CASSAZIONE

La Cassazione annulla il sequestro delle criptovalute

Tributi – Reato tributario –  Dichiarazione infedele – Evasione fiscale – Criptovalute – Sequestro probatorio – Presunzione – Rappresentazione di valore – Non assimilabilità valuta Stato – Asset digitale – Natura – Mezzo di scambio – Motivazione carente – Mancanza di nesso tra criptovalute e reato

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 1760 del 15 gennaio 2025, si è occupata di un caso di sequestro probatorio di cripto valute, disposto nell’ambito di un procedimento per presunta evasione fiscale,  affermando che non si può apporre la misura cautelare a fini probatori per l’importo

dell’imposta evasa in euro commisurato al valore momentaneo della criptovaluta soggetta a peculiari oscillazioni e non avente valore di moneta legale. Richiamando la giurisprudenza consolidata, la Corte ha ribadito che una motivazione meramente apparente o priva di requisiti minimi di logicità e completezza costituisce violazione di legge rilevante ai sensi dell’art. 325 c.p.p.

Sul punto, nella sentenza si legge che: “… l’Ordinanza è, per un verso, carente di motivazione in ordine al presupposto della finalità probatoria perseguita in funzione dell’accertamento dei fatti […] e, per altro verso, nel qualificare come profitto del reato di cui all’art. 4 d.lgs. n. 74 del 2000 l’ammontare dell’imposta evasa collegata alle plusvalenze derivanti da operazioni di trading di criptovalute attraverso account aperti presso diversi exchange, afferma la sussistenza del nesso di derivazione tra i bitcoin sottoposti a sequestro ed il reato, senza adeguatamente confrontarsi con le critiche contenute nell’atto di gravame” (v. Cass. SS. UU. n. 5876/2004).

In altri termini, la Corte ha censurato il fatto che il Tribunale del riesame abbia confermato il sequestro senza fornire un’adeguata giustificazione giuridica, limitandosi a richiamare genericamente gli atti di indagine ed evidenziando l’incongruenza dei giudici del riesame nel considerare le criptovalute come profitto diretto del reato e nel legittimare, di fatto, un sequestro per equivalente su un asset volatile e non assimilabile alla moneta legale.

Infatti, nel caso oggi in esame il sequestro probatorio era stato eseguito essenzialmente “per equivalente”, mediante un’illegittima requisizione di bitcoin in luogo dell’importo in euro dell’imposta ritenuta evasa: così disponendo, è stato illegittimamente attribuito ai bitcoin una natura di valuta avente corso legale nello Stato, senza peraltro valutare che il valore dei bitcoin è esposto a continue fluttuazioni. Diversamente dalle valute nazionali. come l’euro o il dollaro Usa, il valore del bitcoin (BTC) non è stabilito da una singola entità come una banca centrale; il prezzo è invece influenzato dalla domanda e dall’offerta o, più semplicemente, da quanto le persone sono disposte a pagare per averlo.

In definitiva, per la Suprema Corte non era legittima la misura cautelare reale che a fronte del reato tributario, mirando a colpirne il profitto, cioè l’imposta evasa e calcolata in euro, applicava il sequestro probatorio su criptovalute detenute dall’indagato.

Nell’ordinamento italiano il  sequestro probatorio e il sequestro per equivalente sono due istituti giuridici previsti dal diritto penale, ma hanno finalità e modalità di attuazione diverse.

Il sequestro probatorio, come è noto, ha come obiettivo la conservazione di prove che possono essere utili per l’accertamento dei fatti di reato, si applica a beni o documenti che possono fornire elementi di prova in un procedimento penale e può riguardare qualsiasi tipo di bene, come documenti, oggetti o strumenti utilizzati per commettere un reato. Il sequestro per equivalente, invece, ha come obiettivo la garanzia del risarcimento del danno o della confisca dei beni illecitamente acquisiti e si applica quando non è possibile sequestrare direttamente i beni oggetto del reato.

