CASSAZIONE FISCALITA

Interessi anatocistici: sono dovuti solo se in contemporanea con gli interessi principali

Imposte indirette – IVA – Dichiarazione – Credito d’imposta – Rimborso – Pagamento degli interessi per la ritardata restituzione del capitale- pretese restitutorie vantate dal contribuente – maggior danno da svalutazione

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 28670 del 9/11/2018, è intervenuta in merito sulla misura e sul computo degli interessi in materia di ritardato rimborso delle imposte dirette, affermando che non sono dovuti gli interessi anatocistici dal Fisco se contemporaneamente non sono più dovuti quelli principali, perché interamente pagati con la liquidazione definitiva e come nel caso in esame, ritenuta peraltro soddisfacente dalla parte contribuente. In buona sostanza i giudici del Palazzaccio hanno confermato l’inapplicabilità dell’art. 1194 c.c. attesa, da un lato, la natura derogatoria e speciale della normativa tributaria rispetto a quella civilistica e, dall’altro, il suo contenuto esaustivo, così da non consentire il ricorso analogico ai principi previsti dal diritto civile.

Il tema dell’anatocismo esistente nell’ambito tributario è da molti anni all’attenzione dei giuristi e della dottrina, nella quale emerge la questione della possibile ricorrenza di anatocismo e usura anche nel credito fiscale, azionato con la cartella esattoriale. Il tema, particolarmente delicato nasce dalla constatazione per cui normalmente le cartelle esattoriali non indicano i calcoli effettuati dall’ente riscossore per la determinazione degli interessi e questi ultimi sono sempre di importo assai rilevante. Il percorso argomentativo si comprende ponendo mente ai principi fondamentali del diritto amministrativo, ossia la imparzialità e il buon andamento della pubblica amministrazione, di cui all’articolo 98 Cost.

La più accreditata dottrina di diritto tributario ricollega alla motivazione degli atti la funzione informativa del debitore e di garanzia del diritto di difesa di quest’ultimo. La riprova di questo argomento viene esemplificata nel fatto che per le imposte dirette e per l’imposta sul valore aggiunto, l’atto può riferirsi a una pluralità di elementi del presupposto e può essere motivato da una eterogenea serie di ragioni di fatto e di diritto, la cui mancata enunciazione pone di fatto fuori gioco il diritto di difesa del contribuente e teoricamente, bisognerebbe riepilogare che il contribuente sarebbe obbligato a ricorrere senza conoscere le ragioni dell’ente impositore, e a rinviare dunque le proprie difese tecniche al momento in cui, oramai a processo avviato, l’amministrazione avesse deciso di indicare le ragioni della rettifica.

La motivazione, poi, svolge anche la importante funzione di delimitare in sede contenziosa l’oggetto del contendere, così inibendo alla pubblica amministrazione di far valere altre possibili ragioni della rettifica, diverse da quelle a suo tempo indicate in motivazione che deve contenere l’iter logico-giuridico su cui si fonda la pretesa fiscale . In sostanza, usura e anatocismo ben possono verificarsi anche con riguardo al credito fiscale che deve concludersi per la nullità dell’atto amministrativo che non indichi come sono stati calcolati gli interessi.

Ricordiamo a questo proposito quanto già affermato dalla suprema corte con la sentenza n. 12512 del 17 giugno 2015 nella quale emergeva che: “ … Gli interessi sugli interessi (anatocistici) sono dovuti solo se sono contemporaneamente dovuti anche gli interessi principali, il credito sia esigibile e il debitore sia in mora. Essenziale, altresì, la proposizione della domanda giudiziale, avente non solo il ruolo di condizione, alternativa alla convenzione tra le parti, dell’anatocismo, ma anche il ruolo di termine iniziale per la produzione di interessi secondari”.

Nel caso presentato alla S.C. alcuni contribuenti, forti di un positivo riscontro nel precedente giudizio tributario, affidavano nell’appello, costituito da otto diversi motivi, la richiesta di riconoscimento degli interessi anatocistici e al maggior danno da svalutazione.

