CASSAZIONE IVA

La Cassazione legittima l’accertamento sulle vendite on line

Tributi – Irpef – Irap – Iva – Accertamento – Vendita di orologi di valore su eBay – Omissione degli adempimenti tributari –  Omessa presentazione di dichiarazione dei redditi – Rilevanza fiscale dell’attività – Recupero a tassazione e irrogazione sanzioni – Accertamento induttivo del reddito – Legittimità

La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 26554 del 23 novembre 2020, intervenendo in tema di applicazione dell’IVA sui commerci on line, ha sentenziato che è legittimo assoggettare a tassazione le vendite effettuate, precisando anche che non può essere ritenuta rilevante la buona fede del contribuente che riteneva fiscalmente marginale il trasferimento di beni tra privati.

Gli Ermellini dunque confermano i precedenti orientamenti in base ai quali, se la vendita on line non è occasionale ma abituale, i guadagni derivanti dalle cessioni effettuate sul Web non possono essere qualificati come redditi diversi o redditi occasionali, autorizzando così l’attività impositiva dell’ufficio.

Appare utile ora ricordare un pronunciamento, espresso dalla Commissione tributaria di Firenze (sentenza 03/19/2012) che già chiariva sul punto in questione che: “… la nozione tributaristica dell’esercizio di imprese commerciali non coincide con quella civilistica, giacché l’art. 51 del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 intende come tale l’esercizio per professione abituale, ancorché non esclusiva, delle attività indicate dall’art. 2195 cod. civ.”.

Pertanto, per il Fisco si configura l’attività di impresa ogni qualvolta vi sia un numero rilevante di transazioni di e-commerce che evidenzino una certa abitualità. Di conseguenza anche i proventi ricavati sono considerati automaticamente redditi di impresa poiché ritenuti redditi derivanti dall’esercizio di impresa commerciale. In buona sostanza, dovrebbe essere chiaro che chi vende on line praticando una vera e propria attività d’impresa deve dichiarare i ricavi derivanti ai fini delle imposte dirette, IVA e IRAP.

Nella fattispecie odierna i Supremi Giudici di legittimità hanno respinto il ricorso di un contribuente al quale l’Agenzia delle entrate aveva comunicato degli avvisi di accertamento per avere esercitato attività di commercio di orologi on line, senza dichiarare l’inizio dell’attività, emettere le fatture per le operazioni poste in essere e, infine, senza presentare le relative dichiarazioni annuali: venivano ripresi a tassazione i ricavi accertati.

Per la Cassazione, in definitiva, è giusto procedere alla tassazione delle vendite – nello specifico parliamo di orologi preziosi – ritenendo che i beni usati devono essere assoggettati a Irpef, Iva e Irap.

La pronuncia con molta probabilità susciterà più di qualche interrogativo sulle conseguenze economiche e commerciali che potrebbero ricadere sul settore della vendita di beni usati on line, considerando che l’e-commerce cresce anno dopo anno, interessa milioni di persone che grazie alla rete sono in grado si accedere ai siti di annunci, ai social network, a sistemi di vendita più professionali messi a disposizione dai grandi player del mondo dell’e-commerce. Secondo l’Osservatorio B2C del Politecnico di Milano – dati resi noti l’11 luglio 2020 – il movimento di denaro del settore raggiungerà i 22,7 miliardi di euro a fine 2020 (+26%), ovvero 4,7 miliardi di euro in più rispetto al 2019.

Dal punto di vista fiscale, e in modo del tutto convenzionale, prendiamo atto che la vendita di un bene personale usato è un’attività priva di utilità economica, nel senso che è incapace di generare un plusvalore e quindi un reddito da sottoporre a tassazione. Pertanto, tutti i beni personali o in ogni caso destinati all’uso familiare possono essere venduti con qualsiasi mezzo, senza la necessità di rispettare alcuna formalità dal punto di vista fiscale.

Diverso è il caso in cui i beni venduti non siano beni personali.

