CASSAZIONE FISCALITA

La tassazione dell’indennità di esproprio

Tributi – IRPEF – Indennità di esproprio – Tassazione –  Opzione per la tassazione ordinaria – Applicazione ritenuta a titolo d’imposta da parte del soggetto erogante – Legittimità – Obbligo di presentazione della dichiarazione dei redditi

La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 12694 del 25 giugno 2020, affrontando nuovamente la vicenda relativa alla tassazione dell’indennità di esproprio ha confermato il principio, più volte affermato in questa sede, che la ritenuta operata dall’Ente espropriante su tale indennità è effettuata a titolo di imposta e non a titolo di ritenuta di acconto “solo in presenza di opzione per la tassazione ordinaria, con l’obbligo del contribuente di esporre in dichiarazione, nel quadro M del modello 740, fra i redditi diversi, l’ammontare dell’indennità di esproprio, l’ammontare delle ritenuta e, nella colonna 7, l’opzione per la tassazione ordinaria», non ricorrendo tale ipotesi nel caso in cui il ricorrente non esponga nella dichiarazione dei redditi l’indennità di esproprio”.

In buona sostanza, i Giudici di piazza Cavour hanno voluto ricordare che l’espropriato deve adempiere agli obblighi tributari corrispondendo una ritenuta a titolo d’imposta del 20% sull’intera somma percepita dall’ente espropriante: tuttavia, si può sempre esercitare l’opzione per la tassazione separata (ex art. 17, comma 1, lett. g-bis, del TUIR) e per la tassazione ordinaria, considerando tale ritenuta come versata a titolo di acconto d’imposta. Gli Ermellini, con questa interessante sentenza profusa di riferimenti giurisprudenziali di notevole attenzione, hanno contribuito a far maggiore chiarezza sulla questione relativa alla tassabilità della plusvalenza derivante da procedimento espro­priativo, con particolare riferimento al momento impositivo delle somme pagate a tale titolo.

Ricordiamo che le plusvalenze tassabili come redditi diversi sono: le indennità di esproprio, le somme percepite a seguito di cessioni volontarie effettuate nel corso di procedimenti espropriativi, le somme dovute per acquisizioni coattive conseguenti a occupazioni di urgenza, relative a terreni destinati a opere pubbliche o a infrastrutture urbane oppure destinati a interventi di edilizia residenziale pubblica ed economica e popolare.

Anche la Cassazione, con l’ordinanza n.10761/2017, ha infatti affermato che: “Costituisce ormai principio consolidato di questa Corte che, in tema di imposte sui redditi, ai sensi dell’art.11, L.413/91, ogni pagamento che realizzi una plusvalenza in dipendenza di procedimenti espropriativi e sia conseguito dopo l’entrata in vigore della norma citata è assoggettato a tassazione, ancorché il decreto di esproprio o la cessione volontaria o l’occupazione acquisitiva siano intervenuti in epoca anteriore al 1° gennaio 1989. L’art.11, difatti, qualifica plusvalenze, che costituiscono reddito imponibile e che, pertanto, concorrono alla formazione dei redditi diversi […] non solo le indennità di espropriazione, ma anche le “somme comunque dovute per effetto di acquisizione coattiva conseguente ad occupazioni di urgenza divenute illegittime relativamente a terreni destinati ad opere pubbliche”. La Cassazione ricorda che gli enti eroganti devono operare una ritenuta a titolo di imposta del 20% all’atto della corresponsione delle somme per “risarcimento danni da occupazione acquisitiva”.

L’espropriazione per pubblica utilità è stata codificata dal Legislatore, per la prima volta, con la legge 25 giugno 1865, n. 2359, norma che fino al mese di giugno 2003 ha svolto il ruolo di disciplina organica della materia. La nostra Costituzione, all’art. 42, dopo aver riconosciuto la tutela della proprietà privata, ne riconosce – nei casi stabiliti dalla legge – l’espropriazione per motivi di interesse generale, salvo comunque il diritto del titolare di ottenere un giusto indennizzo.

