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FISCO E MERCATO DELL’ARTE

Nel corso degli anni il mercato nazionale dell’arte ha registrato un costante e crescente numero di cessioni di oggetti d’arte intercorse tra privati a scapito di quelle curate dalle case d’asta o dai professionisti del settore, fenomeno segnaletico di atteggiamenti sempre più diffusi orientati alla tutela della “riservatezza“ delle transazioni.

Le ragioni di tali pratiche sono da ricercare in primo luogo nel comprensibile riserbo che tanto il venditore quanto l’acquirente vogliono garantire, specie nel caso di passaggio di proprietà di beni – ad esempio – di interesse artistico, storico archeologico rilevante e, quindi, soggetto alle prescrizioni della legislazione in materia (cd “codice dei beni culturali e del paesaggio”). Per altro verso, non può essere sottovalutato l’intento di sottrarre la cessione a possibili pretese di carattere tributario, considerato che l’operazione, in determinate ipotesi, potrebbe assumere rilevanza sul piano fiscale.

Ma cerchiamo di fare chiarezza.

Può anticipato che, allo stato attuale, il collezionismo di opere d’arte è sostenuto da una fiscalità favorevole (in linea di massima), sempre che venga configurato correttamente il confine tra la figura del “collezionista” e quello del “mercante d’arte”, sia pur “di fatto”.

Tale qualificazione deve essere individuata nel caso concreto, sulla base anche di alcuni indicatori di imprenditorialità ormai noti da tempo.

Secondo la dottrina e la giurisprudenza, il “collezionista” è certamente un soggetto che acquista e cede opere d’arte per soddisfare un proprio interesse individuale che, in genere, è di tipo culturale ma talvolta anche patrimoniale, vista la tendenza ad attribuire a tali beni una connotazione di vero e proprio investimento di medio-lungo periodo.

Per contro, il mercante d’arte è colui che in modo imprenditoriale o professionale commercia in oggetti d’arte allo scopo di trarne un profitto.

Nel primo caso, il Testo Unico delle Imposte sui Redditi (ed anche la normativa IVA) riconosce nella sostanza una irrilevanza fiscale alla operazione mentre nel secondo saranno applicabili le ordinarie regole di tassazione delle attività commerciali.

Se in astratto la distinzione potrebbe sembrare agevole, in concreto sono sorte numerose dispute: infatti gli indicatori per distinguere le due figure citate sono stati individuati dalla dottrina e dalla giurisprudenza e devono perciò essere attentamente considerati dal “collezionista” per non essere attratto nell’area di “esercizio di attività tassabili” o, peggio, “di rilievo ai fini della normativa antiriciclaggio”.

E’ chiara la fondatezza della pretesa tributaria quando l’attività di compravendita ha carattere continuativo e non sporadico/occasionale; riguarda significativi valori complessivi” realizzati attraverso le cessioni oppure è riscontrabile una ridotta distanza temporale tra l’acquisto e la successiva cessione/permuta dei beni.

Così come assume valenza indiziaria di esercizio di fatto di una attività commerciale la inadeguatezza di altre fonti di reddito del “collezionista” che possano giustificare le movimentazioni di conto corrente; la rilevanza economica delle singole cessioni, la loro ripetuta/costante non tracciabilità anche se gli importi sono inferiori ai limiti (euro 2999,99),

da osservare in materia di pagamenti in contanti; la mancanza/insufficienza di documentazione idonea ad individuare la provenienza del bene.

Giova rammentare che, in taluni casi, sono state ritenute idonee ad inficiare la figura del puro “collezionista” azioni significative (ad esempio restauri, ricerche diagnostiche con impiego di sofisticate tecnologie; spese rilevanti per exepertices di famosi storici dell’arte; etc) volte ad incrementare il valore del bene in vista di una successiva cessione ovvero il ricorso a strumenti pubblicitari per la ricercare potenziali clienti.

Dobbiamo sottolineare ancora una volta che le singole ipotesi devono essere vagliate caso per caso, valutandone pure la concomitanza, e che pertanto alle indicazioni fornite non può attribuirsi valenza generale.

Non deve infine essere dimenticata una possibile qualificazione residuale ai fini delle imposte sui redditi secondo la quale i proventi derivanti dalla vendita di opere d’arte, di antiquariato e collezionismo (anche al di fuori di un’attività imprenditoriale), potrebbero essere assoggettati a IRPEF ai sensi dell’art. 67, comma 1, lettera i), TUIR che concerne i “redditi derivanti dallo svolgimento di attività commerciali non esercitate abitualmente”.

Ed è proprio utilizzando una norma di “interpretazione” dell’appena citato riferimento normativo che in sede di bozza della legge di Bilancio 2018 era stata, in sintesi, paventata la possibilità di tassare la differenza tra il corrispettivo ricevuto (al netto di eventuali commissioni pagate a intermediari) e il costo di acquisto (ovvero “di carico”, in caso di successione o donazione) debitamente documentato delle opere cedute (aumentato di taluni costi, ad esempio dei costi di assicurazione, restauro, conservazione e custodia).

In alternativa era stata ipotizzata (con criterio forfettario) la tassazione del 40% del corrispettivo della cessione.

La previsione è stata abbandonata, almeno per ora, considerato che non è nota la ragione politica o tecnica della scelta. Le proteste sollevate dai rappresentanti delle associazioni di categoria potrebbero aver prodotto un semplice “ripensamento pre-elettorale” dell’apparato ministeriale ma non può essere escluso che siano allo studio alternative diverse per dare rilevanza fiscale ai guadagni derivanti dalla cessione di opere d’arte da parte dei privati.

Non è questa la sede per commentare analiticamente il “tentativo” di ampliare la casistica di rilevanza fiscale, peraltro con effetto retroattivo: è però da qualificare come inaccettabile, perché indiscriminata – ad esempio- l’ipotesi di sottoposizione a tassazione anche delle operazioni di semplice smobilizzo patrimoniale di beni acquisiti per donazione o successione, in passato dalla stessa Amministrazione Finanziaria giudicate come aventi natura chiaramente ”non“commerciale.

Una annotazione conclusiva.

Il mercato dell’arte è stato definito da acuti osservatori come uno dei mercati a più alta opacità sistemica e, pertanto, è certamente auspicabile una migliore regolamentazione.

Se da un lato devono essere individuati e sanzionati severamente i “collezionisti di facciata” (magari “ex mercanti”) che trovano fiscalmente più conveniente simulare attività “privatistiche”, dall’altro non devono essere ideate soluzioni che sembrano esclusivamente indirizzate a generare gettito per l’Erario, senza curarsi delle conseguenze sui players del mercato e, di riflesso, sul gettito tributario atteso

In futuro, le norme di eventuale tassazione in capo ai privati dei redditi derivanti dalla cessione di beni sul mercato dell’arte dovranno essere non solo ragionevoli (ad esempio con una aliquota contenuta a non più del 10% del corrispettivo conseguito), semplici e chiare ma anche ponderate, senza sottovalutare la complessità di un settore che nel nostro Paese stenta da troppi anni a sopravvivere.

 

 

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