CASSAZIONE

La prova liberatoria annulla l’accertamento sui c/c bancari

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 7258 depositata il 22 marzo 2017 in tema di accertamento e prova liberatoria ha confermato, ritenendola congrua ed esente da vizi logici, la decisione di merito che aveva dato ragione a una contribuente oppostasi a due avvisi di accertamento fondati sulle risultanze dei registri immobiliari dai quali risultava l’acquisto di due immobili quando, per gli anni di riferimento, l’interessata non aveva presentato alcuna dichiarazione dei redditi. Ricordiamo a tal riguardo le precedenti posizioni della stessa Cassazione, espresse con la sentenza n. 1180 del 17 novembre 2011 – 27 gennaio 2012, Cass. S.U. n. 24148 del 2013 e l’ Ordinanza n. 2781 del 12 febbraio2015, che insistevano entrambe sulla necessità di ben motivare la prova liberatoria da parte del contribuente al fine di superare la presunzione di cui all’art. 32, DPR n. 600/1973 – secondo cui le movimentazioni dei conti correnti bancari legittimano l’accertamento di maggiori ricavi – non può essere meramente generica ma deve essere specifica in relazione a ogni singola operazione. Del resto, insistono gli Ermellini, qualora l’accertamento effettuato dall’ufficio finanziario si basi su verifiche di conti correnti bancari, l’onere probatorio dell’Amministrazione è soddisfatto attraverso i dati e gli elementi risultanti dai conti stessi, determinando così un’inversione dell’onere della prova a carico del contribuente, il quale deve dimostrare che gli elementi desumibili dalla movimentazione bancaria non sono riferibili a operazioni imponibili fornendo, a tal fine, una prova non generica ma analitica, con l’indicazione specifica della riferibilità di ogni versamento bancario, in modo da dimostrare come ciascuna delle operazioni effettuate sia estranea a fatti imponibili.