Il Supremo Collegio, richiamando la vigente giurisprudenza del settore, non ha ritenuto valide le richieste presentate, ritenendo che: “ … Sull’argomento la Corte si è già ripetutamente pronunziata (Cass. n. 10653 del 03/08/2001 in tema di imposte dirette; Cass. n. 4767 del 09/03/2004 e Cass. n. 1486 del 25/01/2005 in materia di Iva) nel senso dell’inapplicabilità dell’art. 1194 c.c. attesa, da un lato, la natura derogatoria e speciale della normativa tributaria rispetto a quella civilistica e, dall’altro, il suo contenuto esaustivo, si da non consentire il ricorso analogico ai principi previsti dal diritto civile. Si è infatti evidenziato, in particolare, che, a differenza del codice civile, le leggi tributarie, in tema di rimborso di imposte dirette o indirette e del pagamento degli interessi per la ritardata restituzione del capitale, non contengono regole espresse sulla imputazione, al capitale o agli interessi, del “rimborso parziale”. Inoltre, la Corte Costituzionale, nel dichiarare non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 44, primo comma, del d.P.R. 602 del 1973, sulla misura e sul computo degli interessi in materia di ritardato rimborso di imposte dirette, ha ribadito la speciale natura del credito cui si riferiscono i suddetti interessi, nonché la particolarità dei soggetti aventi diritto in quanto «una peculiare disciplina in materia di interessi sui rimborsi di tributi è stata apprestata dal legislatore in considerazione delle esigenze connesse alle operazioni di liquidazione dell’imposta e degli uffici preposti allo svolgimento dei complessi procedimenti restitutori» (Corte Cost. n. 157 del 1996; n. 288 del 1988 e n. 93 del 1969). La specialità di disciplina sugli interessi in tema di rimborsi di imposte, del resto, è resa palese dalla minuziosa regolamentazione legislativa al riguardo, tale da rendere incomparabili le due discipline, quella civilistica e quella tributaria, sicché, per tale diversa natura dell’obbligazione tributaria, il potere di accertare e liquidare la somma da restituire al contribuente è attribuito esclusivamente all’Amministrazione finanziaria, senza alcuna possibilità di intervento del creditore. Orbene, questo collegio non ha motivo di discostarsi dalle affermazioni delle menzionate (seppur non recenti) decisioni non essendo stati addotti motivi convincenti per pervenire ad un diverso e contrario orientamento, neppure potendosi invocare un principio di integrità patrimoniale (essendo corrisposti sia il capitale che gli interessi maturati fino alla restituzione del primo), né, per la complessa regolamentazione che assiste la materia, una violazione del principio di uguaglianza o di affidamento. . Il terzo motivo denuncia la nullità della sentenza, ai sensi dell’art. 360 n. 4 c.p.c., per aver ritenuto nuova la domanda di riconoscimento dell’anatocismo. Il quarto (rubricato come 5) reitera la denuncia per violazione dell’art. 57 d.lgs. n. 546 del 1992. Il quinto motivo (rubricato come 6) denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 99 c.p.c.e 18, comma 1, d.lgs. n. 546 del 1992. Il sesto (rubricato come 7) denuncia omessa applicazione dell’art. 1283 c.c. I motivi, riferiti alla richiesta di riconoscimento degli interessi sugli interessi (anatocismo) e, dunque, da esaminare congiuntamente per connessione logica, sono tutti da rigettare. È ben vero, infatti, che la CTR ha errato ritenendo la domanda nuova perché asseritamente non formulata in primo grado (mentre, come dedotto dai contribuenti e come emerge dall’esame degli atti, ammissibile in relazione alle censure per error in procedendo, essa era stata formulata). Tuttavia la pretesa è infondata in diritto, sicché le doglianze per errores in procedendo sono inammissibili per carenza di interesse. L’art. 1283 c.c., stabilisce che «…gli interessi scaduti possono produrre interessi solo dal giorno della domanda giudiziale o per effetto di convenzione posteriore alla loro scadenza, e sempre che si tratti di interessi dovuti almeno per sei mesi».

Ne deriva, che il giudice può condannare al pagamento degli interessi sugli interessi solo se sia accertato (cfr. Cass. n. 4830 del 10/03/2004; Cass. n. 15695 del 23/07/2017) che:

1) alla data della domanda giudiziale erano già scaduti gli interessi principali sui quali calcolare gli interessi secondari, cioè il debito era esigibile e il debitore era in mora (Cass. n. 10434 del 18/07/2002);

2) vi sia una specifica domanda giudiziale del creditore (Cass. n. 5271 del 12/04/2002; Cass. n. 12512 del 17/06/2015) o la stipula di una convenzione posteriore alla scadenza degli interessi;

3) la mora si è protratta, anteriormente al giudizio, per almeno sei mesi, cioè deve trattarsi di crediti ultrasemestrali scaduti (Cass. n. 10434 del 18/07/2002 e n. 1964 del 12/02/2002).

