CASSAZIONE

Insufficiente e contraddittoria motivazione, l’avviso di accertamento è nullo

Tributi – IRAP – IVA – Accertamento – Difetto di motivazione – Motivazione contraddittoria e insufficiente – Riferimento all’abuso del diritto – Riferimento all’istituto dell’interposizione fittizia di persona – Nullità dell’atto

La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 18767 del 10 settembre 2020, ha respinto il ricorso dell’Agenzia delle entrate avverso una sentenza di appello nella quale i giudici tributari avevano ritenuto la motivazione dell’accertamento contraddittoria e insufficiente. Peraltro, il ricorso risultava del tutto indeterminato, tenuto conto del fatto che da un lato era stato fatto richiamo al principio dell’abuso del diritto e, dall’altro, all’istituto dell’interposizione fittizia di persona, profili che, nell’apprezzamento compiuto in sentenza, sono stati valutati in termini di contraddittorietà, poiché non consentivano alla contribuente di avere certezza degli elementi fondanti le ragioni della pretesa.

In tema di interposizione fittizia di persona ricordiamo quanto affermato dalla Suprema Corte con sentenza n. 25578 del 12 ottobre 2018, che ammoniva che la simulazione ha come indispensabile presupposto la partecipazione all’accordo simulatorio non solo dell’interposto e dell’interponente, ma anche del terzo contraente, che deve dare la propria consapevole adesione all’intesa raggiunta tra i primi due soggetti assumendo i diritti e gli obblighi contrattuali nei confronti dell’interponente; per tale ragione la prova dell’accordo simulatorio deve avere a oggetto la partecipazione del terzo all’accordo stesso, con la conseguenza che la domanda diretta all’accertamento della simulazione, ai fini della invalidazione del negozio simulato inter partes, non può essere accolta se l’accordo simulatorio non risulti da atto scritto.

Ricordiamo in ogni modo che le vicende riconducibili all’interposizione fittizia, inquadrabili nell’evasione fiscale, possono determinare conseguenze sul piano penale tributario, mentre quelle relative all’abuso del diritto no e, del resto, appare concettualmente errato parlare di perdurante rilevanza penale dell’elusione fiscale, in quanto da molti studiosi del diritto non è considerata come violazione in senso formale, ma delinea una utilizzazione alterata dello schema formale del diritto finalizzata al conseguimento di obiettivi ulteriori e diversi rispetto a quelli indicati dal Legislatore.

Comunque, le questioni riconducibili all’elusione/abuso del diritto devono seguire un preciso iter procedimentale, a pena di nullità del successivo atto impositivo, mentre tali “cautele” non sono necessarie in relazione alle vicende legate all’interposizione fittizia.

Sulla questione appare allora condivisibile quanto rilevato nella Circolare 1/2018 della Guardia di Finanza, che entrando nel merito del distinguo tra interposizione fittizia e reale, aveva al tempo già osservato che occorre avere riguardo al concreto atteggiarsi della volontà dei soggetti coinvolti. Così, se l’interposto interviene in maniera del tutto passiva, si avrà un’ipotesi riconducibile all’interposizione fittizia, mentre se, al contrario, l’interposto assume una effettiva funzione gestoria nell’operazione si avrà un fenomeno di interposizione reale. È evidente, quindi, che l’interposizione reale non può rientrare nell’articolo 37, comma 3, del Dpr 600/1973 ma, se il vantaggio conseguito risulta indebito, nell’elusione/abuso del diritto.

C’è infine da menzionare che è applicabile anche per le controversie in materia fiscale, dinanzi alla Cassazione, l’applicazione dell’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., così come  riformulato dall’art. 54 del Dl 22 giugno 2012, n. 83, convertito in legge 7 agosto 2012, n. 134, che ha introdotto nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per Cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia).

Ne consegue che, nel rigoroso rispetto delle previsioni degli artt. 366, primo comma, n. 6, e 369, secondo comma, n. 4, cod. proc. civ., il ricorrente deve indicare il “fatto storico” il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività”, fermo restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie. (ex plurimis, Cass. Sez. U., 07/04/2014, n. 8053, Rv. 629831 -01, Cass. sez. 2, 29/10/2018, n. 27415, Rv. 651020-01).

Pertanto, è denunciabile in Cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali.

Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione. Come peraltro ben affermato dalle Sezioni Unite della Cassazione nella Sentenza n. 8053 del 7/4/2014.

