CASSAZIONE

I redditi provenienti da reati tributari sono da imputare nell’anno in cui se ne ottiene la disponibilità

Tributi – Reati tributari e da corruzione – IRPEF – Redditi da attività illecita – Redditi diversi – Avviso di accertamento – Individuazione del periodo d’imposta – Disponibilità dei proventi – Tassazione – Art. 1 del DPR 917/1986

La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 307 dell’8 gennaio 2025 è intervenuta sulla ripresa a tassazione, ai fini dell’IRPEF, di redditi costituiti da proventi di attività illecita, stabilendo che i redditi derivanti da attività illegali devono essere imputati al periodo d’imposta in cui il contribuente ne acquisisce l’effettiva disponibilità, indipendentemente dal momento in cui viene commesso il reato, con la realizzazione del presupposto impositivo fissato dall’art. 1 del DPR 917/1986 (TUIR), e coincidente, nel caso di specie, con l’affluenza sul conto corrente intestato allo stesso  contribuente e alla moglie.

Nel caso odierno la Corte Suprema di Cassazione ha fondato i motivi della decisione basandosi essenzialmente sulla violazione e falsa applicazione degli articoli 7 e 71 del TUIR, quando il ricorrente ha contestato l’imputazione dei redditi illeciti all’anno d’imposta 2006, sostenendo che tali redditi erano stati percepiti nel biennio 2004-2005.

La Corte ha ritenuto infondata questa contestazione e, inoltre, ha anche chiarito che per i redditi diversi si applica il principio di cassa, ossia il momento in cui i redditi sono effettivamente percepiti.

Questo principio si basa sul fatto che i redditi, indipendentemente dalla loro origine, devono essere dichiarati nel periodo in cui il contribuente ha effettivamente la possibilità di disporne: nel caso specifico i redditi illeciti sono stati acquisiti dal contribuente, come detto, solo nel 2006, quando sono confluiti sul conto corrente bancario.

I redditi diversi sono una delle sei categorie previste dal TUIR all’art. 6, e presentano una serie di particolarità: è una categoria fortemente disomogenea e a carattere residuale rispetto alle altre, in quanto vi sono ricomprese, ai sensi dell’art. 67, TUIR, una serie di fattispecie non accomunabili tra loro sul piano strutturale. Il suo carattere residuale, però, non deve essere confuso con il concetto di “chiusura”, in quanto le fattispecie rientranti in essa sono comunque tassativamente indicate dalla legge e l’elenco di tali fattispecie, previsto dal citato art. 67, non comprenderebbe anche i proventi da attività illecita, che sono però ricondotti nei redditi diversi dal Dl 223/2006.

Sul punto è intervenuta anche una non recentissima ma ancora attuale sentenza della Cassazione (n. 26440/2018), la quale affermava proprio che “… in tema di imposte sui redditi, i proventi illeciti, anche ove derivanti da frodi fiscali, devono essere ricondotti alla categoria dei redditi diversi, sebbene non ricompresi nell’elencazione di cui all’art.67 del d.P.R. n. 917 del 1986, secondo quanto espressamente previsto dall’art. 36, comma 34-bis, del d.l. n. 223 del 2006, conv. in l. n. 248 del 2006”. Altro aspetto, sottolineato dagli Ermellini, che ha influito sul giudizio riguarda la riferibilità dei redditi.

La Corte ha infatti sottolineato che il termine “possesso” dei redditi, utilizzato dall’art. 1 del TUIR, si riferisce al momento in cui il contribuente ha la disponibilità dei redditi stessi. Nel caso in esame, il possesso dei redditi è stato acquisito nel 2006. Pertanto l’individuazione del momento rilevante ai fini fiscali insiste nel periodo in cui i redditi illeciti sono stati acquisiti e  non certo nel momento della commissione dei reati. L’articolo 14, comma 4, della legge 537/1993, nel sottoporre a tassazione i proventi illeciti non distingue tra novella ricchezza prodotta dal reato e ricchezza precedentemente tassata presso la persona offesa. Il pretium sceleris si deve quindi sempre considerare come reddito imponibile, e ciò pure se il contribuente sia stato condannato alla restituzione delle somme illecitamente incassate e al risarcimento dei danni cagionati.