In tal caso si rientra nell’ambito di un’attività economica, in quanto tale soggetta ad adempimenti fiscali differenti a seconda che sia esercitata in via occasionale oppure continuativa. Se l’attività viene svolta in via occasionale, i redditi derivanti andranno dichiarati e tassati e, a tal fine, è sufficiente emettere una ricevuta senza bisogno neppure di aprire una partita IVA. Nell’ipotesi, invece, in cui l’attività commerciale sia esercitata in modo abituale, i redditi conseguiti vengono considerati come redditi d’impresa e in questo caso è necessaria la partita IVA.

In caso di omessa dichiarazione fiscale la Suprema Corte, con le ordinanze n. 26987/2019 e n. 26107/2018, ha ritenuto legittimo accertare il reddito imponibile del contribuente anche sulla base delle vendite on line scoperte dal sito di eBay. Tali transazioni, infatti, consentono la tracciabilità sia del pagamento che della consegna delle merci e costituiscono valide presunzioni su cui fondare la ricostruzione induttiva del reddito: spetta al contribuente fornire la prova contraria alla pretesa erariale.

Secondo le citate pronunce, l’ufficio finanziario può rettificare la dichiarazione dei redditi e contestare un’evasione fiscale servendosi dell’elenco delle attività di vendita e acquisto di prodotti tramite il canale informatico dello stesso sito di eBay: spetta al contribuente dimostrare che il reddito non è stato prodotto o è stato prodotto in misura inferiore a quella determinata in via presuntiva.

Per i giudici della Corte le informazioni sulle vendite realizzate attraverso eBay o altre piattaforme di commercio elettronico sono perfettamente utilizzabili da Guardia di Finanza e Agenzia delle entrate per le loro attività.

Così come appare evidente nel caso deciso – la pronunzia n. 26107/2018 – la pretesa impositiva si è basata sul dato di fatto che nella vendita on line la consegna della merce segue il pagamento del prezzo e grazie alla consultazione dell’elenco delle transazioni trasmesso da eBay Europe S.a.r.l. è stato possibile individuare le aste alle quali ha partecipato il contribuente e le vendite di volta in volta andate a buon fine, per essere state consegnate le merci. Poiché i pagamenti avvengono per via elettronica tutte le transazioni sono tracciate e, pertanto, la compravendita può essere provata sia riguardo all’importo, sia riguardo al tempo. L’Agenzia delle entrate può dunque ricostruire dettagliatamente tutti gli importi accreditati al contribuente.

Accanto ai controlli su conti correnti e carte ricaricabili, le operazioni on line sono tracciabili e utilizzabili dal Fisco grazie ai dati comunicati da eBay, che comunica periodicamente tutti i movimenti per ogni singolo utente, consultabili poi dalle autorità fiscali attraverso una specifica banca dati.  

Tanto premesso e tornando al caso oggi dibattuto, un contribuente che aveva iniziato a vendere su eBay dei beni usati provenienti da una sua collezione privata e da acquisti effettuati presso i mercatini di zona, aveva ricevuto nel proprio domicilio la visita della Guardia di Finanza che, nel processo verbale di constatazione, ha ritenuto di accertare che il ricorrente aveva svolto il commercio on line di beni usati senza dichiararne l’inizio dell’attività, senza provvedere all’emissione delle obbligatorie fatture di vendita, né presentando le relative dichiarazioni dei redditi.

L’Agenzia delle entrate emetteva tre avvisi di accertamento. Il contribuente, esperiti i ricorsi presso i due gradi della giustizia tributaria, in entrambi i quali era risultato soccombente, proponeva ricorso per cassazione contestando la pretesa erariale, dato che i beni usati venduti su una piattaforma digitale erano soggetti anche al diritto di recesso, e affermando la propria buona fede appellandosi all’articolo 10 dello Statuto dei diritti del contribuente.

