CASSAZIONE IVA

Il rifiuto del rimborso IVA non è soggetto a decadenza

Tributi – IVA – Riscossione – Modalità – Rimborsi in genere – Credito di imposta indicato in dichiarazione – Termine di prescrizione – Procedura di controllo ex art. 36-bis – Art. 30, comma 4, DPR n. 633/1972 – Ragioni

La Cassazione, con l’ordinanza 12144 del 7 maggio 2021, intervenendo in tema di rimborso d’imposta ha stabilito che il diniego al rimborso IVA, che non ha natura di atto impositivo, non è soggetto al termine di decadenza previsto dall’art. 57 del DPR 633/1972. In altre parole, gli Ermellini ricordano che per il rimborso d’imposta lo svolgimento senza rilievi del controllo automatizzato ex art. 36-bis del DPR 600/973 non equivale a riconoscimento implicito del credito esposto in dichiarazione, potendo questo essere contestato anche dopo la scadenza dei termini per l’accertamento e, conseguentemente, tale controllo non incide sul decorso del termine di prescrizione del credito.

L’ordinanza, già oggetto di rimessione alle Sezioni Unite con l’interlocutoria n. 15525/2020, offre ulteriori e importanti chiarimenti sulla questione, che si soffermano anche sulle possibilità di contestare, a seguito della decadenza del potere di accertamento, un credito regolarmente indicato in dichiarazione. I Supremi Giudici confermano quanto asserito più volte dalla giurisprudenza, ricordando anche questa volta che i termini decadenziali stabiliti per procedere all’accertamento in rettifica sono apposti solo alle attività di accertamento di un credito dell’Amministrazione, e non a quelle con cui l’Amministrazione contesti la sussistenza di un suo debito. Pertanto, l’ufficio può disconoscere la spettanza di un credito di cui viene chiesto il rimborso nella dichiarazione dei redditi anche oltre il decorso dei predetti termini.

In tema di rimborso d’imposta, dunque l’Amministrazione finanziaria può contestare il credito esposto dal contribuente nella dichiarazione dei redditi anche qualora siano scaduti i termini per l’esercizio del suo potere di accertamento, senza che abbia adottato alcun provvedimento, atteso che tali termini decadenziali operano limitatamente al riscontro dei suoi crediti e non dei suoi debiti, come  affermato dalle sezioni unite della Corte di Cassazione che, con la Sentenza 5069 del 15 marzo 2016, avevano indebolito il contrasto giurisprudenziale insorto nell’ambito della V Sezione civile – tributaria, in ordine alla questione relativa al carattere perentorio o meno del termine entro il quale l’Agenzia delle entrate deve provvedere alla liquidazione della dichiarazione e agli effetti che l’inutile decorso di detto termine comporta con riferimento ai crediti d’imposta ivi esposti, affermando il principio secondo il quale “… In tema di rimborso di imposte, l’Amministrazione finanziaria può contestare il credito esposto dal contribuente nella dichiarazione dei redditi anche qualora siano scaduti i termini per l’esercizio del suo potere di accertamento, senza che abbia adottato alcun provvedimento, atteso che tali termini decadenziali operano limitatamente al riscontro dei suoi crediti e non dei suoi debiti, in applicazione del principio quae temporalia ad agendum, perpetua ad excepiendum”, desumibile dall’art. 1442 c.c., u.c. 