Al riguardo la sentenza n. 23079/ 2022 ebbe ad affermare un interessante principio di diritto che afferma: “… Rileva in tal senso l’art. 14, co. 4, della legge 537/93, il quale prevede che: ‘Nelle categorie di reddito di cui all’articolo 6, comma 1, del testo unico delle imposte sui redditi, approvato con decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, devono intendersi ricompresi, se in esse classificabili, i proventi derivanti da fatti, atti o attività qualificabili come illecito civile, penale o amministrativo se non già sottoposti a sequestro o confisca penale. I relativi redditi sono determinati secondo le disposizioni riguardanti ciascuna categoria’. L’obiettivo fondamentale che la norma ha inteso perseguire è costituito dall’equiparazione, ai fini impositivi, tra soggetti che pongono in essere attività produttive di redditi in maniera lecita (e che sugli stessi subiscono l’imposizione fiscale) e i soggetti che pongono in essere attività produttive di redditi in maniera illecita”.

La Corte, che ha respinto il ricorso del contribuente, ha così richiamato la giurisprudenza consolidata secondo cui il delitto di corruzione si perfeziona con l’accettazione della promessa o con la dazione-ricezione dell’utilità. Nel caso in cui alla promessa segua la dazione, il reato si consuma con quest’ultima condotta, ritenendo corretta l’imputazione dei redditi illeciti all’anno 2006.  In particolare, la Cassazione ha affermato che l’elemento costitutivo del reato di corruzione è rappresentato dall’accettazione della promessa di denaro o di altra utilità, che può avvenire anche in assenza di un’effettiva dazione.

In diverse sentenze la Corte ha sottolineato che il reato si consuma nel momento in cui il pubblico ufficiale accetta la promessa, indipendentemente dal fatto che l’utilità promessa venga poi effettivamente consegnata. Questo principio è stato ribadito in vari pronunciamenti, che hanno confermato la necessità di considerare l’accettazione come un momento chiave per la configurazione del reato. Nella sentenza 8330/2022 veniva infatti precisato che “… Occorre tuttavia preliminarmente considerare come il reato di corruzione propria si consumi già nel momento in cui interviene l’accordo corruttivo, risultando irrilevante il successivo, effettivo compimento dell’atto contrario ai doveri d’ufficio. In questo senso, ai fini della configurabilità tanto delle corruzione impropria, prevista dall’art. 318 c.p., comma 1, quanto di quella propria, prevista dall’art. 319, comma 1, è sufficiente che vi sia stata ricezione della indebita retribuzione o accettazione della relativa promessa, restando quindi indifferente che ad essa abbia fatto poi seguito o meno l’effettivo compimento dell’atto conforme o contrario ai doveri d’ufficio, in vista del quale la retribuzione è stata elargita o la promessa formulata” (Sent. n. 4177/200; v. anche sent. n. 4459/2016; sent. n. 1863/2020).

Del resto, secondo l’orientamento ormai divenuto costante nella giurisprudenza di legittimità, il delitto di corruzione costituisce fattispecie a “duplice schema“, che si perfeziona alternativamente con l’accettazione della promessa o con la dazione-ricezione dell’utilità, fermo restando che, nell’ipotesi in cui alla promessa faccia seguito la dazione, il reato si consuma ove venga realizzata anche quest’ultima condotta, costituente un approfondimento dell’offesa tipica (ex multis, Cass. n. 15641/2023; Cass. Sez. Un. Pen. n. 15208/2010; nello   stesso senso,   ex multis,   Cass.  Pen. n. 15641/2023,  Cass. Pen.  28988/ 2022, Cass. Pen. n. 20842/2018, Cass. Pen. n. 4105/2016).

Tanto premesso e tornando alla vicenda oggi in discussione, essa ha inizio quando un contribuente riceve un avviso di accertamento per recupero a tassazione ai fini IRPEF di proventi illeciti, conseguiti mettendo in atto alcuni reati di corruzione mentre era Direttore pro-tempore di un ufficio locale dell’Agenzia delle entrate. Gli introiti, percepiti nel 2006, erano stati riclassificati come redditi diversi ai fini IRPEF ed era scattato l’avviso, che il contribuente però aveva impugnato, sostenendo che i redditi avrebbero dovuto formare oggetto di accertamento in relazione all’anno 2005, e non al 2006.