A tal proposito la Cassazione richiamava un suo recente orientamento in base al quale, ai fini della responsabilità per le sanzioni, sono sufficienti la coscienza e la volontà della condotta e che, comunque, l’onere della prova degli elementi idonei a sostenere la buona fede grava sull’autore dell’infrazione. Gli Ermellini, nel dichiarare inammissibile il ricorso, hanno affermato che “… Passando al merito in ordine ai soli avvisi non interessati dalla declaratoria di inammissibilità, il primo motivo denuncia ‘violazione degli artt. 2697, 2729 e 2709 c.c. (onere probatorio e uso corretto delle presunzioni)’, lamentando il ricorrente, in realtà, la mancata allegazione o integrale riproduzione nell’avviso non solo del pvc ma anche, e soprattutto, dei documenti, acquisiti presso il contribuente, oggetto di mera rielaborazione (mediante redazione di un prospetto) e, dunque, inidonei a fondare idonee presunzioni.  Il motivo è inammissibile e per più ragioni. Il pvc, infatti, era conosciuto dal contribuente, attestando la stessa CTR l’avvenuta notifica dell’atto e tale statuizione non è stata in alcun modo censurata. L’asserita mancata allegazione e/o riproduzione integrale della ulteriore documentazione acquisita presso il contribuente – oltre ad essere del tutto carente per specificità attesa l’omessa riproduzione in ricorso dell’avviso, del pvc e della invocata documentazione – è inammissibile per novità, trattandosi di questione di cui non v’è traccia in sentenza, né, comunque, risulta mai sollevata nel giudizio, nulla avendo specificato il ricorrente. Il secondo motivo denuncia ‘violazione dei principi probatori dell’accertamento tributario e in particolare dell’art. 39 dpr n. 600/73’. Il ricorrente deduce l’eccessività dell’utile a fronte delle percentuali ricavabili dallo studio di settore applicabile al commercio al dettaglio di beni usati e, comunque, l’inidoneità delle ordinarie presunzioni trattandosi di commercio operato tramite e-Bay, come tale suscettibile di essere posto nel nulla anche successivamente alla vendita per l’esercizio del diritto di recesso. Lamenta, infine, il mancato riconoscimento dei costi propri di e-Bay e di paypal e che, in ogni caso, la mancata documentazione dei costi di acquisto dei beni era dovuta alle modalità di reperimento, presso mercatini di paese senza emissione di fattura, e al convincimento di svolgere una attività priva di rilevanza fiscale.  Il terzo motivo denuncia ulteriormente ‘violazione dei principi dell’accertamento tributario e dell’uso delle presunzioni’, ribadendo l’irrilevanza delle dichiarazioni contabili acquisite che non erano finalizzate ad una rendicontazione formale. I motivi, che possono essere esaminati congiuntamente, sono inammissibili.  Le doglianze, formulate in termini del tutto aspecifici e irrituali (il terzo motivo neppure potendosi effettivamente ascrivere ad una censura per carente individuazione del punto della decisione oggetto di contestazione), anche a volerli ricondurre a censure motivazionali, sono, in realtà, inammissibili, risolvendosi in contestazioni, del tutto generiche e irrelate, alla stessa valutazione delle prove operata dal giudice d’appello in vista di un riesame del merito del giudizio, preclusa in sede di legittimità anche alla stregua dell’art. 360 n. 5 c.p.c. nel testo anteriore alle modifiche operate con la I. n. 69 del 2009 e, dunque, a maggior ragione nella vigenza del nuovo testo. Non si pone, poi, alcuna lesione dei ‘principi probatori’ atteso che incombeva sul contribuente, a fronte delle allegazioni dell’Ufficio, fornire elementi di prova contraria, idonei a dimostrare l’esistenza di elementi negativi di reddito, e ciò, tanto più, che, come accertato dalla Commissione tributaria di II grado di Trento, l’accertamento operato non era meramente induttivo ma analitico induttivo. Né è configurabile un irrituale uso delle presunzioni a soggetto non imprenditore, avendo il giudice d’appello, con congrua e ampia