In sostanza, e per quello che qui interessa, il sequestro probatorio ha l’intento di preservare prove, mentre il sequestro per equivalente serve a garantire il risarcimento o la confisca. In riassunto, sebbene entrambi i sequestri siano strumenti di tutela nell’ambito del diritto penale, si differenziano per scopo, modalità e contesto di applicazione.

Il crescente diffondersi delle criptovalute sta causando una serie di fenomeni; da un lato, l’attenzione del legislatore europeo – e non solo – per l’adozione di monete virtuali statali, dall’altro, la crescente preoccupazione per il possibile uso di monete emesse su base decentralizzata per il riciclaggio di denaro, sfidando apertamente i tradizionali paradigmi legali e politici dei sistemi monetari controllati dallo Stato e alimentando inoltre la competizione tra la fornitura di denaro privato e pubblico. Vari tipi di criptovalute stanno emergendo come alternative ai formati di denaro tradizionali e/o innovativi emessi da autorità sovrane, anticipando l’alba di una nuova era per il sistema bancario centrale: quella della concorrenza aperta tra fondi privati e pubblici. Le prime a essere introdotte sul mercato sono stati i bitcoin, lanciati nel 2008 come cripto valuta e metodo di pagamento alternativo alle valute emesse dalle banche nazionali. Nel 2020 si contavano già 5.600 tipi diversi di criptovalute, per un valore globale stimato in 250 miliardi di euro (che rappresenta ancora una proporzione relativamente modesta del valore monetario totale). I tokens sono evoluzioni più recenti delle cripto valute e consistono in rappresentazioni digitali di interessi o diritti su determinate risorse.

L’introduzione di nuovi prodotti come gli stablecoins, che rappresentano valute digitali ancorate ad attività di riserva stabili, potrebbe costituire un metodo di pagamento più stabile, dal momento che il loro valore è supportato da beni reali, offrendo nuove possibilità di innovazione e utilizzo su scala più ampia.

Infine, è possibile affermare che le criptoattività sono risorse digitali utilizzabili sia come mezzo di scambio che come investimenti: a differenza del sistema bancario tradizionale, non necessitano un registro centrale, ma si basano su una tecnologia del registro distribuito, che consente di registrare le transazioni da una rete di computer in modo sicuro. Sono di natura privata, ossia non vengono emessi o garantiti da una banca centrale o da un’autorità pubblica. Come suggerisce il nome stesso, “cripto”, significa che sono protetti da crittografia.

In data 5 settembre 2024 è stato approvato il decreto legislativo 129/2024, che consente l’adeguamento dell’Italia alla normativa MiCAR (Regolamento 2023/1114 UE), il cui scopo è di introdurre nell’Unione europea una disciplina armonizzata per l’emissione, l’offerta al pubblico e la prestazione di servizi aventi a oggetto cripto-attività. La disciplina del MiCAR è applicabile dal 30 dicembre 2024 e le norme sull’emissione, l’offerta al pubblico e l’ammissione alla negoziazione di EMT e ART sono in vigore dal 30 giugno 2024 (v. Regolamento UE 2023/1114 relativo ai mercati delle cripto-attività -“MiCAR”- Comunicazione della Banca d’Italia, luglio 2024).

Tornando invece all’uso delle cripto valute, in relazione ai reati tributari il tema assume un valore sempre più rilevante, considerando la crescita delle transazioni in cripto valuta e il loro potenziale impiego per evitare o ridurre il carico fiscale, che comunque non hanno trovato una parallela e contemporanea positivizzazione della loro posizione giuridica, che si conferma ancora oggi opinabile ed opaca.

Pertanto e riassumendo, al momento attuale i bitcoin sono difficili da sequestrare rispetto agli asset tradizionali per una serie di motivi legati alla loro natura decentralizzata e alle caratteristiche tecnologiche. Di fatto il bitcoin è gestito su una rete decentralizzata, non c’è un’entità centrale (come una banca) che possa essere obbligata da un’ordinanza giudiziaria a bloccare o trasferire fondi; il controllo sui bitcoin è esclusivamente nelle mani del proprietario, che possiede le chiavi private necessarie per accedervi.

