CASSAZIONE

I conti correnti bancari della pensione del presunto evasore fiscale possono essere sequestrati.

Evasione fiscale – Trattamenti pensionistici accreditati sul c/c – Sequestro preventivo

La Corte di Cassazione, nella sentenza n. 44912 del 25 ottobre 2016, ha precisato che in tema di evasione fiscale il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente può riguardare le somme già incassate a titolo di pensione in quanto non trova applicazione l’art. 545  del codice di procedura civile, che circoscrive la possibilità di pignorare i trattamenti pensionistici o quelli ad essi assimilati alla misura del quinto del loro importo, limitando la sua operatività al processo esecutivo. Quindi, per la Cassazione la pensione è sequestrabile, e il limite del quinto posto dal cennato articolo vale solo per il processo esecutivo. L’art. 545 c.p.c, del resto, tutela l’interesse pubblicistico consistente nel garantire al pensionato la disponibilità di mezzi adeguati alle proprie esigenze di vita, essendo volta a evitare che questi gli siano sottratti prima della corresponsione.

La natura di norma relativa al processo di esecuzione del predetto limite è stata peraltro confermata dal nuovo testo dell’articolo 546, comma 1, risultante dalla modifica apportata dal decreto legge numero 83/2015. Nel caso in oggetto gli Ermellini hanno ritenuto che l’articolo 545 c.p.c. non può operare in nessun caso al di fuori del processo esecutivo, soprattutto nei casi, come quello sottoposto alla loro attenzione, in cui le somme erogate a titolo di pensione sono già state corrisposte e si sono confuse con il resto del patrimonio dell’avente diritto. Di nessun rilievo le obiezioni della difesa secondo la quale 4/5  della pensione devono essere preservati dal pignoramento.

Sul punto gli Ermellini hanno infatti spiegato che la norma che limita le misure sui trattamenti previdenziali si riferisce alla fase di esecuzione, riportando che, come si legge nella sentenza, “Le Sezioni Unite di questa Corte hanno infatti chiarito che il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente può essere disposto anche quando l’impossibilità del reperimento dei beni, costituenti il profitto del reato, sia transitoria e reversibile, purché sussistente al momento della richiesta e dell’adozione della misura, non essendo necessaria la loro preventiva ricerca generalizzata (Sez. U, n. 10561 del 30/01/2014, Gubert, Rv. 258648; conf. Sez. 3  n. 41073 del 30/09/2015, Scognamiglio, Rv. 265028, secondo cui, in tema di reati tributari, il pubblico ministero è legittimato, sulla base del compendio indiziario emergente dagli atti processuali, a chiedere al giudice il sequestro preventivo nella forma per “equivalente”, invece che in quella “diretta”, solo all’esito di una valutazione allo stato degli atti in ordine alle risultanze relative al patrimonio dell’ente che ha tratto vantaggio dalla commissione del reato, non essendo invece necessario il compimento di specifici ed ulteriori accertamenti preliminari per rinvenire il prezzo o il profitto diretto del reato), e neppure il compimento di specifici ed ulteriori accertamenti preliminari per rinvenire il prezzo o il profitto nelle casse della società o per ricercare in forma generalizzata i beni che ne costituiscono la trasformazione, incombendo, invece, al soggetto destinatario del provvedimento cautelare l’onere di dimostrare la sussistenza dei presupposti per disporre il sequestro in forma diretta (Sez. 3, n. 1738 del 11/11/2014, Bartolini, Rv. 261929; conf. Sez. 5, n. 46500 del 19/09/2011, Lampugnani, Rv. 251205). Ora, nella specie, il Tribunale, ha disatteso la censura del richiedente sottolineando la mancanza di beni costituenti il profitto dei reati e materialmente apprensibili, ed a fronte di tale considerazione il ricorrente si è limitato a ribadire l’esperibilità del sequestro in forma diretta, senza, tuttavia, allegare i presupposti per tale esecuzione in forma diretta, né indicare i beni concretamente aggredibili, avendo tra l’altro il Tribunale dato atto dell’avvenuto sequestro di beni nei confronti degli altri indagati per un ammontare assai inferiore al profitto complessivo, con la conseguente infondatezza anche di tale censura”.