motivazione, qualificato in termini univoci l’attività svolta dal contribuente. Priva di ogni riscontro è poi la deduzione, inammissibilmente introdotta solo con la memoria, secondo cui il contribuente si sarebbe limitato a disfarsi ‘di una collezione famigliare (per bisogno economico)’. Il quarto motivo denuncia ‘violazione dell’art. 8 del d.lgs. 546/92 e art. 10 dello Statuto del contribuente’ per aver il contribuente ritenuto in buona fede l’irrilevanza fiscale della propria condotta. Pure tale doglianza è inammissibile. La censura, incentrata sulle norme che attribuiscono rilievo alla obbiettiva incertezza della norma tributaria e all’affidamento ingenerato da condotte dell’Amministrazione finanziaria, è, peraltro, sviluppata fondamentalmente sulla asserita buona fede (soggettiva) del contribuente, limitandosi a dedurre avvenute rassicurazioni da parte degli uffici finanziari locali sull’irrilevanza fiscale delle operazioni di vendita tra privati, determinando un irrisolvibile contrasto sulle ragioni di doglianza. In ogni caso, esclusa la sussistenza dell’obbiettiva incertezza della norma tributaria (neppure oggetto di precisazione) e la configurabilità dell’affidamento per le condotte degli Uffici locali (meramente invocato e in alcun modo specificato, né in sede di merito, né con il ricorso), è corretta la statuizione impugnata poiché, ai fini della responsabilità per le sanzioni, è «sufficiente la coscienza e la volontà della condotta, senza che occorra la dimostrazione del dolo o della colpa, la quale si presume fino alla prova della sua assenza, che deve essere offerta dal contribuente e va distinta dalla prova della buona fede, che rileva, come esimente, solo se l’agente è incorso in un errore inevitabile, per essere incolpevole l’ignoranza dei presupposti dell’illecito e dunque non superabile con l’uso della normale diligenza» (Cass. n. 2139 del 30/01/2020), occorrendo, a tale ultimo fine, da un lato, «che sussistano elementi positivi, estranei all’autore dell’infrazione, che siano idonei ad ingenerare in lui la convinzione della liceità della sua condotta e, dall’altro, che l’autore dell’infrazione abbia fatto tutto il possibile per osservare la legge, onde nessun rimprovero possa essergli mosso, neppure sotto il profilo della negligenza omissiva, gravando sull’autore dell’infrazione l’onere della prova della sussistenza dei suddetti elementi, necessari per poter ritenere la sua buona fede» (Cass. n. 33441 del 17/12/2019). Il quinto motivo denuncia ‘errata applicazione della Legge Iva (uso erroneo dell’aliquota Iva) e sue conseguenze quanto alla misura dell’imponibile e delle sanzioni – violazione della L. Iva in relazione all’interpretazione autentica degli artt. 73 e 78 della Direttiva UE sull’Iva’ per aver la ripresa applicato l’iva direttamente sugli incassi anziché ritenere questi già comprensivi dell’imposta. Il motivo è inammissibile per novità. La questione non è stata oggetto di alcun esame da parte della CTR, né il contribuente, come è suo onere, ha specificato dove e quando la stessa sia stata sottoposta al giudice di merito. La censura, del resto, è diretta contro l’avviso e la pretesa fiscale e non contro la sentenza, che in alcun modo viene censurata. In ogni caso, la questione è infondata poiché l’invocata sentenza della Corte di Giustizia (sentenza 7 novembre 2013, nelle cause riunite C-249/12 e 250/12, Corina-Hrisi Tulicà, p. 37 e 43) ha cura di precisare che il prezzo pattuito deve ritenersi già comprensivo dell’Iva solo «nel caso in cui il fornitore non abbia la possibilità di recuperare dall’acquirente l’IVA riscossa dall’amministrazione tributaria», facoltà che, invece, nel nostro ordinamento è riconosciuta dall’art. 60, u.co., d.P.R. n. 633 del 1972. Il ricorso va pertanto dichiarato inammissibile con riguardo all’avviso per l’anno 2007, mentre va rigettato, per inammissibilità dei motivi, per il resto. Le spese, liquidate come in dispositivo, sono regolate per soccombenza”.