Ne consegue che la ricostruzione del fatto operata dai giudici di merito è oramai sindacabile in sede di legittimità soltanto ove la motivazione al riguardo sia viziata da vizi giuridici, oppure se manchi del tutto, oppure se sia articolata su espressioni o argomenti tra loro manifestamente e immediatamente inconciliabili, oppure perplessi, oppure obiettivamente incomprensibili.

Tanto premesso e tornando al caso in dibattimento, una società contribuente riceveva un avviso di accertamento per recuperare a tassazione costi non deducibili ai fini IRAP e IVA indebitamente detratta. La Commissione Tributaria Regionale adita, dopo l’arresto ricevuto in primo grado, riteneva valore assorbente il motivo di appello relativo all’erroneità della sentenza circa la questione del difetto di motivazione dell’atto impugnato, in quanto contraddittorio nelle sua esposizione motivazionale e in relazione alle previsioni normative poste a fondamento.

Avverso a questa pronuncia ha proposto ricorso l’Agenzia delle entrate affidato a quattro motivi di censura.

Per i Giudici di legittimità la differenziazione dell’ambito di applicazione dei due istituti, di quello relativo all’abuso del diritto e a quello dell’istituto dell’interposizione fittizia di persona, sui quali il giudice del gravame ha fondato la considerazione di fondo della contraddittorietà dell’avviso di accertamento e, quindi, della sua mancanza di chiarezza circa le ragioni fondanti la pretesa, non è stata ben afferrata dalle considerazioni presentate dall’Avvocatura erariale, che hanno, invero, argomentato in base a considerazioni a essa non conferenti.

Pertanto gli Ermellini hanno voluto puntualizzare che “… in particolare, parte ricorrente evidenzia che, differentemente da quanto ritenuto dal giudice del gravame: non vi è incompatibilità, nel riferimento contenuto nell’avviso di accertamento, tra la previsione di cui alla lett. c) e d), comma 1, dell’art. 39, d.P.R. n. 600/1973, trattandosi, in entrambi i casi di accertamento avente natura analitica; il riferimento compiuto all’art. 109, TUIR, era stato fatto al fine di individuare, nel suo complesso, la normativa di riferimento di natura sostanziale; era legittimo il riferimento all’abuso del diritto, non limitato, peraltro, alle sole ipotesi di cui all’art. 37-bis, d.P.R. n. 600/1973, in quanto la fattispecie ipotizzata, cioè l’uso distorto dello schema societario, rientrava nel principio generale antiabuso per il quale non sussistono regole procedimentali di accertamento; circa, poi, il riferimento alla figura dell’interposizione fittizia, non era stato contestato al fine di contestare all’effettivo percettore il reddito non dichiarato; con il secondo motivo si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360, comma primo, n. 3), cod. proc. civ., per violazione e falsa applicazione dell’art. 7, comma 1, legge n. 212/2000, dell’art. 42, commi 2 e 3, d.P.R. n. 600/1973, e dell’art. 56, comma 5, d.P.R. n. 633/1972, per avere ritenuto che l’avviso di accertamento non era adeguatamente motivato; i motivi, che possono essere esaminati unitariamente, in quanto attengono alla questione del difetto di motivazione dell’avviso di accertamento, sono infondati; gli stessi, invero, non tengono conto della ratio decidendi della pronuncia censurata, fondata sulla complessiva valutazione della insufficienza e contraddittoria motivazione dell’avviso di accertamento in quanto tale privo della indicazione dei presupposti sui quali lo stesso era basato; in realtà, il nucleo centrale della decisione del giudice del gravame, più che sul riferimento alle previsioni di cui alla lett. c) e d), comma 1, dell’art. 39, d.P.R. n. 600/1973, ovvero sulla previsione di cui all’art. 109, TUIR, si fonda sulla considerazione che la pretesa fatta valere con l’avviso di accertamento risultava del tutto incerta tenuto conto del fatto che, da un lato, era stato fatto richiamo al principio dell’abuso del diritto e, dall’altro, all’istituto dell’interposizione fittizia di persona, profili che, nell’apprezzamento compiuto in sentenza, sono stati valutati in termini di contraddittorietà, poiché non consentivano alla contribuente di avere certezza degli elementi fondanti le ragioni della pretesa; va, a tal proposito, osservato che il divieto di abuso del diritto si traduce in un principio generale antielusivo, che preclude al contribuente il conseguimento di vantaggi fiscali ottenuti mediante l’uso distorto, pur se non contrastante con alcuna specifica disposizione normativa, di strumenti giuridici idonei ad ottenere un risparmio d’imposta, in difetto di ragioni economicamente apprezzabili che giustifichino l’operazione (Cass. civ., 13 luglio 2018, n. 18632); costituisce dunque condotta abusiva l’operazione economica che abbia quale suo elemento predominante e assorbente lo scopo di eludere il fisco, incombendo, peraltro, sull’Amministrazione finanziaria la prova sia del disegno elusivo sia delle modalità di manipolazione e di alterazione degli schemi negoziali classici, considerati come irragionevoli in una normale logica di mercato e perseguiti solo per pervenire a quel risultato fiscale, mentre grava sul contribuente l’onere di allegare l’esistenza di ragioni economiche alternative o concorrenti che giustifichino operazioni in quel modo strutturate (Cass. civ., 20 giugno 2018, n. 16217); il presupposto, dunque, si cui si fonda la pretesa con la quale si contesta l’abuso del diritto è il fatto che sia stato utilizzato uno strumento giuridico negoziale di per sé lecito ma, tuttavia, piegato per una finalità distorta, costituendo solo un mezzo per perseguire vantaggi fiscali non leciti; in questo contesto, la figura della interposizione fittizia di persona si pone in una prospettiva diversa: non è l’uso di uno strumento negoziale, di per sé lecito, che viene in considerazione, ma la creazione di una situazione di apparenza negoziale i cui effetti, in realtà, non sono voluti dalle parti contraenti; questa differenziazione dell’ambito di applicazione dei due istituti, sui quali il giudice del gravame ha fondato la considerazione di fondo della contraddittorietà dell’avviso di accertamento e, quindi, della sua mancanza di chiarezza circa le ragioni fondanti la pretesa, non è stata colta dalle censure in esame che hanno, invero, argomentato in base a considerazioni ad essa non conferenti; con il terzo motivo si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360, comma primo, n. 5), cod. proc. civ., per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti, per non avere considerato che, diversamente da quanto ritenuto dal giudice del gravame, nell’avviso di accertamento erano stati evidenziati chiaramente i fatti costitutivi della pretesa fiscale; il motivo è inammissibile;