La Commissione Tributaria Provinciale, e successivamente la Regionale, davano ragione al contribuente annullando l’avviso per tardività dell’accertamento (oltre i 4 anni).  Proposto ricorso, la Cassazione dava ragione al Fisco rinviando la causa alla CTR del Veneto che, a sua volta, accoglieva l’appello delle Entrate imputando correttamente i redditi al 2006.

A questo punto il funzionario proponeva nuovamente ricorso alla Suprema Corte, con l’unico motivo di ricorso, formulato ai sensi  dell’art. 360, comma 1, n.  3)  c .p.c., in cui essenzialmente   denunciava la violazione e la falsa applicazione degli artt. 7 e 71 del TUIR. I Supremi Giudici di legittimità hanno respinto le affermazioni della parte contribuente stabilendo che “ … Si censura l’impugnata decisione per aver ritenuto corretta l’imputazione all’anno d’imposta 2006 dei  redditi ripresi a tassazione, pur essendo stato accertato che i proventi illeciti contestati da ll’Ufficio erano stati percepiti dal contribuente nel biennio 2004-2005. La CTR avrebbe, quindi, trascurato di considerare che alla categoria dei redditi diversi ex art. 67 del D.P.R. n. 917 del 1986  (TUIR), nel cui ambito vanno ricompresi i proventi in questione, si applica il principio di cassa, giusta quanto disposto dall’art. 71 dello stesso decreto. 2. Il motivo è infondato. 2.1 L’art. 1 del TUIR stabilisce che «presupposto dell’imposta sul reddito delle persone fisiche è il possesso di redditi in denaro o in natura rientranti nelle categorie indicate nell’art. 6.  2. 2  L’art. 141 comma 4, della L.  n. 537 del 1993 nel  testo applicabile ‘ratione temporis’ vigente a anteriormente alle modifiche apportate dal D.Lgs. n. 208 del 2015, così recita: ‘Nelle categorie di reddito di cui all’articolo 6, comma  11  del testo unico delle  imposte su i redditi,  approvato con  D.P.R. 22  dicembre n.  917,  devono  intendersi  ricompresi, se in esse classificabili come proventi derivanti da fatti, atti o attività qualificabili come illecito civile, penale o amministrativo se non già sottoposti a sequestro o confisca pena le. I relativi redditi sono determinati secondo le disposizioni riguardanti ciascuna categoria ».  2. 3 L’art. 36, comma 34-bis, del D.L. n. 223 del 2006, convertito in L. n. 248 del 2006, nel detta re l’interpretazione autentica di tale ultima norma, ha precisato che, «in deroga all’articolo 3 della legge 27 luglio 2000, n. 212, la  disposizione di cui a l comma 4 dell’articolo 14 della legge 24 dicembre 1993, n. 537, si interpreta nel senso che i proventi illeciti ivi indicati, qualora non siano classificabili nelle categorie di reddito di cui all’articolo 6, comma 1, del testo unico delle imposte sui redditi di cui al decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n.917, sono comunque considerati come redditi diversi’. 2.4 Ricostruito in breve il quadro normativo di riferimento, giova rammentare che, per giurisprudenza di questa Corte, il termine ‘possesso’ utilizzato dall’art. 1 del TUIR, nel suo significato minimo comune, evoca  la riferibilità a  un soggetto di determinati redditi e la titolarità in capo a lui degli inerenti poteri di disposizione (cfr. Cass. n. 433/ 2013). 2. 5 Tanto premesso, si osserva che, in base a quanto accertato in fatto dalla CTR veneta, il  possesso dei redditi recupera ti a tassazione fu acquisito dal contribuente   nell’anno 2006, nel corso del qua le i proventi dell’attività illecita da lui posta in essere, consistita in una pluralità di episodi corruttivi, confluirono sui conti correnti bancari intestati allo stesso contribuente ed a sua moglie. 2.6. Il collegio regionale ha, inoltre, precisato che a i fini fiscali non rileva il momento di commissione dei singoli fatti di reato (‘momento corruttivo’), bensì quello in cui è avvenuta l’acquisizione dei redditi oggetto di ripresa. 2.7. La soluzione  adottata  dalla CTR appare giuridicamente corretta alla luce di quanto chiarito sopra con riguardo all’individua del presupposto impositivo del tributo. 2.8. Non va, peraltro, dimenticato che, secondo l’orientamento ormai  costante nella  giurisprudenza di  legittimità , il  delitto  di corruzione costituisce fattispecie a ‘duplice schema’, che si perfeziona alternativamente con l’accettazione della promessa o con la dazione-ricezione dell’utilità, fermo restando che, nell’ipotesi in cui alla promessa faccia sèguito la dazione, il reato si consuma ove venga  realizzata  a nche  quest’ultima condotta, costituente  un approfondimento dell’offesa tipica (cfr. Cass. Sez. Un. Pen. n. 15208/2010; nello stesso senso, ex multis, Cass. Pen. n. 15641/2023, Cass. Pen.  28988/ 2022, Cass. Pen. n. 20842/2018, Cass. Pen. n. 4105/2016). 2.9. Nessun errore di diritto è, dunque, ravvisabile nell’iter motivazionale della sentenza impugnata; né in questa sede è possibile riesaminare la valutazione del materiale probatorio espressa dal collegio di secondo grado, il quale, sulla scorta di un apprezzamento di merito delle emergenze processuali,    insindacabile in cassazione, ha individuato nel 2006 l’anno in cui i proventi di reato entrano nella sfera  di  disponibilità  del contribuente. 3.Va conclusivamente affermato il seguente principio di diritto: ‘In tema di ripresa a tassazione ai fini dell’IRPEF di redditi costituiti da proventi di attività illecita per l’individuazione del periodo d’imposta al quale imputare tali redditi deve farsi riferimento al momento in cui viene acquisita la disponibilità dei detti proventi coincidente con la realizzazione del presupposto impositivo fissato dall’art. 1 del D.P.R. n. 917 del 1986’. 4. Per quanto precede, il ricorso deve essere respinto”.