Corte di Cassazione – Ordinanza 23 novembre 2020, n. 26554

sul ricorso iscritto al n. 26393/2014 R.G. proposto da:

A. E., rappresentato e difeso dall’Avv. Roberto Giansante, con domicilio eletto presso il medesimo in Roma via Raffaele Caverni n. 16, giusta procura speciale in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro Agenzia delle Entrate, rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso la quale è domiciliata in Roma, via dei Portoghesi n. 12;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Commissione tributaria di secondo grado di Trento n. 72/01/13, depositata in data 10 settembre 2013.

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 16 settembre 2020 dal Consigliere Giuseppe Fuochi Tinarelli.

Rilevato che

L’Agenzia delle Entrate emetteva nei confronti dei sig. A.E. tre avvisi di accertamento per gli anni 2005, 2006 e 2007, ai fini Irpef, Irap ed Iva, per aver il contribuente svolto attività di commercio di orologi preziosi su eBay senza dichiarare né l’inizio dell’attività, né emettere le fatture per le operazioni poste in essere, né, infine, presentare le relative dichiarazioni annuali, riprendendo a tassazione i ricavi accertati, con irrogazione delle conseguenti sanzioni.

Il sig. A.E., con ricorsi del 22 aprile 2009 (con riguardo agli avvisi per gli anni 2005 e 2006) e del 18 giugno 2010 (per quello del 2007), contestava la pretesa erariale e deduceva, quanto alle sanzioni, la propria buona fede.

L’impugnazione, previa riunione dei ricorsi, era rigettata dalla Commissione tributaria di I grado di Trento.

La sentenza era confermata dal giudice d’appello.

A.E. propone ricorso per cassazione con cinque motivi, cui resiste l’Agenzia delle Entrate con controricorso.

Il contribuente deposita altresì memoria ex art. 380 bis.1 c.p.c.

Considerato che

1. Preliminarmente va dichiarata l’inammissibilità del ricorso per cassazione per tardività con riguardo all’impugnazione dell’avviso di accertamento per l’anno 2007.

Occorre rilevare che l’originario ricorso del contribuente è stato presentato – come risulta dalla sentenza impugnata – in data 18 giugno 2010, dopo quindi la modifica dell’art. 327 c.p.c. operata dall’art. 47, comma 17, I. n. 69 del 2009, interessante, ai sensi del successivo art. 58, i «giudizi instaurati dopo la data della sua entrata in vigore», avvenuta il 4 luglio 2009.

La circostanza che sia stata operata una formale riunione di più cause, poi, non fa venir meno l’autonomia delle relative domande, e, quindi, delle relative decisioni, avverso le quali l’impugnazione va proposta nelle forme e nei tempi previsti per ciascuna di esse (v. Cass. n. 25083 del 08/10/2019).

Ne deriva che, essendo stata la sentenza pubblicata in data 10 settembre 2013, la notifica del ricorso per cassazione, effettuata in data 31 ottobre 2014, se tempestiva con riguardo all’impugnazione riferita agli atti impositivi per il 2005 e il 2006, non è tale rispetto alla domanda promossa avverso l’atto impositivo per il 2007.

2. Passando al merito in ordine ai soli avvisi non interessati dalla declaratoria di inammissibilità, il primo motivo denuncia ‘violazione degli artt. 2697, 2729 e 2709 c.c. (onere probatorio e uso corretto delle presunzioni)’, lamentando il ricorrente, in realtà, la mancata allegazione o integrale riproduzione nell’avviso non solo del pvc ma anche, e soprattutto, dei documenti, acquisiti presso il contribuente, oggetto di mera rielaborazione (mediante redazione di un prospetto) e, dunque, inidonei a fondare idonee presunzioni.