A detto principio si è uniformata la successiva giurisprudenza, fornendole così ulteriore continuità.  (v. tra le altre, Cass. sez. 5, 17 giugno 2016, n. 12557; Cass. sez. 5, 31 gennaio 2018, n. 2392). Ancor prima, ricordiamo infine, con la sentenza n. 6600 del 15 marzo 2013, gli Ermellini, in un frangente simile, avevano ricordato quanto affermato dal Giudice comunitario, ovvero che “… la scadenza del termine di decadenza previsto per l’azione di rimborso ‘di diritto tributario’, quindi, non deve impedire l’esercizio del diritto del soggetto passivo dell’imposta sul valore aggiunto di ottenerne dall’amministrazione finanziaria il rimborso, solo se questo ha ad oggetto l’imposta che ‘egli stesso ha dovuto rimborsare al committente dei suoi servizi’. Il soggetto passivo dell’imposta, pertanto, dopo la scadenza del detto termine di decadenza, può chiedere il rimborso dell’IVA non dovuta non già per qualsiasi imposta della quale il ‘committente di servizi’ pretenda o abbia preteso il rimborso per la sua qualità di ‘prestatore di detti servizi’, né per quella che esso abbia rimborsato spontaneamente, ma esclusivamente per quell’imposta che ha ‘dovuto rimborsare al committente’ detto, vale a dire per l’imposta il cui rimborso in favore del committente sia stato effettivamente eseguito in esecuzione di un provvedimento coattivo di rimborso a suo danno ed in favore del committente, la cui pretesa restitutoria, siccome inidonea a far sorgere un qualche dovere di rimborso a carico del ‘prestatore di detti servizi’, non consente di superare la decadenza, eventualmente verificatasi, del ‘prestatore di detti servizi’ dall’eventuale diritto di rimborso nei confronti dell’amministrazione finanziaria finché non si concretizza con l’adempimento dell’afferente comando imperativo da parte del prestatore di servizi. Il più breve termine di decadenza previsto dalla norma nazionale nel regolare i rapporti dello stesso con l’amministrazione finanziaria può dunque essere disapplicato solo per garantire il principio di effettività, ovvero, per dirla con la Corte di giustizia, per evitare che ‘le conseguenze dei pagamenti indebiti dell’IVA imputabili allo Stato’ siano sopportate esclusivamente dal soggetto passivo di tale imposta”.

In ogni caso, non è privo di pregio ricordare che in materia tributaria vige il principio secondo il quale l’istanza di rimborso delle imposte deve essere presentata nel termine decadenziale previsto dalle singole leggi d’imposta o, in mancanza, secondo la norma generale di cui all’articolo 21 del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546, che quindi impediscono l’applicazione delle disposizioni civilistiche dell’indebito ovvero la prescrizione ordinaria decennale di cui all’articolo 2946 (sentenza n. 28684 del 3 dicembre 2008 della Corte di cassazione).

Secondo principio giurisprudenziale consolidato del giudice di legittimità nell’ordinamento tributario vige, per la ripetizione del pagamento indebito, un regime speciale basato sull’istanza di parte, da presentare a pena di decadenza, nel termine previsto dalle singole leggi d’imposta (in specie, per i rimborsi di versamenti diretti attinenti alle imposte sui redditi, dall’art. 38 DPR 602/1973) o comunque, in difetto, delle norme sul contenzioso tributario (art. 16, co. 6, DPR 636/1972 e, ora, artt. 19, co. 1, lett. g. e 21, co. 2, D.lgs. 546/1992), regime che impedisce, in linea di principio l’applicazione della disciplina prevista per l’indebito di diritto comune.

Giova precisare, infine, che secondo la sentenza n. 16477 del 20 agosto 2004 della Corte di Cassazione in tema di IVA, alla domanda di rimborso o restituzione del credito maturato dal contribuente si applica, in mancanza di una disciplina specifica posta dalla legislazione speciale in materia, la norma generale residuale di cui all’art. 16, DPR 636/1972 (ora art. 21, comma 2, D.lgs. 546/1992), prevedente un termine biennale di decadenza per la presentazione dell’istanza, che non esclude tuttavia, una volta maturato il silenzio rifiuto, la decorrenza del termine decennale di prescrizione ex art. 2946 cod. civ.