pensioni

 

CORTE DI CASSAZIONE Sentenza 25 ottobre 2016, n. 44912

Ritenuto in fatto

  1. Con ordinanza del 8 settembre 2015 il Tribunale di Napoli ha respinto la richiesta di riesame presentata da G.B. nei confronti della ordinanza del Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Napoli del 13 luglio 2015, con cui era stato disposto il sequestro preventivo e per equivalente (ai fini della futura confisca, ai sensi dell’art. 11 della I. 146 del 2006) dei beni del richiedente fino alla concorrenza della somma di euro 96.327.534,80, in relazione al reato di associazione a delinquere di carattere transnazionale finalizzata alla commissione di truffe aggravate in danno della SIAE ed alla evasione fiscale.
  2. Avverso tale ordinanza ha proposto ricorso l’imputato mediante il suo difensore di fiducia, che lo ha affidato a tre motivi, così riassunti entro i limiti previsti dall’art. 173 disp. att. cod. proc. pen.

2.1. Con un primo motivo ha denunciato violazione di legge penale in riferimento all’art. 11 L. 146 del 2006, in relazione alla individuazione e determinazione del profitto del reato quale valore di riferimento per il sequestro preventivo funzionale alla confisca per equivalente, evidenziando la mancanza di profitti a favore del ricorrente in conseguenza e per effetto della commissione del reato di associazione per delinquere ipotizzato a suo carico, essendo estraneo alla commissione dei reati fine da cui era derivato il profitto, e dovendosi al riguardo accedere all’orientamento interpretativo secondo cui non vi è correlazione tra il delitto associativo in quanto tale ed i profitti conseguiti mediante la realizzazione del programma criminoso.

Ha inoltre evidenziato la mancata dimostrazione della realizzazione di un profitto da parte degli associati per effetto della commissione dei reati fine, cui egli era comunque rimasto estraneo, e la mancanza di motivazione sul punto.

2.2. Con un secondo motivo ha denunciato ulteriore violazione dell’art. 11 L. 146 del 2006, per l’omessa motivazione in ordine alla impossibilità di eseguire il sequestro in forma specifica, che avrebbe potuto essere concretamente disposto, in quanto i reati fine consistevano in violazioni alla disciplina sulle imposte dirette ed indirette.

2.3. Con il terzo motivo ha denunciato violazione di legge in relazione agli artt. 321 bis cod. proc. pen. e 545 cod. proc. civ., per l’errata esclusione della impignorabilità dei propri trattamenti pensionistici, nonostante l’espresso divieto in tal senso contenuto nell’art. 545 cod. proc. civ.

  1. Il Procuratore Generale nella requisitoria scritta depositata ha concluso per l’annullamento della ordinanza impugnata limitatamente ai quattro quinti degli importi maturati dalla data del sequestro e sui ratei maturandi degli emolumenti pensionistici, e per il rigetto nel resto del ricorso, evidenziando la sequestrabilità del complesso dei vantaggi derivanti dalla commissione dei reati oggetto della associazione a delinquere a prescindere dalla partecipazione ad essi del singolo associato, e l’irrilevanza della eventuale eccedenza dei sequestri eseguiti rispetto al profitto concretamente conseguito, da far valere dall’interessato in sede esecutiva.

Ha invece rilevato la fondatezza del terzo motivo, in ragione della impignorabilità dei quattro quinti degli emolumenti, e dunque anche dei trattamenti pensionistici, reputando irrilevante l’accredito di tali somme sui conti bancari del beneficiario.

Il ricorso è infondato.