In conclusione, se i bitcoin non sono del tutto “insequestrabili”,  la loro natura decentralizzata, l’uso di chiavi private e le possibilità di anonimato rendono attualmente il sequestro molto più complesso rispetto ai beni tradizionali. Il quadro che emerge è dunque di una estrema delicatezza e rilevanza del continuo monitoraggio delle transazioni in criptovalute ai fini della prevenzione dei fenomeni di criminalità, dell’antiriciclaggio e in genere di tutti i reati tributari.

L’esigenza di chiarificazione della disciplina praticabile assume certamente un rilievo pregnante nel settore del diritto tributario, ove l’ambigua natura di un asset o di un provento rischia di tradursi in una distorsione dell’effettività del principio costituzionalmente sancito della capacità contributiva, ma si carica di importanti risvolti anche su piani più prettamente civilistici – si pensi alla vexata quaestio dei conferimenti in valute virtuali – e penalistici; ciò induce la dottrina e la giurisprudenza a porre rimedio a un formale e sostanziale vuoto legislativo, nonostante qualche iniziativa di contrasto come la recente approvazione del citato decreto 129/2024, che stabilisce le norme necessarie per l’adeguamento della normativa nazionale al Regolamento (UE) 2023/1114, comunemente noto come MiCA (Markets in Crypto-Assets Regulation), che disciplina i mercati delle cripto-attività. Inoltre, anche il legislatore eurounitario è ritornato ancora sul tema con la Direttiva (UE) 2024/1640, c.d. VI Direttiva antiriciclaggio, con il Regolamento (UE) 2024/1624 e con il Regolamento (UE) 2024/1620, che istituisce l’AMLA (Anti Money Laundering Authority), che entreranno in vigore dal 2027.