Tanto premesso e tornando al caso in esame, una società contribuente proponeva ricorso ai locali giudici tributari avverso il rifiuto espresso dall’Amministrazione finanziaria del rimborso del credito IVA maturato in più anni, ottenendone ragione. Ugualmente la Commissione tributaria regionale rigettava l’appello principale dell’Agenzia delle entrate, dichiarando dovuto il rimborso del credito IVA ritenendo che  l’Agenzia non aveva specificamente impugnato la statuizione del giudice di primo grado che aveva ritenuto che il credito esposto dalla società nelle dichiarazioni IVA si era consolidato a causa della mancata adozione di un provvedimento di rettifica e del conseguente accertamento da parte dell’Amministrazione finanziaria, sicchè si era formato, sul punto, un giudicato interno.

L’Agenzia ricorreva in Cassazione affidando le lagnanze a tre motivi di censura, in cui essenzialmente si affermava la non validità dei motivi posti alla base della sentenza, che riteneva inammissibile l’appello, con conseguente formazione del giudicato interno, per non avere l’Agenzia stessa censurato la statuizione del giudice di primo grado con la quale era stata accertata l’intervenuta decadenza del potere di contestare il credito IVA dichiarato.

La Suprema Corte, convenendo su quanto affermato dall’Avvocatura erariale, ha riconosciuto le ragioni dell’Agenzia affermando anche che: “ … preliminarmente, deve essere disattesa l’eccezione di inammissibilità del presente motivo, proposta dal controricorrente, in base alla considerazione che lo stesso non sarebbe articolato nel rispetto dell’onere di specificità e non conterrebbe un iter argomentativo diretto a confutare la fondatezza giuridica della decisione, non essendo state prospettate adeguate critiche avverso il capo della sentenza di secondo grado che aveva dichiarato inammissibile l’appello; invero, parte ricorrente ha evidenziato, con il presente motivo, l’erroneità della pronuncia del giudice del gravame con la quale è stata dichiarata la formazione del giudicato interno sulla statuizione del giudice di primo grado che aveva ritenuto che l’amministrazione finanziaria era decaduta dal potere di controllo non avendo proceduto ad alcuna rettifica entro i termini di legge;  nel prospettare l’erroneità della pronuncia, parte ricorrente ha riprodotto il contenuto dell’atto di appello ed ha, quindi, evidenziato che con il suddetto atto aveva insistito nella applicazione dell’art. 30, d.P.R. n. 633/1972, essendo questa l’unica previsione di riferimento applicabile nell’ipotesi di richiesta di rimborso Iva, sicchè, implicitamente, aveva escluso l’applicabilità della previsione di cui all’art. 38-bis, d.P.R. n. 633/1972, riferibile alla sola ipotesi in cui viene contestata l’eccedenza dell’Iva, essendo solo in questo caso necessario l’avviso di rettifica; in questi termini, il motivo di ricorso in esame ha chiaramente esposto le ragioni di censura alla sentenza impugnata, riproducendo il contenuto del motivo di appello al fine di consentire a questa Corte di accertare l’erroneità della decisione del giudice del gravame di inammissibilità dell’appello per non avere censurato la statuizione del giudice di primo con la quale si era ritenuto che il decorso del termine per la rettifica della dichiarazione Iva era preclusivo di una successiva attività di controllo in sede di richiesta di rimborso;  ciò precisato, va osservato che la sentenza censurata ha fondato la ragione del rigetto dell’appello dell’amministrazione finanziaria in base alla considerazione che il giudice di primo grado aveva ritenuto che il credito esposto dalla società nelle dichiarazioni Iva si era consolidato in quanto non era intervenuto alcun provvedimento di rettifica e conseguente accertamento della insussistenza del credito, sicchè non poteva essere negato il diritto al rimborso esercitato dalla società; tenuto conto, quindi, di tale statuizione, il giudice del gravame ha ritenuto che nessuna specifica contestazione sul contenuto di tale statuizione era stata fatta valere dall’amministrazione finanziaria in sede di appello, con conseguente formazione del giudicato interno; rispetto a tale statuizione, parte ricorrente ha riprodotto il contenuto dell’atto di appello; dall’esame del contenuto dell’atto di appello si evince che parte ricorrente aveva censurato la decisione di primo grado in quanto non aveva considerato che, in sede di