2.1. Il motivo è inammissibile e per più ragioni.

Il pvc, infatti, era conosciuto dal contribuente, attestando la stessa CTR l’avvenuta notifica dell’atto e tale statuizione non è stata in alcun modo censurata.

L’asserita mancata allegazione e/o riproduzione integrale della ulteriore documentazione acquisita presso il contribuente – oltre ad essere del tutto carente per specificità attesa l’omessa riproduzione in ricorso dell’avviso, del pvc e della invocata documentazione – è inammissibile per novità, trattandosi di questione di cui non v’è traccia in sentenza, né, comunque, risulta mai sollevata nel giudizio, nulla avendo specificato il ricorrente.

3. Il secondo motivo denuncia ‘violazione dei principi probatori dell’accertamento tributario e in particolare dell’art. 39 dpr n. 600/73’. Il ricorrente deduce l’eccessività dell’utile a fronte delle percentuali ricavabili dallo studio di settore applicabile al commercio al dettaglio di beni usati e, comunque, l’inidoneità delle ordinarie presunzioni trattandosi di commercio operato tramite e-Bay, come tale suscettibile di essere posto nel nulla anche successivamente alla vendita per l’esercizio del diritto di recesso. Lamenta, infine, il mancato riconoscimento dei costi propri di e-Bay e di paypal e che, in ogni caso, la mancata documentazione dei costi di acquisto dei beni era dovuta alle modalità di reperimento, presso mercatini di paese senza emissione di fattura, e al convincimento di svolgere una attività priva di rilevanza fiscale.

3.1. Il terzo motivo denuncia ulteriormente ‘violazione dei principi dell’accertamento tributario e dell’uso delle presunzioni’, ribadendo l’irrilevanza delle dichiarazioni contabili acquisite che non erano finalizzate ad una rendicontazione formale.

3.2. I motivi, che possono essere esaminati congiuntamente, sono inammissibili.

Le doglianze, formulate in termini del tutto aspecifici e irrituali (il terzo motivo neppure potendosi effettivamente ascrivere ad una censura per carente individuazione del punto della decisione oggetto di contestazione), anche a volerli ricondurre a censure motivazionali, sono, in realtà, inammissibili, risolvendosi in contestazioni, del tutto generiche e irrelate, alla stessa valutazione delle prove operata dal giudice d’appello in vista di un riesame del merito del giudizio, preclusa in sede di legittimità anche alla stregua dell’art. 360 n. 5 c.p.c. nel testo anteriore alle modifiche operate con la I. n. 69 del 2009 e, dunque, a maggior ragione nella vigenza del nuovo testo.

Non si pone, poi, alcuna lesione dei ‘principi probatori’ atteso che incombeva sul contribuente, a fronte delle allegazioni dell’Ufficio, fornire elementi di prova contraria, idonei a dimostrare l’esistenza di elementi negativi di reddito, e ciò, tanto più, che, come accertato dalla Commissione tributaria di II grado di Trento, l’accertamento operato non era meramente induttivo ma analitico induttivo.

Né è configurabile un irrituale uso delle presunzioni a soggetto non imprenditore, avendo il giudice d’appello, con congrua e ampia motivazione, qualificato in termini univoci l’attività svolta dal contribuente.

Priva di ogni riscontro è poi la deduzione, inammissibilmente introdotta solo con la memoria, secondo cui il contribuente si sarebbe limitato a disfarsi ‘di una collezione famigliare (per bisogno economico)’.

4. Il quarto motivo denuncia ‘violazione dell’art. 8 del d.lgs. 546/92 e art. 10 dello Statuto del contribuente’ per aver il contribuente ritenuto in buona fede l’irrilevanza fiscale della propria condotta.