Tornando al caso oggi prospettato, esso ha inizio quando un contribuente si vede respingere il riesame cautelare proposto avverso il decreto di convalida del sequestro emesso dal Procuratore della Repubblica, avente ad oggetto una somma di denaro quale controvalore al momento del trasferimento in euro del BTC come corrispettivo di imposte evase. Il ricorrente aveva contestato la legittimità del sequestro, ritenendo che le criptovalute non potessero essere equiparate al denaro avente corso legale e, rivolgendosi alla Cassazione, presentava ricorso affidato a due motivi in cui essenzialmente lamentava la violazione di legge ex art. 325, co. 1, cod. proc. pen. per avere il Tribunale del riesame confermato il decreto di convalida del sequestro ex art. 355 cod. proc. pen., attribuendo illegittimamente alla valuta virtuale la natura di profitto di un reato tributario. La Corte di Cassazione accoglieva i motivi presentati dalla difesa del contribuente, affermando che: “… Occorre premettere altresì che il sequestro qualificato come probatorio dal pubblico ministero ha riguardato delle criptovalute per un controvalore, al momento del sequestro, di euro 120.635,25, importo ritenuto corrispondente all’imposta evasa nell’anno di imposta 2021 rispetto ad una plusvalenza, derivante da operazioni di trading di criptovalute, quantificata in euro 463.993,06. Sul concetto di moneta virtuale Sez. 2, n. 44378 del 26/10/2022, Melis, Rv. 284124, precisa che, nella direttiva 2018/843/UE del 30 maggio 2018 (in modifica della c.d. IV direttiva antiriciclaggio), la criptovaluta viene definita come “una rappresentazione di valore digitale che non è emessa o garantita da una banca centrale o da un ente pubblico, non è necessariamente legata a una valuta legalmente istituita, non possiede lo status giuridico di valuta o moneta, ma è accettata da persone fisiche e giuridiche come mezzo di scambio e può essere trasferita, memorizzata e scambiata elettronicamente”; la ratio della norma vuole evidentemente disciplinare i rapporti tra moneta virtuale e moneta corrente, senza però correttamente definire il fenomeno (disciplinando “in negativo” le caratteristiche della moneta virtuale); il considerando n. 10 della Dir. antiriciclaggio dimostra l’assunto in quanto afferma che “sebbene le valute virtuali possano essere spesso utilizzate come mezzo di pagamento, potrebbero essere usate anche per altri scopi e avere impiego più ampio, ad esempio come mezzo di scambio, di investimento, come prodotti di riserva di valore o essere utilizzate in casinò online. L’obiettivo della presente direttiva è coprire tutti i possibili usi delle valute virtuali”. La definizione che ne dà il legislatore italiano si rinviene nell’art. 1 del D.Lgs. 231/2007 come modificato dal D.Lgs. 4 ottobre 2019, n. 125 dove la moneta virtuale viene definita (lett. qq) “la rappresentazione digitale di valore, non emessa né garantita da una banca centrale o da un’autorità pubblica, non necessariamente collegata a una valuta avente corso legale, utilizzata come mezzo di scambio per l’acquisto di beni e servizi o per finalità di investimento e trasferita, archiviata e negoziata elettronicamente”; si nota subito che tale definizione aggiunge, rispetto a quella del legislatore comunitario, espressamente la finalità di investimento. La richiamata pronuncia Sez. 2, n. 44378 del 26/10/2022, nel descrivere i soggetti che operano nell’ambito delle valute virtuali, rileva che per exchanger si intende il soggetto che gestisce le piattaforme exchange, intendendosi per exchange la piattaforma tecnologica che permette di scambiare questo prodotto finanziario, la cui funzione, quindi, è quella di poter permettere di effettuare l’acquisto e la vendita delle criptovalute e di realizzare un profitto; sono stati inclusi i “prestatori di servizi relativi all’utilizzo di valuta virtuale” tra i cc.dd. soggetti obbligati (art. 3, comma 5, lett. i), D.Lgs. n. 231/07) ad iscriversi in apposito registro tenuto presso l’OAM – Organismo competente in via esclusiva ed autonoma per la gestione degli Elenchi degli Agenti in attività finanziaria e dei Mediatori creditizi – con relativo obbligo di comunicazione al Ministero Economia e Finanze (art.17 bis, comma 8 bis, D.Lgs. n. 141/2010): con