rimborso dell’Iva, la previsione di cui all’art. 30, comma 4, d.P.R. n. 633/1972, legittimava comunque l’amministrazione finanziaria a richiedere la prova della ricorrenza del fatto costitutivo che legittimava la richiesta di rimborso, quindi l’esibizione delle fatture, sicchè: “l’esposizione del credito Iva in dichiarazione non implica l’immediata erogazione del rimborso in quanto la gestione ed il controllo dei rimborsi si articola in un ben preciso procedimento che coinvolge tra l’altro il concessionario della riscossione ed è subordinata alla prestazione di idonea garanzia avente la funzione del credito erariale”;  in sostanza, parte ricorrente aveva evidenziato l’autonomia del procedimento di controllo di cui all’art. 38-bis, d.P.R. n. 633/1972, attivabile in caso di contestazione dell’eccedenza del credito Iva, rispetto a quello previsto dall’art. 30, d.P.R. n. 633/1972 in caso di richiesta di rimborso dell’Iva, che consente all’amministrazione finanziaria di procedere al controllo della sussistenza del credito, richiedendo al contribuente di produrre le fatture giustificative del medesimo credito; sotto questa prospettiva, proprio l’evidenziata autonomia dei procedimenti era chiaramente diretta a prospettare che il mancato esercizio del potere di rettifica, di cui all’art. 38-bis, d.P.R. n. 633/1972, non era preclusivo del successivo controllo in sede di richiesta di rimborso, sicchè in tale prospettazione non può non farsi rientrare la contestazione della pronuncia del giudice di primo grado con la quale, invece, si era ritenuto che l’amministrazione finanziaria fosse decaduta dal potere di esercitare un’attività di controllo successivo in sede di rimborso, nonostante non avesse emesso alcun potere di rettifica;  ciò, peraltro, in linea con la giurisprudenza di questa Corte (Cass. civ., 13 marzo 2019, n. 7132; Cass. civ., 12 ottobre 2018, n. 25464; Cass. civ., 15 marzo 2016, n. 5069; Cass. civ., 28 marzo 2012, n.4956; Cass. civ., 10 gennaio 2004, n. 194) secondo cui in tema di Iva, il provvedimento con cui l’amministrazione finanziaria neghi il diritto del contribuente al rimborso dell’eccedenza detraibile, regolato dal D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 30, per insussistenza dei fatti costitutivi del diritto al rimborso indicati nella norma citata, senza contestare l’esistenza stessa di un’eccedenza d’imposta dovuta, non ha, neppure sostanzialmente, natura di avviso di accertamento (che presuppone necessariamente una pretesa tributaria nuova). Ne consegue che il detto provvedimento di diniego non è soggetto al termine decadenziale stabilito del cit. D.P.R. n. 633 del 1972, art. 57, per gli avvisi di accertamento, potendo sempre essere emanato finché il contribuente abbia il diritto di ottenere il rimborso dell’eccedenza”;  pertanto, la pronuncia del giudice del gravame, che ha ritenuto inammissibile l’appello dell’Agenzia delle entrate, è viziata, avendo invece quest’ultima correttamente contestato in sede di appello la statuizione del giudice di primo grado che aveva ritenuto illegittimo il diniego del rimborso Iva per intervenuta la decadenza del potere impositivo;  l’accoglimento del primo motivo di ricorso comporta l’assorbimento: del secondo motivo, con il quale si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360, comma primo, n. 4), cod. proc. civ., per violazione dell’art. 132, comma secondo, n. 4), cod. proc. civ., per avere reso una motivazione apparente, per avere ritenuto di condividere la statuizione del giudice di primo grado circa l’intervenuto consolidamento del credito conseguente alla decadenza dei potere impositivo ai fini della contestazione del credito dichiarato;  nonché del terzo motivo di ricorso, con il quale si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360, comma primo, n. 3), cod. proc. civ., per violazione dell’art. 30, d.P.R. n. 633/1972, e per falsa applicazione degli artt. 38-bis, 54 e 57, d.P.R. n. 633/1972, per avere accolto l’appello incidentale della società, avendo ritenuto che la mera presentazione delle dichiarazioni Iva legittimasse il rimborso del credito Iva, senza che, quindi, fosse necessario il controllo delle fatture; in conclusione, è fondato il primo motivo, assorbiti il secondo e il terzo, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Commissione tributaria regionale anche per la liquidazione delle spese di lite del presente giudizio”.