La realizzazione della prima condizione comporta che gli interessi anatocistici sono dovuti solo se contemporaneamente sono dovuti anche gli interessi principali. Ora, nel caso di specie gli interessi moratori erano già stati interamente pagati nel 2003 e tale pagamento – in conseguenza del rigetto dei primi due motivi – era esaustivo di ogni debenza, sicché non era più esigibile alcunché ed era cessata la mora del debitore, mentre la domanda giudiziale degli interessi anatocistici è stata avanzata solamente con il ricorso innanzi alla CTP, depositato il 5 dicembre 2006. La domanda, dunque, è infondata”.

 

 

CORTE DI CASSAZIONE Sentenza 9 novembre 2018, n. 28670

 

Sul ricorso iscritto al n. 23941/2011 R.G. proposto da

  1. R. C. e E. F., rappresentati e difesi dagli Avv.ti Andrea Condemo e Giuseppe Marini, con domicilio eletto presso quest’ultimo in Roma, via Monti Parioli n. 48, giusta procura speciale a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro Agenzia delle entrate, rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso la quale è domiciliata in Roma, via dei Portoghesi n. 12;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale dell’Umbria n. 58/03/10, depositata il 30 giugno 2010.

Udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 4 luglio 2018 dal Cons. Giuseppe Fuochi Tinarelli.

Udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Umberto De Augustinis, che ha concluso per il rigetto.

Udito l’Avv. Ulisse Corea per delega dell’Avv. Giuseppe Marini per i contribuenti che ha concluso per l’accoglimento del ricorso.

Udito l’Avv. dello Stato Giancarlo Caselli per l’Agenzia delle entrate che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatti di causa

M.R.C. e E.F. con la dichiarazione Iva del 1983 chiedevano a rimborso la somma di lire 212.040.000, che, negato dall’Amministrazione finanziaria, veniva definitivamente riconosciuto a seguito della sentenza della Corte di cassazione n. 16395 del 1999.

L’Amministrazione procedeva, quindi, al pagamento di quanto dovuto in diverse rate, imputate prima al capitale e poi agli interessi, modalità ritenute insoddisfacenti dai contribuenti, i quali chiedevano il pagamento delle maggiori somme derivanti dalla diversa imputazione dei pagamenti parziali (prima agli interessi e poi al capitale), oltre al riconoscimento degli interessi anatocistici e al maggior danno da svalutazione.

L’impugnazione avverso il silenzio rifiuto serbato dall’Agenzia delle entrate, accolta dalla Commissione tributaria provinciale di Perugia, era respinta dal giudice d’appello.

I contribuenti ricorrono per cassazione con otto motivi;

resiste l’Agenzia delle entrate con controricorso.

Ragioni della decisione

  1. Il primo motivo denuncia violazione dell’art. 1194 c.c.; il secondo falsa applicazione degli artt. 38 bis d.P.R. n. 633 del 1972 e 44 d.P.R. n. 602 del 1972: i contribuenti lamentano, in sostanza, che la CTR ha erroneamente escluso l’applicazione dell’art. 1194 c.c. al rimborso del credito d’imposta e, quindi, ha ritenuto la legittimità dell’imputazione dei pagamenti rateali, operata dalla Amministrazione finanziaria, prima al capitale e poi agli interessi.

1.1. I motivi, da esaminare unitariamente per connessione logica, sono infondati.

Sull’argomento la Corte si è già ripetutamente pronunziata (Cass. n. 10653 del 03/08/2001 in tema di imposte dirette; Cass. n. 4767 del 09/03/2004 e Cass. n. 1486 del 25/01/2005 in materia di Iva) nel senso dell’inapplicabilità dell’art. 1194 c.c. attesa, da un lato, la natura derogatoria e speciale della normativa tributaria rispetto a quella civilistica e, dall’altro, il suo contenuto esaustivo, si da non consentire il ricorso analogico ai principi previsti dal diritto civile.

Si è infatti evidenziato, in particolare, che, a differenza del codice civile, le leggi tributarie, in tema di rimborso di imposte dirette o indirette e del pagamento degli interessi per la ritardata restituzione del capitale, non contengono regole espresse sulla imputazione, al capitale o agli interessi, del “rimborso parziale”.