Coerentemente, il Codice Civile, con riferimento all’espropriazione per pubblica utilità, dispone:

 – all’art. 834, che “nessuno può essere privato in tutto o in parte dei beni di sua proprietà, se non per causa di pubblico interesse legalmente dichiarato e contro il pagamento di una giusta indennità”;

– all’art. 838, che tale procedimento di acquisizione coattiva della proprietà può essere esteso, previo pagamento di una giusta indennità, a qualsiasi bene che interessi la produzione nazionale, nel caso in cui il suo utilizzo o sfruttamento risulti trascurato da parte del proprietario così da creare nocumento all’interesse della collettività.

Passando all’esame delle questioni di maggior interesse corre l’esigenza di richiamare l’attenzione, sin d’ora, sul contenuto dell’art. 11, comma 5, della legge 30 dicembre 1991, n. 413, che così recita: “… Per le plusvalenze conseguenti alla percezione, da parte di soggetti che non esercitano imprese commerciali, di indennità di esproprio o di somme percepite a seguito di cessioni volontarie nel corso di procedimenti espropriativi nonché di somme comunque dovute per effetto di acquisizione coattiva conseguente ad occupazioni di urgenza divenute illegittime relativamente a terreni destinati ad opere pubbliche o ad infrastrutture urbane all’interno delle zone omogenee di tipo A, B, C, D, di cui al decreto ministeriale 2 aprile 1968, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 97 del 16 aprile 1968, definite dagli strumenti urbanistici ovvero ad interventi di edilizia residenziale pubblica ed economica e popolare di cui alla legge 18 aprile 1962, n. 167, e successive modificazioni, si applicano le disposizioni di cui all’articolo 81, comma 1, lettera b), ultima parte, del testo unico delle imposte sui redditi, approvato con decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, e successive modificazioni, introdotta dal comma 1, lettera f) del presente articolo”.

Il quadro normativo così composto dalla c.d. legge Formica ha quindi introdotto, nella categoria dei redditi diversi, due distinte e nuove ipotesi di plusvalenze, il cui comune tratto distintivo è di essere generate non da un’attività produttiva del proprietario o del possessore, ma dalla mera destinazione edificatoria in sede di pianificazione urbanistica dei terreni, novellando l’allora art. 81 (ora art. 67) del T.U. delle imposte sui redditi.

Il comma 1 introduce “le plusvalenze realizzate a seguito di cessioni a titolo oneroso di terreni suscettibili di utilizzazione edificatoria secondo gli strumenti urbanistici vigenti al momento della cessione”, mentre il successivo comma 5, ampliandone la portata, vi ha inserito “le plusvalenze conseguenti alla percezione, da parte di soggetti che non esercitano attività di imprese commerciali, di indennità di esproprio o di somme percepite a seguito di cessioni volontarie nel corso di procedimenti espropriativi nonché di somme comunque dovute per effetto di acquisizione coattiva conseguente ad occupazioni di urgenza divenute illegittime relativamente a terreni destinati ad opere pubbliche o ad infrastrutture urbane all’interno delle zone omogenee di tipo A, B, C, D, di cui al D.M. 2 aprile 1968, definite dagli strumenti urbanistici ovvero ad interventi di edilizia residenziale pubblica ed economica popolare di cui alla legge 18 aprile 1962, n. 167, e successive modificazioni”. Il quadro normativo si completa, poi, con il comma 7, per il quale tali somme sono soggette a un prelievo alla fonte a titolo d’imposta nella misura del 20%, salva la facoltà per il contribuente di optare per la tassazione ordinaria, con la conseguenza di considerare la ritenuta a titolo di acconto e con riferimento all’assoggettamento a tassazione delle somme erogate a titolo transattivo relative ad un’espropriazione-cessione.

La prima considerazione da porre in risalto per quello che interessa sulle modalità di imposizione fiscale delle fattispecie, riguarda la circostanza che la tassazione delle indennità in argomento – proprio in forza del rimando alle disposizioni del TUIR operato dall’art. 11 della legge del 1991 – si colloca, con talune differenziazioni, nell’ambito della più generale problematica della tassazione delle plusvalenze derivanti dalla cessioni di aree fabbricabili. Proprio la presunta disparità di trattamento tributario tra le plusvalenze da esproprio e quelle da cessione volontaria di terreni hanno dato vita a una lunga serie di pronunce della Corte Costituzionale, che è stata chiamata a esaminare il rapporto tra le previsioni recate dall’art. 11 della legge del 1991 in esame e i principi sanciti dagli artt. 3 e 53 della nostra Costituzione.