Corte di Cassazione – Ordinanza 7 maggio 2021, n. 12144 

sul ricorso iscritto al n. 11716 del ruolo generale dell’anno 2013 proposto da:

Agenzia delle entrate, in persona del Direttore pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura generale dello Stato, presso i cui uffici in Roma, via dei Portoghesi, n. 12, è domiciliata;

– ricorrente –

contro Fallimento F. M. s.r.l. in persona del legale rappresentante, rappresentato e difeso dall’Avv. Ester Perifano per procura speciale in calce al controricorso, elettivamente domiciliato in Roma, via dei Gracchi, n. 39 (studio legale Perifano-Di Giacomo & Partners);

– controricorrente –

per la cassazione della sentenza della Commissione tributaria regionale della Campania, n. 302/45/12, depositata in data 6 novembre 2012;

udita la relazione svolta nella camera di consiglio del giorno 26 gennaio 2021 dal Consigliere Giancarlo Triscari;

rilevato che:

dall’esposizione in fatto della sentenza impugnata si evince che: F. M. s.r.l. aveva proposto ricorso avverso il rifiuto espresso dell’amministrazione finanziaria del rimborso del credito Iva maturato per la maggior parte nell’anno 1999 e richiesto nell’anno 2007, attesa la mancata produzione delle fatture comprovanti l’esistenza del credito;

la Commissione tributaria provinciale di Benevento aveva accolto il ricorso; avverso la decisione del giudice di primo grado l’Agenzia delle entrate aveva proposto appello principale e la società appello incidentale relativo alla statuizione sulle spese di lite;

la Commissione tributaria regionale della Campania ha rigettato l’appello principale dell’Agenzia delle entrate, dichiarando dovuto il rimborso del credito Iva, ed accolto parzialmente l’appello incidentale della società, condannando l’Agenzia delle entrate al pagamento delle spese di lite di primo grado e del giudizio di appello in misura della metà, in particolare ha ritenuto che:

l’Agenzia delle entrate non aveva specificamente impugnato la statuizione del giudice di primo grado che aveva ritenuto che il credito esposto dalla società nelle dichiarazioni Iva si era consolidato a causa della mancata adozione di un provvedimento di rettifica e del conseguente accertamento da parte dell’amministrazione finanziaria, sicchè si era formato, sul punto, un giudicato interno;

in ogni caso, il provvedimento di diniego del rimborso era illegittimo, in quanto, non avendo l’amministrazione finanziaria adottato alcun provvedimento di rettifica e di accertamento in conseguenza delle presentazioni delle dichiarazioni Iva entro i termini, il credito Iva in esse esposto si era oramai consolidato, sicchè non poteva essere negato il diritto al rimborso;

era parzialmente fondato l’appello incidentale della società (concernente la statuizione sulle spese di lite), in quanto, se da un lato l’appello era fondato in considerazione della intervenuta decadenza dal potere impositivo, assumeva rilevanza, ai fini della condanna alle spese di lite, la circostanza che per l’anno 1999 non erano state depositate le fatture con le quali la società avrebbe dovuto dare prova dell’esistenza del credito;

l’Agenzia delle entrate ha quindi proposto ricorso per la cassazione della sentenza affidato a tre motivi di censura, cui ha resistito il fallimento della società depositando controricorso;

considerato che:

con il primo motivo di ricorso principale si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360, comma primo, n. 4), cod. proc. civ., per violazione e falsa applicazione dell’art. 53, decreto legislativo n. 546/1992, per avere ritenuto inammissibile l’appello, con conseguente formazione del giudicato interno, per non avere l’Agenzia delle entrate censurato la statuizione del giudice di primo grado con la quale era stata accertata l’intervenuta decadenza del potere di contestare il credito iva dichiarato;

il motivo è fondato;

preliminarmente, deve essere disattesa l’eccezione di inammissibilità del presente motivo, proposta dal controricorrente, in base alla considerazione che lo stesso non sarebbe articolato nel rispetto dell’onere di specificità e non conterrebbe un iter argomentativo diretto a confutare la fondatezza giuridica della decisione, non essendo state prospettate adeguate critiche avverso il capo della sentenza di secondo grado che aveva dichiarato inammissibile l’appello; invero, parte ricorrente ha evidenziato, con il presente motivo, l’erroneità della pronuncia del giudice del gravame con la quale è stata dichiarata la formazione del giudicato interno sulla statuizione del giudice di primo grado che aveva ritenuto che l’amministrazione finanziaria era decaduta dal potere di controllo non avendo proceduto ad alcuna rettifica entro i termini di legge;

nel prospettare l’erroneità della pronuncia, parte ricorrente ha riprodotto il contenuto dell’atto di appello ed ha, quindi, evidenziato che con il suddetto atto aveva insistito nella applicazione dell’art. 30, d.P.R. n. 633/1972, essendo questa l’unica previsione di riferimento applicabile nell’ipotesi di richiesta di rimborso Iva, sicchè, implicitamente, aveva escluso l’applicabilità della previsione di cui all’art. 38-bis, d.P.R. n. 633/1972, riferibile alla sola ipotesi in cui viene contestata l’eccedenza dell’Iva, essendo solo in questo caso necessario l’avviso di rettifica;

in questi termini, il motivo di ricorso in esame ha chiaramente esposto le ragioni di censura alla sentenza impugnata, riproducendo il contenuto del motivo di appello al fine di consentire a questa Corte di accertare l’erroneità della decisione del giudice del gravame di inammissibilità dell’appello per non avere censurato la statuizione del giudice di primo con la quale si era ritenuto che il decorso del termine per la rettifica della dichiarazione Iva era preclusivo di una successiva attività di controllo in sede di richiesta di rimborso;

ciò precisato, va osservato che la sentenza censurata ha fondato la ragione del rigetto dell’appello dell’amministrazione finanziaria in base alla considerazione che il giudice di primo grado aveva ritenuto che il credito esposto dalla società nelle dichiarazioni Iva si era consolidato in quanto non era intervenuto alcun provvedimento di rettifica e conseguente accertamento della insussistenza del credito, sicchè non poteva essere negato il diritto al rimborso esercitato dalla società;

tenuto conto, quindi, di tale statuizione, il giudice del gravame ha ritenuto che nessuna specifica contestazione sul contenuto di tale statuizione era stata fatta valere dall’amministrazione finanziaria in sede di appello, con conseguente formazione del giudicato interno;

rispetto a tale statuizione, parte ricorrente ha riprodotto il contenuto dell’atto di appello;

dall’esame del contenuto dell’atto di appello si evince che parte ricorrente aveva censurato la decisione di primo grado in quanto non aveva considerato che, in sede di rimborso dell’Iva, la previsione di cui all’art. 30, comma 4, d.P.R. n. 633/1972, legittimava comunque l’amministrazione finanziaria a richiedere la prova della ricorrenza del fatto costitutivo che legittimava la richiesta di rimborso, quindi l’esibizione delle fatture, sicchè: “l’esposizione del credito Iva in dichiarazione non implica l’immediata erogazione del rimborso in quanto la gestione ed il controllo dei rimborsi si articola in un ben preciso procedimento che coinvolge tra l’altro il concessionario della riscossione ed è subordinata alla prestazione di idonea garanzia avente la funzione del credito erariale”;