Corte di Cassazione – Ordinanza 8 gennaio 2025, n. 307

sul ricorso iscritto al n. 15168/ 2020 R.G. proposto da:

(Omissis) elettivamente  domiciliato in Roma presso lo studio dell’Avv. (Omissis) rappresentato e difeso dall’Avv. (Omissis)

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE in persona del Direttore pro tempore domiciliata in Roma alla via dei  Portoghesi n. 12 presso  gli uffici dell’Avvocatura Generale dello Stato dalla quale è rappresentata e difesa ope legis

– controricorrente –

avverso           la SENTENZA           della COMMISSIONE TRIBUTARIA REGIONALE  DEL VENETO           n. 720/19  depositata il  18  settembre 2019

Udita  la  relazione svolta  nell’adunanza camera le del 28  novembre 2024 da l Consigliere Danilo CHIECA

FATTI DI CAUSA

L’Agenzia delle Entrate emetteva nei confronti del contribuente  di cui all’epigrafe un avviso di accertamento con il quale operava il recupero  a  tassazione   ai   fini   dell’ IRPEF dei   proventi   illeciti conseguiti  dallo  stesso  contribuente nell’anno  2006   mediante commissione  di  plurimi  reati di corruzione  posti  in  essere in qualità di Direttore pro tempore di un Ufficio locale della predetta agenzia  fiscale;  proventi  ricondotti  aIla  categoria  dei  «redditi diversi» in virtù della  norma contenuta  nell’art.  14, comma  4, della n. 537 del 1993, come autenticamente interpretata dall’art. 36, comma 34-bis, del D.L. n. 223 del 2006, convertito in L. n. 248 del 2006.

Il contribuente impugnava l’atto impositivo dinanzi aIla Commissione Tributaria Provinciale, sostenendo che i redditi in questione avrebbero potuto formare oggetto di accertamento in relazione all’anno 2005, e non al 2006.

L’adita Commissione accoglieva il ricorso, annullando l’avviso di accertamento.

La  decisione veniva  successiva mente confermata dalla Commissione Tributaria Regionale con la sentenza     di cui all’epigrafe, che respingeva l’appello dell’Amministrazione Finanziaria, rilevando che l’avviso di  accertamento risultava illegittimamente emesso dopo la scadenza del termine quadriennale fissato dall’art. 43, comma  1, del  D.P. R.  n.  600  del 1973,  nel  testo  applicabile  «ratione temporis».