la IV e la V Direttiva UE Antiriciclaggio, recepite rispettivamente con il D.Lgs. n. 90/2017 e con il D.Lgs. n. 125/2019, sono stati previsti specifici obblighi nei confronti dell’exchanger (cambiavalute di bitcoin et similia, definiti come ogni persona fisica o giuridica che fornisce a terzi, a titolo professionale, anche online, servizi funzionali all’utilizzo, allo scambio, alla conservazione di valuta virtuale e alla loro conversione da, ovvero in, valute aventi corso legale o in rappresentazioni digitali di valore, ivi 4 i comprese quelle convertibili in altre valute virtuali nonché i servizi di emissione, offerta, trasferimento e compensazione e ogni altro servizio funzionale all’acquisizione, alla negoziazione o all’intermediazione nello scambio delle medesime valute, art. 1, comma 2, lett. ff, D.Lgs. n. 231/2007) e del wallet provider (gestori di portafogli virtuali, definiti come ogni persona fisica o giuridica che fornisce, a terzi, a titolo professionale, anche online, servizi di salvaguardia di chiavi crittografiche private per conto dei propri clienti, al fine di detenere, memorizzare e trasferire valute virtuali, art. 1, comma 2, lett. ff bis)), entrambi inseriti nella categoria “altri operatori non finanziari”. Si è, quindi, affermato che, ove le monete virtuali vengano utilizzate come strumenti di investimento finanziario, la negoziazione è soggetta al rispetto delle norme in materia di intermediazione finanziaria, ivi compresa la necessaria abilitazione del soggetto intermediario (Sez. 2, Sentenza n. 26807 del 17/09/2020, De Rosa, Rv. 279590. Gli inconvenienti e i rischi collegati ai bitcoin sono, dunque, facilmente percepibili: essi non sono emessi da una banca centrale o da un’altra autorità pubblica e per essi non vige il principio nominalistico, essendo per lo più privi di regolamentazione, almeno di regolamentazione vincolante. Non svolgono le funzioni tipiche della moneta, di unità di conto e riserva di valore, per via della mancanza di potere liberatorio nei pagamenti e dell’estrema volatilità: non vi è chi possa stabilizzarne in via autoritaria i corsi e da qui discendono le oscillazioni del cambio che generano incertezze in sede di conversione. 3. Tanto premesso, l’ordinanza del Tribunale del riesame ha confermato il decreto di convalida del sequestro probatorio della somma pari a euro 120.638,20 qualificata come corpo di reato, in quanto profitto del reato di cui all’art. 4, D.Lgs. n. 74 del 2000. Tuttavia, l’ordinanza è, per un verso carente di motivazione in ordine al presupposto della finalità probatoria perseguita in funzione dell’accertamento dei fatti (Sez. U, n. 5876 del 28/01/2004, Bevilacqua, Rv. 226710), facendo rinvio agli atti di P.G. richiamati nel decreto di convalida di sequestro probatorio, senza illustrarne il contenuto, e, per altro verso, nel qualificare come profitto del reato di cui all’art. 4, D.Lgs. n. 74 del 2000 l’ammontare dell’imposta evasa collegata alle plusvalenze derivanti da operazioni di trading di criptovalute attraverso account aperti presso diversi exchange, afferma la sussistenza del nesso di derivazione tra i bitcoin sottoposti a sequestro ed il reato, senza adeguatamente confrontarsi con le critiche contenute nell’atto di gravame. Coglie nel segno, infatti, il rilievo della difesa allorquando rileva l’inconciliabilità delle motivazioni del Tribunale del riesame che, valorizzando la sussistenza del nesso di derivazione tra l’oggetto del sequestro (bitcoin) e il reato, rispetto ad un profitto del reato consistente in un’imposta evasa quantificata in euro 120.638,20, finiscono con il legittimare un sequestro probatorio del profitto del reato non diretto, ma per equivalente, perché ricadente non su moneta avente corso legale nello Stato, utilizzata per effettuare i pagamenti ed avente valore liberatorio delle obbligazioni contratte anche nei confronti dell’erario per l’estinzione del debito tributario, ma su un asset digitale rappresentato da valuta virtuale che non svolge le funzioni tipiche della moneta avente corso legale e che è soggetta a continue fluttuazioni di mercato. 4. In conclusione, alla stregua delle considerazioni svolte, si impone l’annullamento con rinvio, per nuovo esame, al Tribunale di Firenze”.