  1. Per quanto riguarda il primo motivo, mediante il quale è stata denunciata violazione dell’art. 11 I. 146 del 2006, in relazione alla individuazione e determinazione del profitto del reato quale valore di riferimento per il sequestro preventivo funzionale alla confisca per equivalente, ed è stata eccepita la mancata dimostrazione della realizzazione di un profitto da parte degli associati per effetto della commissione dei reati fine, nonché mancanza di motivazione sul punto, va rilevato che tale doglianza è inammissibile nella parte in cui è diretta a censurare l’accertamento in punto di fatto compiuto dai giudici di merito in ordine alla esistenza di un profitto derivante dalla commissione dei reati fine, essendo volta a conseguire una rivisitazione di tale accertamento, non sindacabile nel giudizio di legittimità in assenza di vizi della motivazione, nella specie non deducibili, posto che il ricorso per cassazione, in materia cautelare reale, è consentito solo per violazione di legge (Sez. U, n. 5876 del 28/1/2004, Bevilacqua, Rv. 226710. V. anche Sez. 3, Sentenza n. 29084 del 2015, Favazzo, Rv. 264121; Sez. 3, n. 28241 del 18/02/2015, Baronio, Rv. 264011; Sez. 6, n. 6589 del 10/1/2013, Gabriele, Rv. 254893; Sez. 5, n. 35532 del 25/6/2010, Angelini, Rv. 248129; Sez. 6, n. 7472 del 21/1/2009, Vespoli, Rv. 242916; Sez. 5, n. 8434 del 11/1/2007, Ladiana, Rv. 236255).

La doglianza relativa alla irrilevanza, per il mero partecipe della associazione, del profitto derivante dalla commissione di reati fine cui sia rimasto estraneo, è infondata, essendo più volte stato affermato dalla giurisprudenza di legittimità, con orientamento che il Collegio condivide e ritiene di ribadire, che il delitto di associazione per delinquere è idoneo a generare un profitto, come tale sequestrabile, nei casi consentiti dalla legge, ai fini della successiva confisca per equivalente, in via del tutto autonoma rispetto a quello prodotto dai reati fine, e che è costituito dal complesso dei vantaggi direttamente conseguenti dall’insieme di questi ultimi, siano essi attribuibili ad uno o più associati, in quanto l’istituzione della “societas sceleris” è funzionale alla ripartizione degli utili derivanti dalla realizzazione del programma criminoso (così Sez. 3, n. 26721 del 4/3/2015, Montella, Rv. 263945, citata anche nella requisitoria del Procuratore Generale; conf. Sez. 2, n. 6507 del 20/1/2015, Scoponi, Rv. 262782; entrambe correttamente richiamate anche nella ordinanza impugnata; nonché Sez. 3, n. 5869 del 27/01/2011, Scaglia, Rv. 249537), risultando isolato il diverso orientamento di cui alla sentenza n.        7860 del 2015 (Sez. 1, n. 7860 del 20/01/2015, Meli, Rv. 262758).

  1. Quanto al secondo motivo, mediante il quale è stata denunciata ulteriore violazione dell’art. 11 L. 146 del 2006, per l’omessa motivazione in ordine alla impossibilità di eseguire il sequestro in forma specifica, giacché esso avrebbe potuto essere concretamente disposto, in quanto i reati fine consistevano in violazioni alla disciplina sulle imposte dirette ed indirette, e quindi avrebbe potuto essere eseguito sulle somme che ne costituivano il profitto, va evidenziato che, stante la natura cautelare del provvedimento, non è ancora valutabile in questa fase se sia possibile o meno la confisca dei beni che costituiscono il prezzo od il profitto di reato, dal momento che il sequestro è intervenuto in una fase iniziale del procedimento, quando ancora non è certo se e su quali beni la confisca sarà disposta.