Inoltre, la Corte Costituzionale, nel dichiarare non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 44, primo comma, del d.P.R. 602 del 1973, sulla misura e sul computo degli interessi in materia di ritardato rimborso di imposte dirette, ha ribadito la speciale natura del credito cui si riferiscono i suddetti interessi, nonché la particolarità dei soggetti aventi diritto in quanto «una peculiare disciplina in materia di interessi sui rimborsi di tributi è stata apprestata dal legislatore in considerazione delle esigenze connesse alle operazioni di liquidazione dell’imposta e degli uffici preposti allo svolgimento dei complessi procedimenti restitutori» (Corte Cost. n. 157 del 1996; n. 288 del 1988 e n. 93 del 1969).

La specialità di disciplina sugli interessi in tema di rimborsi di imposte, del resto, è resa palese dalla minuziosa regolamentazione legislativa al riguardo, tale da rendere incomparabili le due discipline, quella civilistica e quella tributaria, sicché, per tale diversa natura dell’obbligazione tributaria, il potere di accertare e liquidare la somma da restituire al contribuente è attribuito esclusivamente all’Amministrazione finanziaria, senza alcuna possibilità di intervento del creditore.

Orbene, questo collegio non ha motivo di discostarsi dalle affermazioni delle menzionate (seppur non recenti) decisioni non essendo stati addotti motivi convincenti per pervenire ad un diverso e contrario orientamento, neppure potendosi invocare un principio di integrità patrimoniale (essendo corrisposti sia il capitale che gli interessi maturati fino alla restituzione del primo), né, per la complessa regolamentazione che assiste la materia, una violazione del principio di uguaglianza o di affidamento.

  1. Il terzo motivo denuncia la nullità della sentenza, ai sensi dell’art. 360 n. 4 c.p.c., per aver ritenuto nuova la domanda di riconoscimento dell’anatocismo. Il quarto (rubricato come 5) reitera la denuncia per violazione dell’art. 57 d.lgs. n. 546 del 1992.

Il quinto motivo (rubricato come 6) denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 99 c.p.c.e 18, comma 1, d.lgs. n. 546 del 1992.

Il sesto (rubricato come 7) denuncia omessa applicazione dell’art. 1283 c.c.

2.1. I motivi, riferiti alla richiesta di riconoscimento degli interessi sugli interessi (anatocismo) e, dunque, da esaminare congiuntamente per connessione logica, sono tutti da rigettare.

2.2. È ben vero, infatti, che la CTR ha errato ritenendo la domanda nuova perché asseritamente non formulata in primo grado (mentre, come dedotto dai contribuenti e come emerge dall’esame degli atti, ammissibile in relazione alle censure per error in procedendo, essa era stata formulata).

Tuttavia la pretesa è infondata in diritto, sicché le doglianze per errores in procedendo sono inammissibili per carenza di interesse.

2.3. L’art. 1283 c.c., stabilisce che «…gli interessi scaduti possono produrre interessi solo dal giorno della domanda giudiziale o per effetto di convenzione posteriore alla loro scadenza, e sempre che si tratti di interessi dovuti almeno per sei mesi».

Ne deriva, che il giudice può condannare al pagamento degli interessi sugli interessi solo se sia accertato (cfr. Cass. n. 4830 del 10/03/2004; Cass. n. 15695 del 23/07/2017) che:

1) alla data della domanda giudiziale erano già scaduti gli interessi principali sui quali calcolare gli interessi secondari, cioè il debito era esigibile e il debitore era in mora (Cass. n. 10434 del 18/07/2002);

2) vi sia una specifica domanda giudiziale del creditore (Cass. n. 5271 del 12/04/2002; Cass. n. 12512 del 17/06/2015) o la stipula di una convenzione posteriore alla scadenza degli interessi;

3) la mora si è protratta, anteriormente al giudizio, per almeno sei mesi, cioè deve trattarsi di crediti ultrasemestrali scaduti (Cass. n. 10434 del 18/07/2002 e n. 1964 del 12/02/2002).

La realizzazione della prima condizione comporta che gli interessi anatocistici sono dovuti solo se contemporaneamente sono dovuti anche gli interessi principali.

Ora, nel caso di specie gli interessi moratori erano già stati interamente pagati nel 2003 e tale pagamento – in conseguenza del rigetto dei primi due motivi – era esaustivo di ogni debenza, sicché non era più esigibile alcunché ed era cessata la mora del debitore, mentre la domanda giudiziale degli interessi anatocistici è stata avanzata solamente con il ricorso innanzi alla CTP, depositato il 5 dicembre 2006.

La domanda, dunque, è infondata.