Nel caso di specie, la CTR aveva giustamente giudicato che la contribuente, attraverso la produzione bancaria depositata in atti, avesse dimostrato di aver proceduto agli acquisti immobiliari grazie al denaro derivante da una rimessa del fidanzato. Dalla documentazione della banca, prodotta in atti, si deduceva puntualmente che l’accredito era stato effettuato a titolo di regalia con la specifica di un acquisto immobiliare. Motivo, questo, ritenuto corretto dalla Suprema corte e che: “… Secondo la condivisa giurisprudenza di legittimità, nelle ipotesi di omessa presentazione della dichiarazione da parte del contribuente, la legge abilita l’Ufficio delle imposte a servirsi di qualsiasi elemento probatorio ai fini dell’accertamento del reddito e, quindi, a determinarlo anche con metodo induttivo ed anche utilizzando, in deroga alla regola generale, presunzioni semplici prive dei requisiti di cui al terzo comma dell’art. 38 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, sul presupposto dell’inferenza probatoria dei fatti costitutivi della pretesa tributaria ignoti da quelli noti, di tal che, a fronte della legittima prova presuntiva offerta dall’Ufficio, incombe sul contribuente l’onere di dedurre e provare i fatti impeditivi, modificativi o estintivi della predetta pretesa (Sez. 5, n. 19174 del 15/12/2003, Rv. 568917 – 01). Se dunque può ritenersi evidente che l’accertamento effettuato a norma dell’art. 41 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 (con il ricorso, da parte dell’ufficio finanziario, a presunzioni anche “supersemplici”) comporta l’inversione dell’onere della prova a carico del contribuente, il problema posto all’attenzione di questa Corte risiede nello stabilire quali requisiti debba avere la prova contraria, posta a carico del contribuente, rispetto alla assenza di redditi imponibili, e cioè al fatto che la disponibilità patrimoniale non dipende da redditi prodotti nell’anno o dipende da redditi esenti da imposte o in ordine ai quali sia già stata effettuata la ritenuta alla fonte . Ad avviso del Collegio, al fine di valutare l’idoneità della dimostrazione in parola, occorre partire dal presupposto che la legge non tipizza la prova in parola e questa dunque può essere offerta con qualsiasi elemento idoneo a fornire adeguata certezza circa la natura non reddituale dell’elemento preso in considerazione dal Fisco in sede di accertamento. Nel caso di specie i giudici di merito, con motivazione congrua ed esente da vizi logici, hanno ritenuto che la contribuente, attraverso la produzione della documentazione bancaria, ha dimostrato di aver proceduto agli acquisti immobiliari di causa grazie al denaro derivante da una rimessa derivante dal futuro marito; ciò sulla base di documentazione bancaria dalla quale si evinceva l’accredito a titolo di regalia (cfr. pag. 4 sentenza impugnata) in quanto specificava che il motivo dell’introito era un “acquisto immobile” e la causale era costituita da “sussidi e regalie”. In considerazione della natura di estratto di scrittura contabile, detta documentazione forniva anche indicazione sulle date dei movimenti, dai quali si poteva apprezzare la sequenza temporale dell’operazione di accredito e poi di quella di addebito degli assegni circolari utilizzati per l’acquisto. Né la questione della eventuale nullità sotto il profilo civilistico della donazione fatta con forme diverse da quella previste dalla legge elide la prova del fatto storico che le somme hanno una provenienza non reddituale; peraltro, la liberalità in questione ben può essere valutata come donazione indiretta, prevista e regolata dall’art. 809 cod.civ. . Alla luce di tali considerazioni può dunque ritenersi che l’affermazione fatta dai giudici pugliesi nella sentenza impugnata sia sufficiente, pur nella sua concisione, ad esplicitare il percorso logico-deduttivo da quelli seguito ed il convincimento dai medesimi formatosi all’esito dell’esame degli elementi probatori emergenti ex actis e costituiti dalla documentazione bancaria prodotta dalla contribuente. Peraltro, per costante giurisprudenza di questa Corte, il vizio di insufficienza della motivazione sussiste soltanto qualora dal ragionamento del giudice di merito, come risultante dalla sentenza impugnata, emerga che sono stati del tutto tralasciati elementi che avrebbero potuto condurre ad una diversa decisione, ovvero quando sia evincibile l’obiettiva carenza del procedimento logico posto alla base della decisione; il vizio non sussiste, invece, quando vi sia mera difformità rispetto alle attese ed alle deduzioni della parte ricorrente sul valore e sul significato attribuibili agli elementi delibati (cfr., ex multis, Cass. S.U. n. 24148 del 2013). Tanto premesso, il terzo motivo, relativo al vizio di motivazione circa la ritenuta natura liberale del bonifico, risulta inammissibile sul base del rigetto del motivo relativo alla dimostrazione della natura extra reddituale della provvista di causa”.

 

CORTE DI CASSAZIONE Sentenza n. 7258 del 22 marzo 2017

Ritenuto in fatto

  1. Con sentenza n. 393 del 5.10.2010 la Commissione Tributaria Regionale di Bari -sez.dist. di Foggia- rigettava l’appello proposto dall’Agenzia delle entrate avverso la sentenza di primo grado della CTP di Foggia che aveva accolto il ricorso proposto da R.A. avverso due avvisi di accertamento con i quali l’Amministrazione finanziaria, sulla scorta delle risultanze dei registri immobiliari, dai quali risultava l’acquisto di due immobili per un valore di oltre 557.000 Euro, e in assenza di presentazione delle dichiarazioni dei redditi, accertava per gli anni 1999 e 2000 circa € 100.000 di redditi per ogni anno alla luce dell’art. 38, commi 4, 5 del DPR n. 600/73.

1.1. Confermavano i giudici di appello la statuizione di primo grado secondo la quale la contribuente aveva offerto la dimostrazione che gli acquisti erano stati effettuati con denaro proveniente da una rimessa effettuata dal coniuge e che, in assenza di ulteriori indizi, poteva ritenersi che le somme predette non fossero il risultato di redditi non dichiarati.

  1. Avverso tale statuizione ricorre per cassazione l’Agenzia delle entrate prospettando tre motivi, ai quali l’intimata replica con controricorso e ricorso incidentale sulle spese di lite, compensate con motivazione che si dice generica e insufficiente.