la questione relativa alla sufficienza motivazionale dell’avviso di accertamento è stata presa in considerazione dal giudice del gravame e, a seguito di un esame del contenuto del suddetto atto, lo stesso è pervenuto alla considerazione della illegittimità della pretesa per difetto di motivazione;va, quindi ribadito che, secondo questa Corte (Cass., Sez. Un., 28 giugno 2019, n. 17564; Cass., Sez. Un., 7 aprile 2014, n.8053) “ La riformulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, disposta dal D.L 22 giugno 2012, n. 83, art. 54 conv. in L. 7 agosto 2012, n. 134, deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione”. Pertanto, è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali.  Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione»; con il quarto motivo si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360, comma primo, n. 4), cod. proc. civ., per violazione e falsa applicazione degli artt. 112 e 132, n. 4), cod. proc. civ., per non avere pronunciato sulla questione della ripresa a tassazione dell’Iva chiesta a rimborso per difetto dei presupposti di cui all’art. 30, d.P.R. 633/1972; Il motivo è infondato;la pronuncia censurata ha ritenuto che l’intero avviso di accertamento era privo di sufficiente motivazione e, in questo contesto, ha compiuto una valutazione complessiva, coinvolgente anche la questione relativa alla presente ragione di censura, sicché non può ragionarsi in termini di omessa pronuncia, come invece prospettato con il presente motivo; in conclusione, sono infondati il primo, secondo e quarto motivo, inammissibile il terzo, con conseguente rigetto del ricorso e condanna della ricorrente al pagamento delle spese di lite in favore della controricorrente”.

Corte di Cassazione – Ordinanza 10 settembre 2020, n. 18767

sul ricorso iscritto al n. 16097 del ruolo generale dell’anno 2014 proposto da:

Agenzia delle Entrate, in persona del direttore generale pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura generale dello Stato, presso i cui uffici in Roma, via dei Portoghesi, n. 12, è domiciliata;

– ricorrente –

contro M.S.C a r.I., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli Avv.ti Marcello Poggioli, Tommaso Rotella e Giuseppe Rossodivita, per procura speciale a margine del ricorso, elettivamente domiciliata in Roma, via Grazioli Lante, n. 5, presso lo studio di quest’ultimo difensore;

– controricorrente –

per la cassazione della sentenza della Commissione Tributaria Regionale dell’Emilia Romagna, n. 90/13/2013, depositata in data 11 dicembre 2013;

udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 28 novembre 2019 dal Consigliere Giancarlo Triscari;

