticamente per i fatti relativi alla correlata azione di accertamento fiscale nei confronti della società, poiché in questo, da un lato, vigono limitazioni della prova (come il divieto di quella testimoniale ex art. 7 del d.lgs. n. 546 del 1992) e, dall’altro, possono valere anche presunzioni inidonee a fondare una pronuncia penale di condanna. Pertanto, stante l’evidenziata autonomia del giudizio tributario rispetto a quello penale, il giudice tributario non può limitarsi a rilevare l’esistenza di una sentenza penale definitiva in materia di reati fiscali, recependone acriticamente le conclusioni assolutorie ma, nell’esercizio dei propri poteri di valutazione della condotta delle parti e del materiale probatorio acquisito agli atti (art. 116 cod. proc. deve procedere ad un suo apprezzamento del contenuto della decisione, ponendolo a confronto con gli altri elementi di prova acquisiti nel giudizio. (Nella specie, la S.C. ha ritenuto corretto l’operato del giudice tributario che, nonostante il giudicato penale di assoluzione, ha dato conto che nell’accertamento della indeducibilità dei costi afferenti ad operazioni soggettivamente inesistenti, opposti elementi indiziari permettevano altresì di negare la stessa esistenza oggettiva di tali operazioni, come le risultanze del processo verbale di constatazione, le informative attestanti la non operatività della società straniera destinataria degli esborsi, l’irregolare tenuta della contabilità della contribuente, l’assenza di contratti scritti per prestazioni professionali di terzi e la non autenticità delle relative sottoscrizioni apposte su documenti)» (Sez. 5, Sentenza n. 19786 del 27/09/2011, Rv. 619306 – 01)”.

 

CORTE di CASSAZIONE Ordinanza n. 16262 del 28 giugno 2017

Disposta la motivazione semplificata su concorde indicazione del Presidente e del Relatore.

Rilevato che:

Con sentenza in data 24 settembre 2015 la Commissione tributaria regionale del Lazio respingeva l’appello proposto da C.E.V. -Centro Energia Viterbo- spa avverso la sentenza n. 552/1/14 della Commissione tributaria provinciale di Viterbo che ne aveva respinto il ricorso contro l’avviso di accertamento IRAP, IVA 2007. La CTR osservava in particolare che l’apparato indiziario emergente dall’attività di verifica fiscale era tale, come ritenuto dal primo giudice, da far considerare fondata la pretesa creditoria portata dall’atto impositivo impugnato.

Avverso la decisione ha proposto ricorso per cassazione la società contribuente deducendo un motivo unico.

Resiste con controricorso l’Agenzia delle entrate. La ricorrente ha presentato memoria.

Considerato che:

Con l’unico articolato mezzo proposto —ex art. 360, primo comma, nn. 3/4, cod. proc. civ.- la ricorrente lamenta il mancato esame/la mancata valutazione da parte della CTR della sentenza penale di proscioglimento, perché il fatto non sussiste, dei propri amministratori/dirigenti e dei soci amministratori/dirigenti della società terza fatturante in ordine al reato di emissione/utilizzazione di fatture per operazioni inesistenti emessa dal Tribunale di Viterbo, denunciando la correlativa violazione degli artt. 2697, cod. civ., 115, primo comma, 116, primo comma, 132, primo comma, n. 4, cod. proc. civ., 111, Cost.

La censura è infondata. Vanno anzitutto ribaditi i seguenti principi di diritto:

-che «Nel processo tributario, la sentenza penale irrevocabile di assoluzione dal reato tributario, emessa con la formula “perché il fatto non sussiste”, non spiega automaticamente efficacia di giudicato, ancorché i fatti accertati in sede penale siano gli stessi per i quali l’Amministrazione finanziaria ha promosso l’accertamento nei confronti del contribuente, ma può essere presa in considerazione come possibile fonte di prova dal giudice tributario, il quale nell’esercizio dei propri poteri di valutazione, deve verificarne la rilevanza nell’ambito specifico in cui detta sentenza è destinata ad operare» (Sez. 5, Sentenza n. 10578 del 22/05/2015, Rv. 635637 – 01);

-che «Nel contenzioso tributario, la sentenza penale irrevocabile intervenuta per reati attinenti ai medesimi fatti su cui si fonda l’accertamento degli uffici finanziari rappresenta un semplice elemento di prova, liberamente valutabile in rapporto alle ulteriori risultanze istruttorie, anche di natura presuntiva» (Sez. 5, Sentenza n. 2938 del 13/02/2015, Rv. 634894 – 01);