Considerato in diritto

  1. Con il primo motivo di ricorso la ricorrente deduce, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 4, c.p.c., la violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c., error in procedendo per violazione del principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato, avendo l’Amministrazione ricorrente formulato espresso motivo di gravame, sul quale il giudice di appello non si è pronunciato, per non aver tenuto conto del profilo che denunziava l’errore di non avere valutato la circostanza della omessa presentazione della dichiarazione dei redditi e, pertanto, che la fattispecie era riconducibile all’art. 41 e non all’art. 38 comma 4 del D.P.R. n. 600/73 (che richiede la sussistenza degli “ulteriori indici” di cui al D.M. 10.9.1992); invece, nel caso di specie, di omessa presentazione della dichiarazione dei redditi, è possibile procedere ad accertamento sulla sola base dell’incremento patrimoniale del contribuente; ipotesi differente da quella di accertamento derivante da elementi o indici presuntivi, che invece pare essere stata presa a riferimento dai giudici del merito.
  2. Con il secondo motivo di ricorso la ricorrente deduce, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., la violazione degli artt. 38 e 41 del D.P.R. 600/1973, rilevando che i giudici del merito hanno erroneamente ritenuto assolto l’onere probatorio gravante sulla contribuente in base al semplice rilievo del percepimento, da parte della stessa, di somme bonificate da un terzo (indicato essere -allora- il futuro marito), aspetto che, invece, non dimostra il carattere veramente liberale di tale operazione di accredito.
  3. Con il terzo motivo di ricorso la ricorrente deduce, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 4, c.p.c., violazione e falsa applicazione dell’art. 132 c.p.c. e dell’art. 36 del D.Lgs. 546/1992, con nullità della sentenza e/o del procedimento , nonché omessa motivazione circa un fatto decisivo e controverso in relazione all’art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c., avendo il collegio di appello motivato in maniera carente il proprio convincimento, non esplicitando i motivi per i quali il bonifico di causa doveva costituire liberalità .

La contribuente si oppone con controricorso e ricorso incidentale sulle spese di lite, compensate con motivazione che si dice generica e insufficiente.

  1. I ricorsi sono infondati.

4.1. E’ infondata la deduzione secondo la quale il collegio di secondo grado non ha tenuto conto del motivo relativo alla applicabilità alla fattispecie dell’art. 41 per non avere la contribuente presentato la dichiarazione dei redditi. Infatti, il giudice di merito ha valutato come legittima qualificazione giuridica il rinvio all’art. 41 in corso di giudizio. Tuttavia, ha ritenuto raggiunta la prova della provenienza non reddituale delle somme.

4.2. Il secondo e terzo motivo possono valutarsi congiuntamente.

Secondo la condivisa giurisprudenza di legittimità, nelle ipotesi di omessa presentazione della dichiarazione da parte del contribuente, la legge abilita l’Ufficio delle imposte a servirsi di qualsiasi elemento probatorio ai fini dell’accertamento del reddito e, quindi, a determinarlo anche con metodo induttivo ed anche utilizzando, in deroga alla regola generale, presunzioni semplici prive dei requisiti di cui al terzo comma dell’art. 38 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, sul presupposto dell’inferenza probatoria dei fatti costitutivi della pretesa tributaria ignoti da quelli noti, di tal che, a fronte della legittima prova presuntiva offerta dall’Ufficio, incombe sul contribuente l’onere di dedurre e provare i fatti impeditivi, modificativi o estintivi della predetta pretesa (Sez. 5, n. 19174 del 15/12/2003, Rv. 568917 – 01).

Se dunque può ritenersi evidente che l’accertamento effettuato a norma dell’art. 41 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 (con il ricorso, da parte dell’ufficio finanziario, a presunzioni anche “supersemplici”) comporta l’inversione dell’onere della prova a carico del contribuente, il problema posto all’attenzione di questa Corte risiede nello stabilire quali requisiti debba avere la prova contraria, posta a carico del contribuente, rispetto alla assenza di redditi imponibili, e cioè al fatto che la disponibilità patrimoniale non dipende da redditi prodotti nell’anno o dipende da redditi esenti da imposte o in ordine ai quali sia già stata effettuata la ritenuta alla fonte .