Le Sezioni Unite di questa Corte hanno infatti chiarito che il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente può essere disposto anche quando l’impossibilità del reperimento dei beni, costituenti il profitto del reato, sia transitoria e reversibile, purché sussistente al momento della richiesta e dell’adozione della misura, non essendo necessaria la loro preventiva ricerca generalizzata (Sez. U, n. 10561 del 30/01/2014, Gubert, Rv. 258648; conf. Sez. 3  n. 41073 del 30/09/2015, Scognamiglio, Rv. 265028, secondo cui, in tema di reati tributari, il pubblico ministero è legittimato, sulla base del compendio indiziario emergente dagli atti processuali, a chiedere al giudice il sequestro preventivo nella forma per “equivalente”, invece che in quella “diretta”, solo all’esito di una valutazione allo stato degli atti in ordine alle risultanze relative al patrimonio dell’ente che ha tratto vantaggio dalla commissione del reato, non essendo invece necessario il compimento di specifici ed ulteriori accertamenti preliminari per rinvenire il prezzo o il profitto diretto del reato), e neppure il compimento di specifici ed ulteriori accertamenti preliminari per rinvenire il prezzo o il profitto nelle casse della società o per ricercare in forma generalizzata i beni che ne costituiscono la trasformazione, incombendo, invece, al soggetto destinatario del provvedimento cautelare l’onere di dimostrare la sussistenza dei presupposti per disporre il sequestro in forma diretta (Sez. 3, n. 1738 del 11/11/2014, Bartolini, Rv. 261929; conf. Sez. 5, n. 46500 del 19/09/2011, Lampugnani, Rv. 251205).

Ora, nella specie, il Tribunale, ha disatteso la censura del richiedente sottolineando la mancanza di beni costituenti il profitto dei reati e materialmente apprensibili, ed a fronte di tale considerazione il ricorrente si è limitato a ribadire l’esperibilità del sequestro in forma diretta, senza, tuttavia, allegare i presupposti per tale esecuzione in forma diretta, né indicare i beni concretamente aggredibili, avendo tra l’altro il Tribunale dato atto dell’avvenuto sequestro di beni nei confronti degli altri indagati per un ammontare assai inferiore al profitto complessivo, con la conseguente infondatezza anche di tale censura.

  1. Infondato risulta, infine, anche il terzo motivo, mediante il quale è stata denunciata violazione degli artt. 321 bis cod. proc. pen. e 545 cod. proc. civ., per l’errata esclusione della impignorabilità dei propri trattamenti pensionistici, nonostante l’espresso divieto in tal senso contenuto nell’art. 545 cod. proc. civ.

Al riguardo il Tribunale ha escluso la sussistenza di tale divieto, sulla base del rilievo che il sequestro era stato eseguito su somme di denaro depositate in banca, su un conto corrente di cui l’indagato era titolare, assimilabili al denaro contante, evidenziando che il divieto di cui il richiedente assumeva la violazione riguarda un credito avente un oggetto alimentare, tanto da essere contemplato dalla disciplina della esecuzione presso terzi, e che dopo il pagamento il denaro perde la sua causa e diviene pignorabile.

Tali considerazioni risultano del tutto condivisibili, in quanto, come sottolineato dal Tribunale, il divieto stabilito dall’art. 545 cod. proc. civ., che limita la pignorabilità ad un quinto dei trattamenti pensionistici o ad essi assimilati, riguarda il processo esecutivo, ed è posto a tutela dell’interesse di natura pubblicistica consistente nel garantire al pensionato i mezzi adeguati alle proprie esigenze di vita (Cass. Civ., Sez. 3, n. 6548 del 22/03/2011, Rv. 617581, D. contro B. ed altro), evitando che possano essergli sottratti prima della corresponsione, ma non può, evidentemente, operare al di fuori di tale processo, né, soprattutto, quando le somme erogate a titolo di pensione siano (nella specie da tempo imprecisato) state corrisposte all’avente diritto e si trovino confuse con il suo restante patrimonio (di cui neppure è stata precisata l’entità, tantomeno con riferimento ai depositi bancari).