-che «In materia di contenzioso tributario, nessuna automatica autorità di cosa giudicata può attribuirsi alla sentenza penale irrevocabile, di condanna o di assoluzione, emessa in materia di reati fiscali, ancorché i fatti esaminati in sede penale siano gli stessi che fondano l’accertamento degli Uffici finanziari, dal momento che nel processo tributario vigono i limiti in materia di prova posti dall’art. 7, comma quarto, del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, e trovano ingresso, invece, anche presunzioni semplici, di per sé inidonee a supportare una pronuncia penale di condanna. Ne consegue che l’imputato assolto in sede penale, anche con formula piena, per non aver commesso il fatto o perché il fatto non sussiste, può essere ritenuto responsabile fiscalmente qualora l’atto impositivo risulti fondato su validi indizi, insufficienti per un giudizio di responsabilità penale, ma adeguati, fino a prova contraria, nel giudizio tributario» (Sez. 5, Sentenza n. 8129 del 23/05/2012, Rv. 622685 – 01);

-che «Nel processo tributario, l’efficacia vincolante del giudicato penale di assoluzione del legale rappresentante della società contribuente per insussistenza del reato di esposizione di elementi passivi fittizi mediante utilizzazione di fatture per operazioni inesistenti, non opera automaticamente per i fatti relativi alla correlata azione di accertamento fiscale nei confronti della società, poiché in questo, da un lato, vigono limitazioni della prova (come il divieto di quella testimoniale ex art. 7 del d.lgs. n. 546 del 1992) e, dall’altro, possono valere anche presunzioni inidonee a fondare una pronuncia penale di condanna. Pertanto, stante l’evidenziata autonomia del giudizio tributario rispetto a quello penale, il giudice tributario non può limitarsi a rilevare l’esistenza di una sentenza penale definitiva in materia di reati fiscali, recependone acriticamente le conclusioni assolutorie ma, nell’esercizio dei propri poteri di valutazione della condotta delle parti e del materiale probatorio acquisito agli atti (art. 116 cod. proc. deve procedere ad un suo apprezzamento del contenuto della decisione, ponendolo a confronto con gli altri elementi di prova acquisiti nel giudizio. (Nella specie, la S.C. ha ritenuto corretto l’operato del giudice tributario che, nonostante il giudicato penale di assoluzione, ha dato conto che nell’accertamento della indeducibilità dei costi afferenti ad operazioni soggettivamente inesistenti, opposti elementi indiziari permettevano altresì di negare la stessa esistenza oggettiva di tali operazioni, come le risultanze del processo verbale di constatazione, le informative attestanti la non operatività della società straniera destinataria degli esborsi, l’irregolare tenuta della contabilità della contribuente, l’assenza di contratti scritti per prestazioni professionali di terzi e la non autenticità delle relative sottoscrizioni apposte su documenti)» (Sez. 5, Sentenza n. 19786 del 27/09/2011, Rv. 619306 – 01).

La sentenza impugnata, che pure ha dato atto della esistenza del giudicato penale oggetto del mezzo proposto, ha poi correttamente applicato tutti detti principi di diritto consolidatisi nella giurisprudenza di questa Corte, valorizzando in fatto le prove contrarie rivenienti dalle indagini fiscali e quindi statuendo nel merito insindacabilmente in questa sede.

In particolare va rilevato che, come incontestatamente puntualizzato dall’agenzia fiscale controricorrente, le fatture considerate nella sentenza penale di assoluzione sono soltanto una minima parte di quelle complessivamente oggetto della ripresa fiscale (circa curo 20.000 su euro 577.000) e che comunque la CTR ha preso in considerazione proprio le fatture oggetto del giudicato penale, così implicitamente valutandolo, secondo i citati pertinenti arresti giurisprudenziali, ed esprimendo un giudizio di merito che appunto non può essere oggetto di valutazione ulteriore in questa sede.

Va in ogni caso escluso che la motivazione della sentenza impugnata sia mancante ovvero rientri nelle ipotesi di “mera apparenza”, sì da integrare il vizio di cui all’ ex art. 360, primo comma, n. 4, cod. proc. civ., superando senz’altro il testo argomentativo in esame il “minimo costituzionale” (cfr. SU 8053/2014). Il ricorso va dunque rigettato.

Le spese seguono la soccombenza e vanno liquidate come in dispositivo.

PQM

La Corte rigetta il ricorso; condanna la società ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che liquida in curo 5.600 oltre spese prenotate a debito. Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater del d.P.R. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso articolo 13.

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