Corte di Cassazione – Sentenza 15 gennaio 2025, n. 1760

sul ricorso proposto da:

M. R., nato a Fucecchio il 28/02/1963, avverso l’ordinanza del 14/06/2024 del Tribunale del riesame di Firenze;

udita la relazione svolta dal consigliere Giovanni Giorgianni;

letta la requisitoria del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale dott. Gianluigi Pratola, che ha concluso chiedendo dichiararsi inammissibile il ricorso.

RITENUTO IN FATTO

1. Con ordinanza in data 14 giugno 2024, il Tribunale di Firenze ha respinto il riesame cautelare proposto dal ricorrente avverso il decreto di convalida del sequestro emesso dal Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Firenze in data 23 maggio 2024, avente ad oggetto la somma di denaro pari ad euro 120.638,20 quale controvalore al momento del trasferimento in euro del BTC pari a 1,88805294, corrispettivo di imposte evase per l’anno di imposta 2021.

2. Avverso l’indicata ordinanza, R. M., a mezzo del difensore di fiducia, avvocato Giuseppe Vaciago, propone ricorso per cassazione, affidandosi a due motivi di ricorso.

2.1 Con il primo motivo, lamenta violazione di legge ex art. 325 co. 1 cod. proc. pen. per avere il Tribunale del riesame confermato il decreto di convalida del sequestro ex art. 355 cod. proc. pen., attribuendo illegittimamente alla valuta virtuale la natura di profitto di un reato tributario (pagina 4 dell’ordinanza impugnata). Premette la difesa che il sequestro della valuta virtuale – 1,88805294 bitcoin – è stato operato e poi convalidato in quanto ritenuto il profitto del reato di cui all’art. 4 d.lgs. n. 74/2000, per il quale il ricorrente risulta indagato. Precisa, inoltre, la difesa che se l’ammontare dell’imposta evasa rappresenta il profitto del reato ed è l’elemento fondamentale su cui si erge il costrutto normativo del contestato reato di cui all’art. 4 d.lgs. n.74/2000, l’attività di sequestro probatorio, per essere legittima, dovrebbe avere ad oggetto esclusivamente l’ammontare dell’imposta che si considera evasa, e cioè, nel caso in esame, l’individuata somma di euro 120.638,20.

Diversamente, nel caso in esame, il sequestro probatorio, eseguito sostanzialmente per equivalente, ha avuto illegittimamente per oggetto un asset rappresentato da valuta virtuale bitcoin al posto dell’ammontare in euro dell’imposta ritenuta evasa.

Osserva il ricorrente che le valute virtuali, tra cui bitcoin, sono una rappresentazione di valore non emessa o garantita da una banca centrale o da un ente pubblico, non necessariamente legata ad una valuta legalmente istituita, che non possiede lo status giuridico di valuta o moneta, ma è accettata da persone fisiche e giuridiche come mezzo di scambio e può essere trasferita, memorizzata e scambiata elettronicamente, in sostanza un asset digitale non assimilabile alla valuta corrente di uno Stato.

Pertanto, nel caso di specie, la criptovaluta è stata considerata illegittimamente al pari dell’unica moneta avente corso legale all’interno dello Stato italiano, cioè l’euro, senza nemmeno dar peso al fatto, per nulla trascurabile, che il controvalore in euro di bitcoin è soggetto a continue fluttuazioni.

2.2 Con il secondo motivo, lamenta violazione di legge ex art. 325 co. 1 cod. proc. pen. per avere il Tribunale del riesame motivato solo apparentemente la propria ordinanza (pagine 3-4 dell’ordinanza impugnata). Lamenta il ricorrente che il Tribunale si sofferma diffusamente sulla ritenuta sussistenza del fumus e del periculum, senza nulla dire sulle ragioni di diritto che lo avrebbero portato a condividere l’orientamento dell’organo requirente, ritenendo la criptovaluta bitcoin alla stregua di profitto del reato suscettibile di sequestro, e sul perché le ragioni di diritto poste a base dalla difesa a sostegno della richiesta di riesame non sarebbero fondate.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. I motivi di ricorso, da esaminare congiuntamente perché connessi, sono fondati nei termini di seguito indicati.

1.1. In via preliminare, deve richiamarsi la costante affermazione di questa Corte (cfr. ex plurimis Sez. 2, n. 18951 del 14/03/2017, Rv. 269656), secondo cui il ricorso per cassazione contro ordinanze emesse in materia di sequestro preventivo o probatorio, ai sensi dell’art. 325 cod. proc. pen., è ammesso solo per violazione di legge, in tale nozione dovendosi comprendere sia gli “errores in iudicando” o “in procedendo”, sia quei vizi della motivazione così radicali da rendere l’apparato argomentativo posto a sostegno del provvedimento del tutto mancante o privo dei requisiti minimi di coerenza, completezza e ragionevolezza e quindi inidoneo a rendere comprensibile l’itinerario logico seguito dal giudice.

Non può invece essere dedotta l’illogicità manifesta della motivazione, la quale può denunciarsi nel giudizio di legittimità soltanto tramite lo specifico e autonomo motivo di cui alla lett. E) dell’art. 606 cod. proc. pen. (in tal senso, cfr. Sez. Un.n. 5876 del 28/01/2004, Rv. 226710).