4.1. Pure tale doglianza è inammissibile.

La censura, incentrata sulle norme che attribuiscono rilievo alla obbiettiva incertezza della norma tributaria e all’affidamento ingenerato da condotte dell’Amministrazione finanziaria, è, peraltro, sviluppata fondamentalmente sulla asserita buona fede (soggettiva) del contribuente, limitandosi a dedurre avvenute rassicurazioni da parte degli uffici finanziari locali sull’irrilevanza fiscale delle operazioni di vendita tra privati, determinando un irrisolvibile contrasto sulle ragioni di doglianza.

In ogni caso, esclusa la sussistenza dell’obbiettiva incertezza della norma tributaria (neppure oggetto di precisazione) e la configurabilità dell’affidamento per le condotte degli Uffici locali (meramente invocato e in alcun modo specificato, né in sede di merito, né con il ricorso), è corretta la statuizione impugnata poiché, ai fini della responsabilità per le sanzioni, è «sufficiente la coscienza e la volontà della condotta, senza che occorra la dimostrazione del dolo o della colpa, la quale si presume fino alla prova della sua assenza, che deve essere offerta dal contribuente e va distinta dalla prova della buona fede, che rileva, come esimente, solo se l’agente è incorso in un errore inevitabile, per essere incolpevole l’ignoranza dei presupposti dell’illecito e dunque non superabile con l’uso della normale diligenza» (Cass. n. 2139 del 30/01/2020), occorrendo, a tale ultimo fine, da un lato, «che sussistano elementi positivi, estranei all’autore dell’infrazione, che siano idonei ad ingenerare in lui la convinzione della liceità della sua condotta e, dall’altro, che l’autore dell’infrazione abbia fatto tutto il possibile per osservare la legge, onde nessun rimprovero possa essergli mosso, neppure sotto il profilo della negligenza omissiva, gravando sull’autore dell’infrazione l’onere della prova della sussistenza dei suddetti elementi, necessari per poter ritenere la sua buona fede» (Cass. n. 33441 del 17/12/2019).

5. Il quinto motivo denuncia ‘errata applicazione della Legge Iva (uso erroneo dell’aliquota Iva) e sue conseguenze quanto alla misura dell’imponibile e delle sanzioni – violazione della L. Iva in relazione all’interpretazione autentica degli artt. 73 e 78 della Direttiva UE sull’Iva’ per aver la ripresa applicato l’iva direttamente sugli incassi anziché ritenere questi già comprensivi dell’imposta.

5.1. Il motivo è inammissibile per novità. La questione non è stata oggetto di alcun esame da parte della CTR, né il contribuente, come è suo onere, ha specificato dove e quando la stessa sia stata sottoposta al giudice di merito.

La censura, del resto, è diretta contro l’avviso e la pretesa fiscale e non contro la sentenza, che in alcun modo viene censurata.

In ogni caso, la questione è infondata poiché l’invocata sentenza della Corte di Giustizia (sentenza 7 novembre 2013, nelle cause riunite C-249/12 e 250/12, Corina-Hrisi Tulicà, p. 37 e 43) ha cura di precisare che il prezzo pattuito deve ritenersi già comprensivo dell’Iva solo «nel caso in cui il fornitore non abbia la possibilità di recuperare dall’acquirente l’IVA riscossa dall’amministrazione tributaria», facoltà che, invece, nel nostro ordinamento è riconosciuta dall’art. 60, u.co., d.P.R. n. 633 del 1972.

6. Il ricorso va pertanto dichiarato inammissibile con riguardo all’avviso per l’anno 2007, mentre va rigettato, per inammissibilità dei motivi, per il resto. Le spese, liquidate come in dispositivo, sono regolate per soccombenza.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso con riguardo all’avviso per l’anno 2007 e lo rigetta per il resto.

Condanna A.E. al pagamento delle spese a favore dell’Agenzia delle Entrate, che liquida in complessivi € 5.000,00, oltre spese prenotate a debito.

Ai sensi dell’art. 13 comma 1-quater d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1- bis dello stesso art. 13, se dovuto.

Deciso in Roma, nell’adunanza camerale del 16 settembre 2020.

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