Rilevato che

dall’esposizione in fatto della sentenza impugnata si evince che:

l’Agenzia delle entrate aveva notificato a M.S.C. a r.l. un avviso di accertamento con il quale aveva recuperato a tassazione ai fini Irap, costi non deducibili, nonché l’iva indebitamente detratta;

in particolare, era stato contestato che la costituzione della società cooperativa edilizia, avvenuta formalmente allo scopo di consentire ai tre soci (legati da vincoli di parentela) l’accesso ai servizi abitativi a condizioni economiche più favorevoli di quelle di mercato, costituiva un mero schermo societario in quanto, in realtà, il reale acquirente del complesso immobiliare era solo il socio M.R., sicché l’intera operazione era stata posta in essere con finalità elusive, in modo da consentire a quest’ultimo di non versare l’iva per la ristrutturazione del complesso immobiliare;

avverso il suddetto atto impositivo la società aveva proposto ricorso che era stato rigettato dalla Commissione tributaria provinciale di Modena;

avverso la decisione del giudice di primo grado la società aveva proposto appello;

la Commissione tributaria regionale dell’Emilia Romagna ha accolto l’appello, in particolare ha ritenuto che assumeva valore assorbente il motivo di appello relativo all’erroneità della sentenza circa la questione del difetto di motivazione dell’atto impugnato, in quanto contraddittorio nelle sua esposizione motivazionale e in relazione alle previsioni normative poste a fondamento;

avverso la suddetta pronuncia ha proposto ricorso l’Agenzia delle entrate affidato a quattro motivi di censura, cui ha resistito la società depositando controricorso;

Considerato che

Con il primo motivo di ricorso si censura la sentenza per violazione e falsa applicazione degli artt. 39, comma 1, lett. c) e d), d.P.R. n. 600/1973, nonché dell’art. 109, TUIR, e degli artt. 37 e 37bis, d.P.R. n. 600/1973, in relazione agli artt. 42, d.P.R. n. 600/1973, e 56/d.P.R. n. 633/1972, per avere ritenuto che la motivazione dell’avviso di accertamento era contraddittoria e insufficiente, non consentendo lo stesso di ricostruire esattamente l’iter logico seguito dall’ente impositore al fine di garantire il diritto di difesa del destinatario;

in particolare, parte ricorrente evidenzia che, differentemente da quanto ritenuto dal giudice del gravame: non vi è incompatibilità, nel riferimento contenuto nell’avviso di accertamento, tra la previsione di cui alla lett. c) e d), comma 1, dell’art. 39, d.P.R. n. 600/1973, trattandosi, in entrambi i casi di accertamento avente natura analitica;

il riferimento compiuto all’art. 109, TUIR, era stato fatto al fine di individuare, nel suo complesso, la normativa di riferimento di natura sostanziale;

era legittimo il riferimento all’abuso del diritto, non limitato, peraltro, alle sole ipotesi di cui all’art. 37-bis, d.P.R. n. 600/1973, in quanto la fattispecie ipotizzata, cioè l’uso distorto dello schema societario, rientrava nel principio generale antiabuso per il quale non sussistono regole procedimentali di accertamento;

circa, poi, il riferimento alla figura dell’interposizione fittizia, non era stato contestato al fine di contestare all’effettivo percettore il reddito non dichiarato;

con il secondo motivo si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360, comma primo, n. 3), cod. proc. civ., per violazione e falsa applicazione dell’art. 7, comma 1, legge n. 212/2000, dell’art. 42, commi 2 e 3, d.P.R. n. 600/1973, e dell’art. 56, comma 5, d.P.R. n. 633/1972, per avere ritenuto che l’avviso di accertamento non era adeguatamente motivato;

i motivi, che possono essere esaminati unitariamente, in quanto attengono alla questione del difetto di motivazione dell’avviso di accertamento, sono infondati;

gli stessi, invero, non tengono conto della ratio decidendi della pronuncia censurata, fondata sulla complessiva valutazione della insufficienza e contraddittoria motivazione dell’avviso di accertamento in quanto tale privo della indicazione dei presupposti sui quali lo stesso era basato;

in realtà, il nucleo centrale della decisione del giudice del gravame, più che sul riferimento alle previsioni di cui alla lett. c) e d), comma 1, dell’art. 39, d.P.R. n. 600/1973, ovvero sulla previsione di cui all’art. 109, TUIR, si fonda sulla considerazione che la pretesa fatta valere con l’avviso di accertamento risultava del tutto incerta tenuto conto del fatto che, da un lato, era stato fatto richiamo al principio dell’abuso del diritto e, dall’altro, all’istituto dell’interposizione fittizia di persona, profili che, nell’apprezzamento compiuto in sentenza, sono stati valutati in termini di contraddittorietà, poiché non consentivano alla contribuente di avere certezza degli elementi fondanti le ragioni della pretesa;

