ECONOMIA LEGGE

Impresa familiare: gli utili spettano al convivente dello stesso sesso, nonostante … l’INPS

La legge 20 maggio 2016, n. 76 – “Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze”, la cosiddetta legge Cirinnà – con l’art. 1 ha introdotto nell’ordinamento nazionale l’istituto dell’unione civile tra due persone dello stesso sesso e ha regolamentato il regime delle convivenze di fatto, che in base al comma 36 del medesimo art. 1 è definito come quello esistente fra “due

persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, non vincolate da rapporti di parentela, affinità o adozione, da matrimonio o da un’unione civile”.

La stessa legge 76/2016 ha contemplato delle forme di tutela differenziate tra le parti dell’unione civile e i conviventi, estendendo solo alle prime e in base all’art. 20, “le disposizioni che si riferiscono al matrimonio e le disposizioni contenenti le parole ‘coniuge’, ‘coniugi’ o termini equivalenti … contenute nelle leggi, negli atti aventi forza di legge, nei regolamenti nonché negli atti amministrativi nonché nei contratti collettivi”.

E’ questo il contesto normativo nel quale si colloca la risoluzione dell’Agenzia delle Entrate n. 134/E del 26 ottobre 2017, emanata per rispondere al quesito posto tramite istanza di interpello con la quale una contribuente, titolare dell’omonima ditta individuale, comunica di essersi avvalsa di quanto previsto dalla legge Cirinnà e di avere sottoscritto, in data 29 novembre 2016 con scrittura privata autenticata da un notaio, un atto modificativo di impresa familiare nel quale dichiarava la cessazione al 31 dicembre 2016 della prestazione d’opera resa dalla madre e l’inserimento nell’impresa della signora XY in qualità di convivente di fatto, come risulta dalla dichiarazione anagrafica dell’8 novembre 2016, che presta stabilmente la propria opera all’interno dell’impresa. Alla luce di quanto esposto, l’istante chiede chiarimenti rispetto alla validità dell’impresa familiare come risultante dall’atto notarile citato, in particolare con riferimento alla possibilità di attribuire, a partire dall’anno di imposta 2017 e in applicazione di quanto previsto dall’art. 230-ter c.c. – che disciplina l’impresa familiare e i diritti e obblighi dei relativi partecipanti – una parte di utili alla convivente. Tra i documenti presentati ci sono, tra gli altri, una copia della dichiarazione anagrafica per la costituzione della convivenza di fatto, copia dell’atto modificativo di impresa familiare e copia della comunicazione di iscrizione della convivente come collaboratore d’impresa, alla quale, come soluzione interpretativa prospettata dalla contribuente, la stessa ritiene di poter imputare, dall’anno di imposta 2107, una parte degli utili.

L’interpellante riferisce, inoltre, di aver eseguito nei termini previsti la cancellazione della madre e la contestuale iscrizione della signora convivente presso l’INPS, l’INAIL e la CCIA, ma che a seguito di quanto previsto dalla circolare INPS 31 marzo 2017, n. 66, veniva costretta alla cancellazione sin dall’origine della signora convivente di fatto dall’INPS e dalla CCIA.

 

La circolare INPS “cancella” la convivente

Il problema sorge, appunto, dopo la emanazione della circolare n. 66 – “Legge 20 maggio 2016, n. 76. Regolamentazione delle Unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze. Risvolti in materia di obbligo assicurativo presso le gestioni dei lavoratori autonomi artigiani e commercianti” – con la quale l’Istituto previdenziale “a fronte delle richieste di chiarimenti pervenute dalle strutture territoriali”, fornisce “le prime istruzioni in merito all’incidenza delle nuove disposizioni normative sulla disciplina degli obblighi previdenziali posti a carico degli esercenti attività d’impresa”, nelle quali, in sostanza, ai fini dell’obbligo contributivo nelle gestioni autonome si differenzia nettamente lo status derivante da una unione civile da quello di una convivenza di fatto, a sfavore di quest’ultimo.