Avverso detta ultima pronuncia l’Agenzia delle Entrate proponeva ricorso per cassazione, denunciando,  fra  l’altro, la nullità dell’impugnata sentenza per vizio di ultra petizione, per avere essa statuito su un’eccezione   di  decadenza non ritualmente  proposta dalla parte privata.

Con ordinanza n. 6441/2018 del 15 marzo 2018, riconosciuta la fondatezza della sollevata censura, questa Corte cassava la sentenza gravata, rinviando la causa alla stessa CTR del Veneto, in diversa composizione, per un nuovo esame della controversia . Il contribuente riassumeva, quindi, il giudizio davanti al giudice del rinvio, il quale, con sentenza n. 720/19 del 18 settembre 2019, accoglieva l’appello dell’Agenzia delle Entrate, respingendo l’originario ricorso del contribuente.

Contro tale sentenza il  contribuente ha         proposto ricorso per cassazione affidato a un unico motivo.

L’Agenzia delle Entrate ha resistito con controricorso. La  causa è stata avviata alla trattazione in camera di consiglio, ai sensi  dell’art.  380 -bis.1  c.p.c.

Nel termine di cui al comma 1, terzo periodo, del predetto articolo il ricorrente ha depositato memoria illustrativa.

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Con l’unico motivo di ricorso, formulato ai sensi  dell’art. 360, comma 1, n.  3)  c .p.c.,  sono  denunciate  la  violazione  e  la falsa applicazione degli artt. 7 e 71 del D.P.R. n. 917 del 1986 (TUIR).

1.1 Si censura l’impugnata decisione per aver  ritenuto  corretta l’imputazione   all’anno d’imposta 2006 dei   redditi ripresi a tassazione, pur essendo stato accertato che i proventi illeciti contestati dall’Ufficio erano stati percepiti dal contribuente nel biennio 2004- 2005.

La CTR avrebbe, quindi, trascurato di considerare che alla categoria dei redditi diversi ex a rt. 67 del D.P.R. n. 917 del 1986 (TUIR), nel cui ambito vanno ricompresi i proventi in questione, si applica il principio di cassa, giusta quanto disposto dall’art. 7 1 dello stesso decreto.

2. Il motivo è infondato.

2.1 L’art. 1 del TUIR stabilisce che «presupposto dell’imposta sul reddito delle persone fisiche è il possesso di redditi in denaro o in natura rientranti nelle categorie indicate nell’art. 6».

2.2 L’art. 141, comma 4, della L. n. 537 del 1993 nel  testo applicabile «ratione temporis» vigente a anteriormente alle modifiche apportate dal D.Lgs. n. 208 del 2015, così recita: «Nelle categorie di reddito di cui all’articolo 6, comma  11  del testo unico delle  imposte su i redditi,  approvato con  D.P.R. 22  dicembre n.  917,  devono  intendersi  ricompresi,  se  in  esse  classificabili  come  proventi derivanti da fatti, atti o attività qualificabili come illecito civile, penale o amministrativo se non già sottoposti a sequestro o confisca pena le. I relativi redditi sono determinati secondo le disposizioni riguardanti ciascuna categoria».

2.3 L’art. 36, comma 34- bis, del D.L. n. 223 del 2006, convertito in L. n. 248 del 2006, nel dettare l’interpretazione autentica di tale ultima norma, ha precisato che, «in deroga all’articolo 3 della legge 27 luglio 2000, n.212,  la  disposizione di cui a l comma 4 dell’articolo 14 della legge 24 dicembre 1993, n. 537 si interpreta nel senso che i proventi illeciti ivi indica ti, qualora non siano classificabili nelle categorie di reddito di cui all’articolo 6, comma1, del testo unico delle imposte sui redditi di cui al decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n.917,  sono comunque considerati come redditi diversi».

2.4 Ricostruito in breve il quadro normativo di riferimento, giova rammentare che, per  giurisprudenza di questa Corte, il termine “possesso” utilizzato dall’art. 1 del TUIR, nel suo significato minimo comune, evoca  la riferibilità a  un soggetto di determinati redditi e la titolarità in capo a lui degli inerenti poteri di disposizione (cfr. Cass. n. 433/ 2013).