in sostanza, parte ricorrente aveva evidenziato l’autonomia del procedimento di controllo di cui all’art. 38-bis, d.P.R. n. 633/1972, attivabile in caso di contestazione dell’eccedenza del credito Iva, rispetto a quello previsto dall’art. 30, d.P.R. n. 633/1972 in caso di richiesta di rimborso dell’Iva, che consente all’amministrazione finanziaria di procedere al controllo della sussistenza del credito, richiedendo al contribuente di produrre le fatture giustificative del medesimo credito; sotto questa prospettiva, proprio l’evidenziata autonomia dei procedimenti era chiaramente diretta a prospettare che il mancato esercizio del potere di rettifica, di cui all’art. 38-bis, d.P.R. n. 633/1972, non era preclusivo del successivo controllo in sede di richiesta di rimborso, sicchè in tale prospettazione non può non farsi rientrare la contestazione della pronuncia del giudice di primo grado con la quale, invece, si era ritenuto che l’amministrazione finanziaria fosse decaduta dal potere di esercitare un’attività di controllo successivo in sede di rimborso, nonostante non avesse emesso alcun potere di rettifica;

ciò, peraltro, in linea con la giurisprudenza di questa Corte (Cass. civ., 13 marzo 2019, n. 7132; Cass. civ., 12 ottobre 2018, n. 25464; Cass. civ., 15 marzo 2016, n. 5069; Cass. civ., 28 marzo 2012, n.4956; Cass. civ., 10 gennaio 2004, n. 194) secondo cui “in tema di Iva, il provvedimento con cui l’amministrazione finanziaria neghi il diritto del contribuente al rimborso dell’eccedenza detraibile, regolato dal D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 30, per insussistenza dei fatti costitutivi del diritto al rimborso indicati nella norma citata, senza contestare l’esistenza stessa di un’eccedenza d’imposta dovuta, non ha, neppure sostanzialmente, natura di avviso di accertamento (che presuppone necessariamente una pretesa tributaria nuova). Ne consegue che il detto provvedimento di diniego non è soggetto al termine decadenziale stabilito del cit. D.P.R. n. 633 del 1972, art. 57, per gli avvisi di accertamento, potendo sempre essere emanato finché il contribuente abbia il diritto di ottenere il rimborso dell’eccedenza”;

pertanto, la pronuncia del giudice del gravame, che ha ritenuto inammissibile l’appello dell’Agenzia delle entrate, è viziata, avendo invece quest’ultima correttamente contestato in sede di appello la statuizione del giudice di primo grado che aveva ritenuto illegittimo il diniego del rimborso Iva per intervenuta la decadenza del potere impositivo;

l’accoglimento del primo motivo di ricorso comporta l’assorbimento: del secondo motivo, con il quale si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360, comma primo, n. 4), cod. proc. civ., per violazione dell’art. 132, comma secondo, n. 4), cod. proc. civ., per avere reso una motivazione apparente, per avere ritenuto di condividere la statuizione del giudice di primo grado circa l’intervenuto consolidamento del credito conseguente alla decadenza dei potere impositivo ai fini della contestazione del credito dichiarato;

nonché del terzo motivo di ricorso, con il quale si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360, comma primo, n. 3), cod. proc. civ., per violazione dell’art. 30, d.P.R. n. 633/1972, e per falsa applicazione degli artt. 38-bis, 54 e 57, d.P.R. n. 633/1972, per avere accolto l’appello incidentale della società, avendo ritenuto che la mera presentazione delle dichiarazioni Iva legittimasse il rimborso del credito Iva, senza che, quindi, fosse necessario il controllo delle fatture;

in conclusione, è fondato il primo motivo, assorbiti il secondo e il terzo, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Commissione tributaria regionale anche per la liquidazione delle spese di lite del presente giudizio;

P.Q.M.

La Corte: accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Commissione tributaria regionale della Campania, in diversa composizione, anche per la liquidazione delle spese di lite del presente giudizio.

Così deciso in Roma, addì 26 gennaio 2021.

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