2. Occorre premettere altresì che il sequestro qualificato come probatorio dal pubblico ministero ha riguardato delle criptovalute per un controvalore, al momento del sequestro, di euro 120.635,25, importo ritenuto corrispondente all’imposta evasa nell’anno di imposta 2021 rispetto ad una plusvalenza, derivante da operazioni di trading di criptovalute, quantificata in euro 463.993,06. Sul concetto di moneta virtuale Sez. 2, n. 44378 del 26/10/2022, Melis, Rv. 284124, precisa che, nella direttiva 2018/843/UE del 30 maggio 2018 (in modifica della c.d. IV direttiva antiriciclaggio), la criptovaluta viene definita come “una rappresentazione di valore digitale che non è emessa o garantita da una banca centrale o da un ente pubblico, non è necessariamente legata a una valuta legalmente istituita, non possiede lo status giuridico di valuta o moneta, ma è accettata da persone fisiche e giuridiche come mezzo di scambio e può essere trasferita, memorizzata e scambiata elettronicamente”; la ratio della norma vuole evidentemente disciplinare i rapporti tra moneta virtuale e moneta corrente, senza però correttamente definire il fenomeno (disciplinando “in negativo” le caratteristiche della moneta virtuale); il considerando n. 10 della Dir. antiriciclaggio dimostra l’assunto in quanto afferma che “sebbene le valute virtuali possano essere spesso utilizzate come mezzo di pagamento, potrebbero essere usate anche per altri scopi e avere impiego più ampio, ad esempio come mezzo di scambio, di investimento, come prodotti di riserva di valore o essere utilizzate in casinò online. L’obiettivo della presente direttiva è coprire tutti i possibili usi delle valute virtuali”. La definizione che ne dà il legislatore italiano si rinviene nell’art. 1 del d.lgs. 231/2007 come modificato dald.lgs. 4 ottobre 2019, n. 125 dove la moneta virtuale viene definita (lett. qq) “la rappresentazione digitale di valore, non emessa né garantita da una banca centrale o da un’autorità pubblica, non necessariamente collegata a una valuta avente corso legale, utilizzata come mezzo di scambio per l’acquisto di beni e servizi o per finalità di investimento e trasferita, archiviata e negoziata elettronicamente”; si nota subito che tale definizione aggiunge, rispetto a quella del legislatore comunitario, espressamente la finalità di investimento.

La richiamata pronuncia Sez. 2, n. 44378 del 26/10/2022, nel descrivere i soggetti che operano nell’ambito delle valute virtuali, rileva che per exchanger si intende il soggetto che gestisce le piattaforme exchange, intendendosi per exchange la piattaforma tecnologica che permette di scambiare questo prodotto finanziario, la cui funzione, quindi, è quella di poter permettere di effettuare l’acquisto e la vendita delle criptovalute e di realizzare un profitto; sono stati inclusi i “prestatori di servizi relativi all’utilizzo di valuta virtuale” tra i cc.dd. soggetti obbligati (art. 3, comma 5, lett. i), d.lgs.. n. 231/07) ad iscriversi in apposito registro tenuto presso l’OAM – Organismo competente in via esclusiva ed autonoma per la gestione degli Elenchi degli Agenti in attività finanziaria e dei Mediatori creditizi – con relativo obbligo di comunicazione al Ministero Economia e Finanze (art.17 bis, comma 8 bis, d.lgs. n. 141/2010):