Inoltre, vi è da notare che l’art. 11, comma 5, della legge n. 413/91 ha esteso, in sostanza, la disciplina tributaria per le plusvalenze costituenti redditi diversi, prevista dall’art. 81, lett. b) del TUIR (ora, come visto, art. 67 del nuovo TUIR), alle somme percepite a seguito di procedure ablative o di occupazione di terreni suscettibili di utilizzazione edificatoria, da soggetti che non esercitano imprese commerciali. Inoltre, ove l’esproprio venga disposto per destinare l’area a interventi di edilizia residenziale pubblica ed economica o popolare di cui alla citata legge n. 167, la relativa indennità di esproprio deve essere sempre assoggettata a tassazione, in quanto in tali casi non assume alcun rilievo la collocazione dell’area espropriata all’interno delle zone omogenee di cui al decreto del 1968 che, per contro, devono essere prese in considerazione solo laddove il procedimento espropriativo sia stato posto in essere per la realizzazione di opere pubbliche o di infrastrutture urbane (Cfr. la R.M. n. 30/E del 18 febbraio 1997). Il successivo comma 6 dell’art. 11 in esame dispone invece in merito al trattamento fiscale delle indennità e delle somme diverse da quelle sopra considerate. Relativamente al trattamento fiscale, viene stabilito che queste non costituiscono plusvalenze, ma – in caso di opzione da parte del contribuente per la tassazione ordinaria – devono essere acquisite a tassazione nel loro intero ammontare. Si pone in evidenza come, infatti, tale circostanza rilevi soltanto nel caso di esercizio dell’opzione per la tassazione separata o ordinaria, in quanto in tutti i casi l’Ente espropriante opererà la ritenuta del 20% indipendentemente dalla natura o tipologia delle somme corrisposte.

Circa le modalità applicative della ritenuta in discorso la C.M. n. 194/E ha stabilito, infatti, che gli Enti eroganti, all’atto della corresponsione delle somme dovute a mente di quanto chiosato dal comma 7 dell’art. 11 della legge in esame, devono operare una ritenuta a titolo d’imposta nella misura del 20%; la citata circolare dispone, poi, che gli Enti erogatori devono operare la ritenuta del 20% sull’intera somma così come liquidata. Sarà soltanto in caso di esercizio dell’opzione che il contribuente potrà, qualora rinunci alla tassazione sostitutiva in discorso, procedere:

 – per le somme di cui al comma 5, al calcolo della plusvalenza secondo i criteri ora indicati dall’art. 68 del nuovo TUIR;

– alla determinazione ordinaria delle imposte dovute sui redditi diversi conseguenti alla corresponsione delle somme indicate dal successivo comma 6 dell’art. 11 in commento.

In ogni occasione, tuttavia, la Suprema Corte, è sempre tornata a ribadire la legittimità dell’art. 11 della legge n. 413, riconducendo i proventi derivanti dalla espropriazione di terreni al concetto di “reddito entrata” e non a quello di “reddito prodotto”. Dichiarando la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale della norma sulla tassazione delle indennità di esproprio, la Corte ha chiarito, con varie sentenze (n. 171/2001, n. 109/2002, n. 410/1995 e n. 81/ 2004), che: “…. non è irragionevole o discriminatorio il fatto che la legge abbia sottoposto a tassazione le plusvalenze realizzate per effetto della cessione di terreni a destinazione edificatoria, stante la oggettiva lievitazione del prezzo degli stessi, a seguito, per l’appunto, di siffatta destinazione”.

La Corte di Cassazione si assestò, nel corso degli anni, sul riconoscimento della tassazione delle indennità da esproprio facendo leva sul momento della percezione del corrispettivo, che genera un aumento della capacità contributiva, a prescindere dalla data di emanazione del provvedimento ablativo che ne ha determinato la corresponsione. La plusvalenza che si realizza è costituita dall’incremento del valore di scambio di un bene fra il momento in cui esso entra nel patrimonio del soggetto e quello in cui ne fuoriesce, sì che il prelievo fiscale si giustifica ed è imputabile al solo dato oggettivo economico dell’incremento di valore conseguito, a prescindere dal titolo che determina l’uscita del bene equiparando, quanto alla ratio della tassabilità, le plusvalenze di cui all’art. 67, comma 1, lett. b) e quelle da esproprio, non intercorrendovi, almeno sotto il profilo delineato, alcuna distinzione.