Ad avviso del Collegio, al fine di valutare l’idoneità della dimostrazione in parola, occorre partire dal presupposto che la legge non tipizza la prova in parola e questa dunque può essere offerta con qualsiasi elemento idoneo a fornire adeguata certezza circa la natura non reddituale dell’elemento preso in considerazione dal Fisco in sede di accertamento.

Nel caso di specie i giudici di merito, con motivazione congrua ed esente da vizi logici, hanno ritenuto che la contribuente, attraverso la produzione della documentazione bancaria, ha dimostrato di aver proceduto agli acquisti immobiliari di causa grazie al denaro derivante da una rimessa derivante dal futuro marito; ciò sulla base di documentazione bancaria dalla quale si evinceva l’accredito a titolo di regalia (cfr. pag. 4 sentenza impugnata) in quanto specificava che il motivo dell’introito era un “acquisto immobile” e la causale era costituita da “sussidi e regalie”. In considerazione della natura di estratto di scrittura contabile, detta documentazione forniva anche indicazione sulle date dei movimenti, dai quali si poteva apprezzare la sequenza temporale dell’operazione di accredito e poi di quella di addebito degli assegni circolari utilizzati per l’acquisto. Né la questione della eventuale nullità sotto il profilo civilistico della donazione fatta con forme diverse da quella previste dalla legge elide la prova del fatto storico che le somme hanno una provenienza non reddituale; peraltro, la liberalità in questione ben può essere valutata come donazione indiretta, prevista e regolata dall’art. 809 cod.civ. .

Alla luce di tali considerazioni può dunque ritenersi che l’affermazione fatta dai giudici pugliesi nella sentenza impugnata sia sufficiente, pur nella sua concisione, ad esplicitare il percorso logico-deduttivo da quelli seguito ed il convincimento dai medesimi formatosi all’esito dell’esame degli elementi probatori emergenti ex actis e costituiti dalla documentazione bancaria prodotta dalla contribuente.

Peraltro, per costante giurisprudenza di questa Corte, il vizio di insufficienza della motivazione sussiste soltanto qualora dal ragionamento del giudice di merito, come risultante dalla sentenza impugnata, emerga che sono stati del tutto tralasciati elementi che avrebbero potuto condurre ad una diversa decisione, ovvero quando sia evincibile l’obiettiva carenza del procedimento logico posto alla base della decisione; il vizio non sussiste, invece, quando vi sia mera difformità rispetto alle attese ed alle deduzioni della parte ricorrente sul valore e sul significato attribuibili agli elementi delibati (cfr., ex multis, Cass. S.U. n. 24148 del 2013).

4.2.1. Tanto premesso, il terzo motivo, relativo al vizio di motivazione circa la ritenuta natura liberale del bonifico, risulta inammissibile sul base del rigetto del motivo relativo alla dimostrazione della natura extra reddituale della provvista di causa.

  1. In relazione al ricorso incidentale proposto dalla resistente rispetto alle spese di lite, osserva il Collegio che nel processo tributario, in virtù del rinvio contenuto nell’art. 15, comma 1, del d.lgs. n. 546 del 1992, ai procedimenti instaurati dopo il 1° marzo 2006 si applica l’art. 92, comma 2, c.p.c., nella versione emendata dall’art. 2, comma 1, lett. a), della legge n. 263 del 2005, sicché la compensazione delle spese richiede la concorrenza di “altri giusti motivi, esplicitamente indicati in motivazione”. Nel caso di specie, il giudice di appello ha respinto il motivo di gravame con il richiamo alla particolarità della fattispecie oggetto di giudizio, facendo evidente seppur implicito riferimento anche alle incertezze giurisprudenziali in merito alle numerose questioni di diritto coinvolte nella decisione. Il motivo è dunque infondato .
  2. In estrema sintesi, i ricorsi vanno rigettati e la ricorrente condannata al pagamento delle spese processuali liquidate come in dispositivo, oltre rimborso forfettario nella misura del 15% ed accessori di legge.

P.Q.M.

Rigetta i ricorsi e condanna l’Agenzia ricorrente al pagamento delle spese processuali, liquidate in 6.000,00 euro, di cui 200,00 euro per esborsi, oltre accessori come per legge.

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