2. 5 Tanto premesso, si osserva che, in base a quanto accertato in fatto dalla CTR veneta, il  possesso dei redditi recupera ti a tassazione fu acquisito dal contribuente nell’anno 2006, nel corso del qua le i proventi dell’attività illecita da lui posta in essere, consistita in una pluralità di episodi corruttivi, confluirono sui conti correnti bancari intestati allo stesso contribuente ed a sua moglie.

2.6. Il collegio regionale ha, inoltre, precisato che a i fini fiscali non rileva il momento di commissione dei singoli fatti di reato («momento corruttivo»), bensì quello in cui è avvenuta l’acquisizione dei redditi oggetto di ripresa 

2.7. La soluzione  adottata  dalla CTR appare giuridicamente corretta alla luce di quanto chiarito sopra con riguardo all’individua del presupposto  impositivo del tributo.

2.8. Non  va, peraltro, dimenticato che, secondo l’orientamento ormai  costante nella  giurisprudenza di  legittimità , il  delitto  di corruzione costituisce fattispecie  a  “duplice  schema”,  che  si perfeziona        alternativamente con l’accettazione della promessa o con la dazione-ricezione dell’utilità, fermo    restando che, nell’ipotesi in cui alla promessa faccia seguito la dazione, il reato si consuma ove venga  realizzata  a nche  quest’ultima condotta, costituente  un approfondimento dell’offesa tipica (cfr. Cass. Sez. Un. Pen. n. 15208/2010; nello stesso senso, ex multis, Cass. Pen. n. 15641/2023, Cass. Pen. 28988/2022, Cass. Pen. n. 20842/2018, Cass. Pen. n. 4105/2016).

2.9. Nessun errore di diritto è, dunque, ravvisabile nell’iter motivazionale della sentenza impugnata; né in questa sede è possibile riesaminare la valutazione del materiale probatorio espressa dal collegio di secondo grado, il quale, sulla scorta di un apprezzamento di merito delle emergenze processuali,    insindacabile in cassazione, ha individuato nel 2006 l’anno in cui i proventi di reato entrano nella sfera  di  disponibilità  del contribuente.

3.Va conclusivamente affermato il seguente principio di diritto: «In tema di ripresa a tassazione ai fini dell’IRPEF di redditi costituiti da proventi di attività illecita per l’individuazione del periodo d’imposta al quale imputare tali redditi deve farsi riferimento al momento in cui viene acquisita la disponibilità dei detti proventi coincidente con la realizzazione del presupposto impositivo fissato dall’art. 1 del D.P.R. n. 917 del 1986».

4. Per quanto precede, il ricorso deve essere respinto.

5. Le spese del presente giudizio di legittimità seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo.

6. Stante l’esito dell’impugnazione, viene resa nei confronti del ricorrente l’attestazione contemplata   dall’art.13, comma del D.P.R. n. 15 del 2002 (Testo Unico delle spese di giustizia), inserito dall’art. 1, comma 17, della L. n . 228 del 2012.

7. Si ritiene, infine, di dover disporre d’ufficio l’oscuramento  dei dati personali identificativi del ricorrente, a i sensi  dell’art.  52, comma 2, secondo periodo, del D.Lgs. n. 196 del 2003.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente a rifondere all’Agenzia delle Entrate le spese del presente giudizio di legittimità, liquidate in complessivi  2. 300 euro, oltre ad eventuali oneri prenotati a debito. Ai sensi dell’art. 13, comma  1-quater, del D.P.R. n. 115 del 2002 (Testo Unico delle spese di giustizia), dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per la proposta impugnazione, a norma del comma 1-bis dello stesso  articolo, se dovuto.

Visto l’art. 52 del D.Lgs. n. 196 del 2003, dispone che, in caso di diffusione della presente pronuncia , siano omessi le generalità e gli altri dati identificativi del ricorrente. Così  deciso  in  Roma , nella   camera   di  consiglio   della   Sezione Tributaria della Corte Suprema di Cassazione, in data 28 novembre 2024.

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