Sulla questione in esame ricordiamo anche che la Suprema Corte, nella sentenza n. 8287/2018, nel richiamare altre pronunce, ha precisato che “La legge n. 413 del 1991, art. 11, comma 5, attribuisce rilevanza unicamente all’essere la plusvalenza conseguente alla percezione di indennità o risarcimenti relativi ‘a terreni destinati ad opere pubbliche o ad infrastrutture urbane all’interno delle zone omogenee di tipo A, B, C, D di cui al D.M. 2 aprile 8 1968, (…) definite dagli strumenti urbanistici(..)’. Tanto prescinde – come già da questa Corte affermato (tra le tante Cass. n. 15845/2004) – dalla classificazione risultante dal locale piano regolatore con riguardo a zone non comprese nella classificazione formale del predetto D.M. Le previsioni di uno strumento urbanistico locale, quand’anche legittimamente adottate, sono del tutto irrilevanti ai fini specifici, perché non considerate affatto dalla normativa nazionale. Mentre quel che conta è il criterio che, ai sensi dell’art. 11, comma 5, Legge cit., sottopone a tassazione le plusvalenze conseguenti alla percezione di indennità o di risarcimenti in relazione alla mera collocazione dei suoli nelle zone omogenee indicate (di tipo A, B, C, D), senza rilevanza di alcuna ulteriore distinzione (tra aree aventi vocazione edificatoria e terreni agricoli). Per cui, ai fini dell’assoggettamento ad imposizione, occorre solo verificare se l’area, in relazione alla quale si verifica il presupposto impositivo, sia inserita in una di queste zone, o per espressa previsione dello strumento urbanistico generale di primo livello, ovvero per il suo inserimento in linea di fatto in forza di piano attuativo di secondo o terzo livello (cfr. Cass. n. 9455/2006); fermo restando che, comunque, non rileva, allo scopo di escludere l’imponibilità ai fini Irpef, il fatto che l’area, secondo il locale piano regolatore, si trovasse all’interno di zona altrimenti destinata, poiché tale previsione non è sufficiente a escludere la relativa inerenza dell’area alle zone omogenee considerate avuto riguardo alla sua destinazione effettiva (Cass. Sez. 5, Sentenza n. 652 del 2012)” (in senso conforme, cfr. Cassazione, sentenza n. 11409 del 2015)”.

La giurisprudenza narra che la Cassazione ha seguito un “doppio binario” facendo leva, da un lato, sulla normativa CEDU e sulla giurisprudenza in tema di tutela del diritto di proprietà e di giustizia e ragionevole durata del processo e, dall’altro lato, sul potenziale vulnus ai precetti costituzionali, con particolare riferimento ai principi di buon andamento e di imparzialità (art. 97), del giusto processo e della sua ragionevole durata (art. 111) e del rispetto, oltre che della Carta costituzionale, dei vincoli comunitari e internazionali all’esercizio della potestà legislativa da parte dello Stato e delle Regioni (art. 117). Si vedano, al riguardo, le pronunzie Cass. sez. un., n. 1280/1993, Cass. nn. 6388/1994 e 2537/2001, Cass. n. 652/ 2012, che rinvia a Cass. n. 9455/2006; Cass. nn. 11647/2013, 12275/2017, 24908/2011, 2490/2005, 16963/2019 e, infine, alcuni pareri dell’Avvocatura di Stato (nota 14 giugno 1993, n. 69315 e nota CS 9 agosto 1995, n. 2971).

Ora, se si muove dalla concezione per cui la certezza del diritto connota i rapporti fra Stato e cittadino nel senso che il primo, nella sua duplice funzione, legislativa e amministrativa, deve tutelare le aspettative create nel secondo, è semplice dedurre che “certezza” significa anche non pretendere sacrifici più onerosi rispetto a quelli previsti e in qualche modo prevedibili: e tale è l’attesa per 15 anni di un’indennità di esproprio, attesa che ne ha comportato la tassazione.

E la certezza, con riguardo alla Pubblica amministrazione, si concretizza appunto nel dovere consacrato nell’art. 97 Cost., che è quello, in capo alla stessa, di predeterminare i criteri e le modalità di attuazione delle scelte dettate dalla con­gruità e dalla ragionevolezza nel contemperamento degli interessi in gioco, dovendo la parte pubblica agire nel modo più conveniente e adeguato possibile.