Nella specie il ricorrente non ha dedotto alcunché né circa l’entità del suo patrimonio mobiliare, né a proposito dell’ammontare dei suoi depositi bancari, né della sua pensione, con la conseguenza che la deduzione circa l’impignorabilità di quest’ultima (rectius, nella specie, insequestrabilità) risulta del tutto generica, avendo perso l’invocata natura pensionistica la somma corrisposta al creditore, a seguito del suo accredito (da epoca non precisata) sul conto corrente bancario del creditore.

Tale considerazione non si pone in contrasto con il diverso orientamento espresso dalla sentenza n. 9767 del 2015, secondo cui ” Il sequestro preventivo funzionale alla successiva confisca per equivalente del controvalore di entità monetarie costituenti il prezzo o il profitto di reati commessi dal pubblico dipendente in pregiudizio della p.a. di appartenenza, è consentito solo nei limiti del quinto del relativo importo, al netto delle ritenute, in relazione agli emolumenti retributivi corrisposti dallo Stato e dagli altri enti indicati nell’art. 1 d.P.R. 5 gennaio 1950 n. 180 ” (Sez. 2, n. 9767 del 18/11/2014, Allotta, Rv. 263290, che in motivazione ha precisato che gli emolumenti retributivi nella misura di quattro quinti e gli assegni di carattere alimentare per l’intero sono riconducibili all’area dei diritti inalienabili della persona tutelati dall’art. 2 Cost.), in quanto, nella specie, il diritto di credito vantato dal ricorrente (in relazione al quale opera il suddetto limite di pignorabilità) ha perso, a seguito ed in conseguenza della corresponsione delle somme che ne costituivano l’oggetto, mediante accredito a favore della banca presso la quale il creditore intrattiene il rapporto di conto corrente (e di cui, contestualmente, la banca è divenuta titolare e debitrice nei confronti del correntista), la propria natura, confondendosi con il patrimonio del pensionato.

Non soccorre, al riguardo, neppure il nuovo testo dell’art. 546, comma 1, cod. proc. civ., come modificato dall’art. 13, comma 1, lett. m), d.l. 27 giugno 2015, n. 83, convertito, con modificazioni dalla I. 6 agosto 2015, n. 132, secondo cui ” Dal giorno in cui gli è notificato l’atto previsto nell’articolo 543, il terzo è soggetto relativamente alle cose e alle somme da lui dovute e nei limiti dell’importo del credito precettato aumentato della metà, agli obblighi che la legge impone al custode. Nel caso di accredito su conto bancario o postale intestato al debitore di somme a titolo di stipendio, salario, altre indennità relative al rapporto di lavoro o di impiego, comprese quelle dovute a causa di licenziamento, nonché a titolo di pensione, di indennità che tengono luogo di pensione, o di assegni di quiescenza, gli obblighi del terzo pignorato non operano, quando l’accredito ha luogo in data anteriore al pignoramento, per un importo pari al triplo dell’assegno sociale; quando l’accredito ha luogo alla data del pignoramento o successivamente, gli obblighi del terzo pignorato operano nei limiti previsti dall’articolo 545 e dalle speciali disposizioni di legge”.

Tale disposizione conferma, infatti, la natura di norma relativa al processo di esecuzione del limite di cui all’art. 545 cod. proc. civ. ed alle leggi speciali, destinata ad operare nell’ambito di tale processo e nei confronti del terzo debitore, e l’inapplicabilità di tale limite allorquando, come nel caso di specie, le somme dovute dal terzo a titolo di stipendi o pensioni si siano confuse nel patrimonio del pignorato (o sequestrato) da epoca imprecisata, avendo a cagione del pagamento e della conseguente confusione perduto la natura pensionistica invocata dal ricorrente.

Ne consegue l’infondatezza anche di tale motivo di ricorso.

In conclusione il ricorso deve essere integralmente respinto, a cagione della infondatezza di tutti e tre i motivi ai quali è stato affidato, ed il ricorrente condannato al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

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