Le unioni civili. Nel documento di prassi l’Istituto ricorda che le unioni civili sono definite come una “specifica formazione sociale ai sensi degli articoli 2 e 3 della Costituzione” e che sono costituite da “due persone maggiorenni dello stesso sesso… (omissis) … mediante dichiarazione di fronte all’ufficiale di stato civile ed alla presenza di due testimoni”. Ai fini dell’individuazione dell’obbligo contributivo nelle gestioni autonome – si legge nella circolare – “risultano di specifico interesse” il comma 13 ed il comma 20: quest’ultimo, in materia di unioni civili, prevede che “le disposizioni che si riferiscono al matrimonio e le disposizioni contenenti le parole «coniuge», «coniugi» o termini equivalenti, ovunque ricorrono nelle leggi, negli atti aventi forza di legge, nei regolamenti nonché negli atti amministrativi e nei contratti collettivi, si applicano anche ad ognuna delle parti dell’unione civile tra persone dello stesso sesso. La disposizione di cui al periodo precedente non si applica alle norme del codice civile non richiamate espressamente nella presente legge, nonché alle disposizioni di cui alla legge 4 maggio 1983, n. 184”. Qualsiasi disposizione normativa, regolamentare o amministrativa, quindi, oltreché tutte le disposizioni del codice civile espressamente richiamate dalla citata legge n. 76/2016 che contengano la parola “coniuge”, devono intendersi riferite anche a ognuna delle parti dell’unione civile; lo status di coniuge rileva per l’individuazione dei soggetti che svolgono attività lavorativa come collaboratori del titolare d’impresa o, se l’impresa assume forma societaria, di uno dei titolari. Infatti, prosegue l’INPS, la legge n. 463/1959, che estende l’assicurazione previdenziale per gli artigiani ai familiari coadiuvanti, nell’ambito della gestione previdenziale degli artigiani, indica “il coniuge” (art. 2, comma 2, n. 1) e, analogamente, l’art. 2, comma 1 della legge n. 613/1966 includi tra i soggetti obbligati all’iscrizione alla gestione degli esercenti attività commerciali i “familiari coadiutori”, tra cui “il coniuge”. Da tale equiparazione tra il coniuge e ognuna delle parti dell’unione civile deriva la necessità di estendere le tutele previdenziali per gli esercenti attività autonoma anche ai coadiuvanti uniti al titolare da un rapporto di unione civile registrato ai sensi di legge. Per quanto concerne il regime patrimoniale applicabile alle unioni civili, il comma 13 della legge 76/2016 considera applicabili, tra le altre, anche le disposizioni del codice civile nel cui ambito rientra l’art. 230-bis c.c., che disciplina l’impresa familiare ed evidenzia che tra i familiari di cui essa assicura la tutela rientra il coniuge. Anche in riferimento al campo di applicazione dell’istituto dell’impresa familiare, dunque, il soggetto unito civilmente al titolare deve essere equiparato al coniuge, con tutti i derivanti diritti e obblighi di natura fiscale e previdenziale.

Le convivenze di fatto. Nella circolare 66 si ricorda che le convivenze di fatto sono unioni stabili “tra due persone maggiorenni, legate da vincoli affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, non vincolate da rapporti di parentela, affinità o adozione, da matrimonio o da un’unione civile” e che la nuova normativa estende al convivente alcune tutele, specificamente indicate, riservate al coniuge o ai familiari, ad esempio in materia penitenziaria, sanitaria, abitativa, ma senza introdurre “alcuna equiparazione di status, né estendere al convivente gli stessi diritti/obblighi di copertura previdenziale previsti per il familiare coadiutore”. Ne deriva che il convivente di fatto, privo dello status di parente o affine entro il terzo grado rispetto al titolare d’impresa, “non è considerato dalle leggi istitutive delle gestioni autonome quale prestatore di lavoro soggetto a obbligo assicurativo in qualità di collaboratore familiare”. Nella circolare si evidenzia, inoltre, che il comma 46, che aggiunge l’art. 230-ter al codice civile, attribuisce al convivente “che presti stabilmente la propria opera all’interno dell’impresa dell’altro convivente” il diritto di “partecipazione agli utili dell’impresa familiare ed ai beni acquistati con essi, nonché agli incrementi dell’azienda, anche in ordine all’avviamento, commisurata al lavoro prestato”, a meno che non esista già tra le parti un rapporto di subordinazione o di società: tale innovazione, tuttavia, “non attribuisce ai conviventi di fatto i medesimi diritti di cui godono i familiari individuati dall’art. 230 bis, poiché a tal fine il legislatore avrebbe utilizzato locuzioni idonee a includere il convivente nella formulazione del predetto articolo e non avrebbe al contrario introdotto un nuovo articolo, che disciplina separatamente i diritti del convivente che presti attività in un’impresa familiare”. In ogni caso, secondo l’Istituto, visti il tenore letterale e l’interpretazione delle norme introdotte, l’eventuale attribuzione di utili d’impresa al convivente di fatto da parte del titolare, ai sensi del nuovo art. 230-ter, non ha alcuna conseguenza rispetto all’obbligo contributivo del convivente alle gestioni autonome, “mancando i necessari requisiti soggettivi, dati dal legame di parentela o affinità rispetto al titolare”.