Ricordiamo al riguardo che la stessa Cassazione, Sez. I Civile, con la sentenza n. 4608 del 22 febbraio 2017, si era pronunciata sulla differenza tra aree edificabili e non edificabili allo scopo di determinare l’indennità di espropriazione. In quel caso la Suprema Corte affermò che “il sistema indennitario risulta oggi agganciato al valore venale del bene già previsto quale criterio base di indennizzo sancito dall’art. 37, comma 1, del d.P.R. n. 327 del 2001, come modificato dall’art. 2, comma 90, della L. n. 244 del 2007”.

Tanto premesso, e tornando al caso di specie, una contribuente impugnava il silenzio rifiuto formatosi sull’istanza di rimborso IRPEF riguardante le ritenute a titolo di imposta del 20% versate dal Comune, quale Ente espropriante, sull’indennità di esproprio percepita dalla contribuente, ritenendo trattarsi di ritenute effettuate a titolo di acconto e non d’imposta, sul presupposto di avere optato per il regime tassazione ordinaria a termini dell’art. 11, comma 7, legge 30 dicembre 1991, n. 413.

Incassato il negativo parere dalla giustizia tributaria di prima istanza, si rivolgeva al secondo grado ottenendo soddisfazione alle lagnanze espresse. I Giudici hanno infatti ritenuto che la contribuente – al fine dell’applicazione del regime di tassazione ordinaria da parte dell’Ente espropriante a titolo di acconto e non a titolo d’imposta, con conseguente tassazione della sola plusvalenza – abbia optato per il regime della tassazione ordinaria nel precedente periodo di imposta 2006, in forza del fatto di avere indicato il valore di stima del bene successivamente espropriato e avere versato l’imposta sostitutiva, comportamento rispetto al quale l’omessa compilazione della sezione II del quadro RM della dichiarazione del periodo di imposta successivo, relativa alla opzione per la tassazione, costituisce violazione formale. L’Amministrazione proponeva ricorso in Cassazione denunciando violazione e falsa applicazione dell’art. 11, comma 7, L. n. 413/1991, nella parte in cui la sentenza impugnata ha ritenuto che la contribuente abbia optato per il regime di tassazione ordinaria. La Suprema Corte ha condiviso le ragioni espresse dall’Avvocatura erariale, che con motivazione di scelte ha affermato che: “… Risulta dalla narrativa della sentenza impugnata che la contribuente non ha presentato alcuna dichiarazione dei redditi per l’anno di imposta 2007. La circostanza è, del resto, accertata dal giudice di primo grado, la cui motivazione è stata riportata dal ricorrente in ossequio al principio di specificità, per cui tale accertamento, non oggetto di specifica censura, né di revisione in appello, deve ritenersi passato in giudicato.  Deve, a questo proposito, ribadirsi il principio più volte affermato da questa Corte secondo cui la ritenuta operata dall’Ente espropriante sull’indennità di esproprio è effettuata a titolo di imposta e non a titolo di ritenuta di acconto «solo in presenza di opzione per la tassazione ordinaria, con l’obbligo del contribuente di esporre in dichiarazione, nel quadro M del modello 740, fra i redditi diversi, l’ammontare dell’indennità di esproprio, l’ammontare delle ritenuta e, nella colonna 7, l’opzione per la tassazione ordinaria», non ricorrendo tale ipotesi nel caso in cui il ricorrente non esponga nella dichiarazione dei redditi l’indennità di esproprio (Cass., Sez. V, 25 giugno 2019, n. 16963). – Solo nel caso in cui il contribuente opti espressamente nella dichiarazione dei redditi per la tassazione ordinaria, l’imposta dovuta è determinata tenendo conto della sola plusvalenza, unitamente alle altre componenti reddituali (Cass., Sez. V, 17 maggio 2017, n. 12275; Cass., Sez. V, 25 novembre 2011 n. 24908; Cass., 8 febbraio 2005, n. 2490), permanendo, diversamente, la natura di ritenuta effettuata a titolo di imposta (art. 11, comma 7, I. n. 413/1991: «gli enti espropriami, all’atto della corresponsione delle somme di cui ai commi 5 e 6 […] devono operare una ritenuta a titolo di imposta nella misura del 20 per cento. E facoltà del contribuente optare, in sede di dichiarazione annuale dei redditi per la tassazione ordinaria, nel qual caso la ritenuta si considera effettuata a titolo di acconto»). Né rileva il precedente addotto dalla contribuente in memoria, afferente a un caso del tutto differente. – La compilazione della dichiarazione annuale e l’opzione per il regime della tassazione ordinaria costituiscono, pertanto, condizioni per l’operatività del regime di tassazione ordinaria. Nella specie emerge dalla sentenza impugnata che la contribuente ha omesso di presentare la dichiarazione relativa all’anno di imposta 2007; conseguentemente, non è stata fatta alcuna opzione per il regime di tassazione ordinaria, per cui l’indennità di esproprio deve ritenersi assoggettata a ritenuta di imposta e non di acconto. La Corte di merito non si è attenuta a tali principi per cui la sentenza va cassata; non essendo necessari ulteriori accertamenti in fatto a termini dell’art. 384 cod. proc. civ., la causa va decisa nel merito, rigettandosi la domanda della contribuente. Le spese del doppio grado del giudizio di merito, stante l’evoluzione della giurisprudenza di legittimità, sono soggette a compensazione, le spese del giudizio di legittimità sono, invece, soggette a soccombenza”.