con la IV e la V Direttiva UE Antiriciclaggio, recepite rispettivamente con il cligs. n. 90/2017 e con il d.lgs. n. 125/2019, sono stati previsti specifici obblighi nei confronti dell’exchanger (cambiavalute di bitcoin et similia, definiti come ogni persona fisica o giuridica che fornisce a terzi, a titolo professionale, anche online, servizi funzionali all’utilizzo, allo scambio, alla conservazione di valuta virtuale e alla loro conversione da, ovvero in, valute aventi corso legale o in rappresentazioni digitali di valore, ivi 4 i comprese quelle convertibili in altre valute virtuali nonché i servizi di emissione, offerta, trasferimento e compensazione e ogni altro servizio funzionale all’acquisizione, alla negoziazione o all’intermediazione nello scambio delle medesime valute, art. 1, comma 2, lett. ff, d.lgs. n. 231/2007) e del wallet provider (gestori di portafogli virtuali, definiti come ogni persona fisica o giuridica che fornisce, a terzi, a titolo professionale, anche online, servizi di salvaguardia di chiavi crittografiche private per conto dei propri clienti, al fine di detenere, memorizzare e trasferire valute virtuali, art. 1, comma 2, lett. ff bis)), entrambi inseriti nella categoria “altri operatori non finanziari”.

Si è, quindi, affermato che, ove le monete virtuali vengano utilizzate come strumenti di investimento finanziario, la negoziazione è soggetta al rispetto delle norme in materia di intermediazione finanziaria, ivi compresa la necessaria abilitazione del soggetto intermediario (Sez. 2, Sentenza n. 26807 del 17/09/2020, De Rosa, Rv. 279590.

Gli inconvenienti e i rischi collegati ai bitcoin sono, dunque, facilmente percepibili: essi non sono emessi da una banca centrale o da un’altra autorità pubblica e per essi non vige il principio nominalistico, essendo per lo più privi di regolamentazione, almeno di regolamentazione vincolante. Non svolgono le funzioni tipiche della moneta, di unità di conto e riserva di valore, per via della mancanza di potere liberatorio nei pagamenti e dell’estrema volatilità: non vi è chi possa stabilizzarne in via autoritaria i corsi e da qui discendono le oscillazioni del cambio che generano incertezze in sede di conversione.

3. Tanto premesso, l’ordinanza del Tribunale del riesame ha confermato il decreto di convalida del sequestro probatorio della somma pari a euro 120.638,20 qualificata come corpo di reato, in quanto profitto del reato di cui all’art. 4 d.lgs. n. 74 del 2000. Tuttavia, l’ordinanza è, per un verso carente di motivazione in ordine al presupposto della finalità probatoria perseguita in funzione dell’accertamento dei fatti (Sez. U, n. 5876 del 28/01/2004, Bevilacqua, Rv. 226710), facendo rinvio agli atti di P.G. richiamati nel decreto di convalida di sequestro probatorio, senza illustrarne il contenuto, e, per altro verso, nel qualificare come profitto del reato di cui all’art. 4 d.lgs. n. 74 del 2000 l’ammontare dell’imposta evasa collegata alle plusvalenze derivanti da operazioni di trading di criptovalute attraverso account aperti presso diversi exchange, afferma la sussistenza del nesso di derivazione tra i bitcoin sottoposti a sequestro ed il reato, senza adeguatamente confrontarsi con le critiche contenute nell’atto di gravame.

Coglie nel segno, infatti, il rilievo della difesa allorquando rileva l’inconciliabilità delle motivazioni del Tribunale del riesame che, valorizzando la sussistenza del nesso di derivazione tra l’oggetto del sequestro (bitcoin) e il reato, rispetto ad un profitto del reato consistente in un’imposta evasa quantificata in euro 120.638,20, finiscono con il legittimare un sequestro probatorio del profitto del reato non diretto, ma per equivalente, perché ricadente non su moneta avente corso legale nello Stato, utilizzata per effettuare i pagamenti ed avente valore liberatorio delle obbligazioni contratte anche nei confronti dell’erario per l’estinzione del debito tributario, ma su un asset digitale rappresentato da valuta virtuale che non svolge le funzioni tipiche della moneta avente corso legale e che è soggetta a continue fluttuazioni di mercato.

4. In conclusione, alla stregua delle considerazioni svolte, si impone l’annullamento con rinvio, per nuovo esame, al Tribunale di Firenze.

P.Q.M.

Annulla la ordinanza impugnata e rinvia per nuovo giudizio al Tribunale di Firenze competente ai sensi dell’art. 324, co. 5, c.p.p.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del 20 novembre 2024

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