In conclusione, dopo una argomentata e puntigliosa differenziazione fra l’unione civile e la convivenza di fatto, nella quale quest’ultima risulta decisamente perdente nel contesto indicato, la circolare conclude con un (forse) pilatesco rimando a responsabilità altrui, visto che “A seguito delle opportune istruzioni che saranno emanate dalla competente Autorità finanziaria per regolamentare gli aspetti fiscali di tale innovazione legislativa e le eventuali problematiche connesse, l’Istituto procederà ai conseguenti approfondimenti, utili a individuare la corretta lettura dei dati reddituali forniti periodicamente dall’Agenzia delle Entrate”.

 

Il parere dell’Agenzia delle Entrate

L’Amministrazione finanziaria precisa che la legge Cirinnà è intervenuta sulla disciplina dell’impresa familiare in due versi:

– da un lato, estendendo alle unioni civili la disciplina civilistica dell’impresa familiare;

– dall’altro, introducendo nel codice civile l’articolo 230-ter (“Diritti del convivente”), che regolamentando le prestazioni di lavoro rese in favore del convivente more uxorio, riconosce “Al convivente di fatto che presti stabilmente la propria opera all’interno dell’impresa dell’altro   convivente…il diritto di partecipazione agli utili dell’impresa familiare ed ai beni acquistati con essi nonché agli incrementi dell’azienda, anche in ordine all’avviamento, commisurata al lavoro prestato”. E’ inoltre previsto che il diritto di partecipazione non spetti “qualora tra i conviventi esista un rapporto di società o di lavoro subordinato”. Nella circolare 134/E l’Agenzia delle Entrate sostiene che la scelta di introdurre una norma ad hoc per il convivente, diversa da quella dell’impresa familiare recata dall’art. 230-bis, evidenzia l’intenzione di lasciare “su posizioni differenti la collaborazione del convivente rispetto a quella del familiare” (o della parte civile, alla quale è applicabile la disciplina dell’impresa familiare), come si desume da alcune rilevanti differenze di quanto previsto dagli articoli 230-bis e 230-ter del codice civile, come l’esclusione del convivente dal diritto al mantenimento e dal diritto alla partecipazione alle decisioni dell’impresa, diritti che invece spettano al familiare e alla parte civile (art. 230-bis, comma 1 c.c.).

Gli elementi costitutivi della tipologia descritta dall’art. 230-ter del c.c. sono: a) il rapporto di convivenza; b) lo svolgimento stabile di prestazioni di lavoro; c) l’esistenza di un’impresa alla quale risulti collegata la prestazione lavorativa.

Nella risoluzione, quella dell’art. 230-ter c.c. viene definita come “una disciplina residuale, applicabile solo laddove non sia configurabile tra i conviventi un diverso rapporto, di società o di lavoro subordinato”: il regime tributario dei redditi dell’impresa familiare, regolato dall’art. 5, comma 4, del TUIR, stabilisce che questi redditi siano imputati, limitatamente al 49% dell’importo risultante dalla dichiarazione dei redditi dell’imprenditore, a ciascun familiare che ha prestato in modo continuativo e prevalente la sua attività di lavoro nell’impresa, proporzionalmente alla sua quota di partecipazione agli utili. L’imputazione proporzionale presuppone la partecipazione all’impresa di un soggetto con lo status di familiare, dunque il coniuge, i parenti entro il terzo grado e gli affini entro il secondo grado (comma 5).

L’Agenzia rileva che l’art. 5, comma 4, del TUIR richiama solo l’art. 230-bis e non anche l’art. 230-ter del c.c., che contiene la disciplina specifica dei diritti del convivente che partecipa all’impresa dell’altro convivente, il che “porterebbe a escludere l’applicazione a tale ultima ipotesi della norma fiscale richiamata”. Tuttavia, il riferimento alla partecipazione agli utili dell’impresa familiare spettanti al convivente, previsto dall’art. 230-ter, permette di applicare anche in questo caso i principi generali che pongono l’impresa familiare all’interno del citato art. 5 del TUIR. In proposito si richiama la circolare n. 40 del 1976, con la quale il Ministero delle Finanze ha precisato che tale collocazione non significa che per l’impresa familiare si tratta di reddito prodotto in forma associata, ma ribadisce il principio di trasparenza in base al quale il reddito prodotto da uno dei soggetti tra quelli elencati dallo stesso art. 5 “è imputato a ciascuno degli aventi diritto, indipendentemente dalla percezione del reddito e in proporzione alle rispettive quote di partecipazione agli utili”. La stessa circolare 40 precisa, inoltre, la doppia qualificazione dei redditi conseguiti nell’impresa familiare, il reddito d’impresa per il titolare e i redditi di partecipazione per i collaboratori familiari, il che costituisce la risposta positiva all’interpello proposto, poiché secondo le Entrate “il reddito spettante alla convivente di fatto …, derivante dalla partecipazione agli utili dell’impresa del convivente, sia a lei imputabile in proporzione alla sua quota di partecipazione”.

 

 

 

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