Corte di Cassazione – Ordinanza 25 giugno 2020, n. 12694

sul ricorso iscritto al n. 35177/2018 R.G. proposto da:

AGENZIA DELLE ENTRATE (C.F. 06363391001), in persona del Direttore pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso la quale è domiciliata in Roma, via dei Portoghesi, 12

– ricorrente –

Contro D. S. C., rappresentata e difesa dall’Avv. ALBERTO CRISCI, elettivamente domiciliata presso lo studio dell’Avv. ELIO BENIGNI in Roma, Via Vittoria Colonna, 18

– controricorrente –

avverso la sentenza della Commissione Tributaria Regionale della Campania, Sezione Staccata di Salerno, n. 3931/2018 depositata in data 24 aprile 2018

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio non partecipata del 30 gennaio 2020 dal Consigliere Relatore Filippo D’Aquino. 

Rilevato che

La contribuente ha impugnato il silenzio rifiuto formatosi sull’istanza di rimborso IRPEF in data 27 dicembre 2007, riguardante le ritenute a titolo di imposta del 20% versate dal Comune di Avellino, quale Ente espropriante, sull’indennità di esproprio percepita dalla contribuente, ritenendo trattarsi di ritenute effettuate a titolo di acconto e non di imposta, sul presupposto di avere optato per il regime tassazione ordinaria a termini dell’art. 11, comma 7 I. 30 dicembre 1991, n. 413.

La CTP di Avellino ha rigettato il ricorso della contribuente e la CTR della Campania, Sezione Staccata di Salerno, con sentenza in data 24 aprile 2018, ha accolto l’appello della contribuente, ritenendo che la contribuente – al fine dell’applicazione del regime di tassazione ordinaria da parte dell’ente espropriante a titolo di acconto e non a titolo di imposta, con conseguente tassazione della sola plusvalenza – abbia optato per il regime della tassazione ordinaria nel precedente periodo di imposta 2006, in forza del fatto di avere indicato il valore di stima del bene successivamente espropriato e avere versato l’imposta sostitutiva, comportamento rispetto al quale l’omessa compilazione della sezione II del quadro RM della dichiarazione del periodo di imposta successivo, relativa alla opzione per la tassazione, costituisce violazione formale.

Propone ricorso per cassazione l’Ufficio affidato a un unico motivo, resiste la contribuente con controricorso, ulteriormente illustrato da memoria.

La proposta del relatore è stata comunicata, unitamente al decreto di fissazione dell’adunanza camerale, ai sensi dell’articolo 380-bis cod. proc. civ.

Considerato che

1 – Con l’unico motivo si denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 11, comma 7, I. n. 413/1991, nella parte in cui la sentenza impugnata ha ritenuto che la contribuente abbia optato per il regime di tassazione ordinaria.

Deduce il ricorrente come le indennità di esproprio siano assoggettate a una ritenuta di imposta nella misura del 20%, benché sia in facoltà del contribuente optare, in sede di dichiarazione annuale, per la tassazione ordinaria, con conseguente effettuazione della ritenuta a titolo di acconto e determinazione dell’imposta dovuta sulla sola plusvalenza, in relazione al valore di perizia.