2.4. È poi irrilevante che la richiesta di anatocismo sia stata formulata con le istanze di rimborso rivolta all’Agenzia delle entrate poiché assume rilievo, per espresso dettato normativo, solo quella effettuata con domanda giudiziale.

Una simile manifestazione di volontà unilaterale, meramente ipotetica ed eventuale, non può infatti essere assimilata alla proposizione della domanda giudiziale, prevista dalla norma richiamata. Ed infatti, in mancanza di usi contrari o di una apposita convenzione tra le parti sugli interessi anatocistici, l’art. 1283 c.c., svolge la funzione di limitare l’oggetto dell’art. 1282 c.c., comma 1, secondo cui «I crediti liquidi ed esigibili di somme di denaro producono interessi di pieno diritto, salvo che la legge… stabilisca… diversamente»; limitazione che è realizzata sia prevedendo il controllo giurisdizionale sulla produzione di interessi sugli interessi, sia attribuendo alla domanda giudiziale, non solo il ruolo di condizione, alternativa alla convenzione tra le parti, dell’anatocismo, ma anche il ruolo di termine iniziale per la produzione di interessi secondari.

2.5. Né rileva che una simile (ipotetica) indicazione sia stata prospettata all’interno dell’originario giudizio per il rimborso Iva del credito del 1983 e ciò sia per il totale difetto di autosufficienza sul punto (comunque asseritamente avanzata con memoria solamente innanzi alla Commissione Tributaria Centrale), sia perché la domanda giudiziale rilevante ai fini della pretesa è quella contenuta nel ricorso introduttivo al presente giudizio.

Giova infatti evidenziare che, ai fini dell’ammissibilità della domanda, «il contribuente-creditore, che invochi il pagamento degli interessi anatocistici ex art. 1283 c.c., è tenuto ad indicare tutti gli elementi necessari alla liquidazione di essi, a cominciare dalla capitalizzazione del primo semestre di interessi maturati sul capitale ed a formulare la richiesta nell’atto introduttivo del giudizio tributario avente ad oggetto il predetto rimborso, non potendosi i citati interessi considerare un accessorio del credito principale conseguente in via automatica all’accoglimento della domanda di rimborso o di quella degli interessi» (Cass. n. 15695 del 23/07/2017).

  1. Il settimo motivo (rubricato come 8) denuncia omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione in ordine alla domanda del maggior danno da rivalutazione monetaria.

L’ottavo motivo (nuovamente rubricato come 8) denuncia, sulla medesima questione, errata applicazione dell’art. 1224, secondo comma, c.c.

3.1. I motivi, da esaminare unitariamente perché logicamente connessi, sono infondati.

Questa Corte, invero, ha di recente confermato (Cass. n. 3331 del 2017, Cass. n. 28332 del 2013), con riferimento alle pretese restitutorie vantate dal contribuente nei confronti dell’Erario, l’operatività del principio secondo il quale, nel caso di ritardato adempimento di una obbligazione pecuniaria, può liquidarsi il danno da svalutazione monetaria, sempre che il creditore deduca e dimostri che un tempestivo adempimento gli avrebbe consentito di impiegare il denaro in modo tale da elidere gli effetti dell’inflazione e salva l’applicazione – imposta dalla specificità della disciplina dell’obbligazione tributaria – di un particolare rigore nella valutazione del materiale probatorio (v. anche Sez. U, n. 16871 del 2007; Cass. n. 26403 del 2010; Cass. n. 7803 del 2016; Cass. n. 11943 del 2016).

3.2. La CTR si è attenuta a detto principio e, compiendo una valutazione di merito, ha ritenuto che i contribuenti non avessero soddisfatto al loro onere probatorio circa la ricorrenza del maggior danno da svalutazione monetaria che veniva da essi basata «sulla semplice notorietà del fatto inerente la svalutazione della moneta […] senza per contro fornirne prova alcuna».

Le censure, del resto, sostanzialmente sollecitano un riesame di quanto accertato e valutato dalla CTR, senza che, tuttavia, nulla in concreto venga in alcun modo illustrato, limitandosi i ricorrenti a dedurre, in termini del tutto generici, che «un tempestivo rimborso … avrebbe con certezza permesso di non ricorrere ad onerose forme di finanziamento esterno».

  1. Il ricorso va dunque respinto.

Le spese vanno integralmente compensate attesa la peculiarità e complessità della vicenda.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e compensa le spese.

Deciso in Roma, il 4 luglio 2018

 

 

 

Desidero ricevere in abbonamento gratuito il vostro periodico FiscotoDay