va, a tal proposito, osservato che il divieto di abuso del diritto si traduce in un principio generale antielusivo, che preclude al contribuente il conseguimento di vantaggi fiscali ottenuti mediante l’uso distorto, pur se non contrastante con alcuna specifica disposizione normativa, di strumenti giuridici idonei ad ottenere un risparmio d’imposta, in difetto di ragioni economicamente apprezzabili che giustifichino l’operazione (Cass. civ., 13 luglio 2018, n. 18632);

costituisce dunque condotta abusiva l’operazione economica che abbia quale suo elemento predominante e assorbente lo scopo di eludere il fisco, incombendo, peraltro, sull’Amministrazione finanziaria la prova sia del disegno elusivo sia delle modalità di manipolazione e di alterazione degli schemi negoziali classici, considerati come irragionevoli in una normale logica di mercato e perseguiti solo per pervenire a quel risultato fiscale, mentre grava sul contribuente l’onere di allegare l’esistenza di ragioni economiche alternative o concorrenti che giustifichino operazioni in quel modo strutturate (Cass. civ., 20 giugno 2018, n. 16217);

il presupposto, dunque, si cui si fonda la pretesa con la quale si contesta l’abuso del diritto è il fatto che sia stato utilizzato uno strumento giuridico negoziale di per sé lecito ma, tuttavia, piegato per una finalità distorta, costituendo solo un mezzo per perseguire vantaggi fiscali non leciti;

in questo contesto, la figura della interposizione fittizia di persona si pone in una prospettiva diversa: non è l’uso di uno strumento negoziale, di per sé lecito, che viene in considerazione, ma la creazione di una situazione di apparenza negoziale i cui effetti, in realtà, non sono voluti dalle parti contraenti;

questa differenziazione dell’ambito di applicazione dei due istituti, sui quali il giudice del gravame ha fondato la considerazione di fondo della contraddittorietà dell’avviso di accertamento e, quindi, della sua mancanza di chiarezza circa le ragioni fondanti la pretesa, non è stata colta dalle censure in esame che hanno, invero, argomentato in base a considerazioni ad essa non conferenti;

con il terzo motivo si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360, comma primo, n. 5), cod. proc. civ., per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti, per non avere considerato che, diversamente da quanto ritenuto dal giudice del gravame, nell’avviso di accertamento erano stati evidenziati chiaramente i fatti costitutivi della pretesa fiscale;

il motivo è inammissibile;

la questione relativa alla sufficienza motivazionale dell’avviso di accertamento è stata presa in considerazione dal giudice del gravame e, a seguito di un esame del contenuto del suddetto atto, lo stesso è pervenuto alla considerazione della illegittimità della pretesa per difetto di motivazione;

va, quindi ribadito che, secondo questa Corte (Cass., Sez. Un., 28 giugno 2019, n. 17564; Cass., Sez. Un., 7 aprile 2014, n.8053) “ La riformulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, disposta dal D.L 22 giugno 2012, n. 83, art. 54 conv. in L. 7 agosto 2012, n. 134, deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione”.

Pertanto, è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali.

Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione»;

con il quarto motivo si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360, comma primo, n. 4), cod. proc. civ., per violazione e falsa applicazione degli artt. 112 e 132, n. 4), cod. proc. civ., per non avere pronunciato sulla questione della ripresa a tassazione dell’Iva chiesta a rimborso per difetto dei presupposti di cui all’art. 30, d.P.R. 633/1972;

Il motivo è infondato;

la pronuncia censurata ha ritenuto che l’intero avviso di accertamento era privo di sufficiente motivazione e, in questo contesto, ha compiuto una valutazione complessiva, coinvolgente anche la questione relativa alla presente ragione di censura, sicché non può ragionarsi in termini di omessa pronuncia, come invece prospettato con il presente motivo;

in conclusione, sono infondati il primo, secondo e quarto motivo, inammissibile il terzo, con conseguente rigetto del ricorso e condanna della ricorrente al pagamento delle spese di lite in favore della controricorrente.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento in favore della controricorrente delle spese di lite che si liquidano in complessive euro 5.600,00, oltre spese forfettarie nella misura del quindici per cento e accessori di legge. Così deciso in Roma, addì 28 novembre 2019.

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