Evidenzia il ricorrente come l’opzione del regime di tassazione debba essere fatto in dichiarazione, richiamandosi alla sentenza di primo grado, che aveva accertato come fosse stata omessa la presentazione della dichiarazione dei redditi per l’anno di imposta 2007.

2 – Va rigettata l’eccezione di inammissibilità del ricorso, essendo il motivo sufficientemente specifico, anche in relazione alle norme impugnate.

3 – Il ricorso è fondato.

3.1 – Risulta dalla narrativa della sentenza impugnata che la contribuente non ha presentato alcuna dichiarazione dei redditi per l’anno di imposta 2007.

La circostanza è, del resto, accertata dal giudice di primo grado, la cui motivazione è stata riportata dal ricorrente in ossequio al principio di specificità, per cui tale accertamento, non oggetto di specifica censura, né di revisione in appello, deve ritenersi passato in giudicato.

3.2 – Deve, a questo proposito, ribadirsi il principio più volte affermato da questa Corte secondo cui la ritenuta operata dall’Ente espropriante sull’indennità di esproprio è effettuata a titolo di imposta e non a titolo di ritenuta di acconto «solo in presenza di opzione per la tassazione ordinaria, con l’obbligo del contribuente di esporre in dichiarazione, nel quadro M del modello 740, fra i redditi diversi, l’ammontare dell’indennità di esproprio, l’ammontare delle ritenuta e, nella colonna 7, l’opzione per la tassazione ordinaria», non ricorrendo tale ipotesi nel caso in cui il ricorrente non esponga nella dichiarazione dei redditi l’indennità di esproprio (Cass., Sez. V, 25 giugno 2019, n. 16963).

3.3 – Solo nel caso in cui il contribuente opti espressamente nella dichiarazione dei redditi per la tassazione ordinaria, l’imposta dovuta è determinata tenendo conto della sola plusvalenza, unitamente alle altre componenti reddituali (Cass., Sez. V, 17 maggio 2017, n. 12275; Cass., Sez. V, 25 novembre 2011 n. 24908; Cass., 8 febbraio 2005, n. 2490), permanendo, diversamente, la natura di ritenuta effettuata a titolo di imposta (art. 11, comma 7, I. n. 413/1991: «gli enti espropriami, all’atto della corresponsione delle somme di cui ai commi 5 e 6 […] devono operare una ritenuta a titolo di imposta nella misura del 20 per cento. E facoltà del contribuente optare, in sede di dichiarazione annuale dei redditi per la tassazione ordinaria, nel qual caso la ritenuta si considera effettuata a titolo di acconto»). Né rileva il precedente addotto dalla contribuente in memoria, afferente a un caso del tutto differente.

3.4 – La compilazione della dichiarazione annuale e l’opzione per il regime della tassazione ordinaria costituiscono, pertanto, condizioni per l’operatività del regime di tassazione ordinaria.

Nella specie emerge dalla sentenza impugnata che la contribuente ha omesso di presentare la dichiarazione relativa all’anno di imposta 2007; conseguentemente, non è stata fatta alcuna opzione per il regime di tassazione ordinaria, per cui l’indennità di esproprio deve ritenersi assoggettata a ritenuta di imposta e non di acconto.

4 – La Corte di merito non si è attenuta a tali principi per cui la sentenza va cassata; non essendo necessari ulteriori accertamenti in fatto a termini dell’art. 384 cod. proc. civ., la causa va decisa nel merito, rigettandosi la domanda della contribuente. Le spese del doppio grado del giudizio di merito, stante l’evoluzione della giurisprudenza di legittimità, sono soggette a compensazione, le spese del giudizio di legittimità sono, invece, soggette a soccombenza.

P.Q.M. Accoglie il ricorso e, per l’effetto, cassa la sentenza impugnata e decidendo nel merito, rigetta la domanda della contribuente; dichiara compensate le spese dei due gradi del giudizio di merito; condanna D.C. al pagamento delle spese processuali del giudizio di legittimità, che liquida in complessivi € 2.300,00, oltre spese prenotate a debito. Così deciso in Roma, nell’adunanza camerale del 30 gennaio 2020

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