CASSAZIONE PRIMA PAGINA

Favor rei e riforma delle sanzioni tributarie: la questione di legittimità costituzionale

Tributi  –  IRES, IRAP e IVA – Accertamento – Riciclaggio – Violazioni commesse dal 01.09.2024 –  Sanzioni Tributarie – D.lgs. n. 87/2024 – L. n. 208/2015 – Presupposti – Favor rei – Legittimità costituzionale – Cognizione del giudice tributario – Limiti

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 2951 del 6 febbraio 2025, intervenendo  nuovamente sul tema della retroattività della riforma delle sanzioni tributarie (D.lgs. 14/06/2024, n. 87) promuove oggi la possibilità di valutare la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 5 del decreto, che limita l’applicazione delle sanzioni più favorevoli solo alle violazioni commesse a partire dal primo settembre 2024.

In sostanza, sarà il giudice di merito a valutare la necessità di remissione alla Corte Costituzionale della nuova norma sull’irretroattività delle nuove sanzioni tributarie previste dal decreto di riforma del sistema sanzionatorio. La Suprema Corte demanda l’esame della questione al giudice del rinvio, affermando che “… verificato quale sia la corretta sanzione applicabile, in considerazione del disposto di cui al d.lgs. n. 158/2015, occorrerà anche valutare la questione di legittimità costituzionale sollevata dal ricorrente in memoria, in relazione alle previsioni di cui all’art. 5 del d.lgs. n. 87 del 2024”.

Appare evidente la riflessione effettuata dagli Ermellini sull’importanza della questione esaminata dalla recentissima sentenza, la n. 1274 del 19 gennaio 2025, prodotta  dalla stessa sezione tributaria della Corte, di cui vogliamo riassumere alcuni passaggi, ma che rimandiamo a una più completa lettura del commento presente all’interno della odierna sezione della rivista.

La parte ricorrente sul punto aveva denunciato l’illegittimità costituzionale della norma, sia sotto il profilo dell’eccesso di delega rispetto ai principi e alle direttive stabilite dalla legge 111/2023, sia come violazione degli artt. 3 e 117, primo comma, della Costituzione, nonché degli artt. 6 e 7 CEDU e dell’art. 49 CDFUE. Ciò nonostante gli Ermellini, nella precedente pronuncia, avevano sentenziato che “… La richiesta di applicazione delle sanzioni nella misura più favorevole al contribuente, così come prevista dall’art. 2 del D.Lgs. n. 87 del 2024 non può trovare accoglimento, né le difese della società hanno allegato ragioni sufficienti ad evidenziare la non manifesta infondatezza della denuncia di illegittimità costituzionale della disciplina derogatoria. Premesso che l’applicazione della sanzione più favorevole è preclusa da una espressa previsione normativa, ed in particolar modo all’art. 5 del D.Lgs. n. 87 del 2024, secondo cui la rivisitazione delle sanzioni amministrative in materia fiscale, complessivamente favorevole al contribuente, va applicata a partire dalle violazioni commesse dal 1 settembre 2024, così derogando al generale principio di retroattività della legge più favorevole, la scelta del legislatore non appare in contrasto con i principi costituzionali né con quelli unionali”.

La Cassazione con questa nuova pronuncia, la n. 2951 del 6 febbraio 2025, pur confermando in sostanza che l’art. 5 del D.lgs. 87/2024 fa decorrere le nuove norme più favorevoli al contribuente per le sanzioni amministrative dal 1° settembre 2024, non è contraria ne’ alla Costituzione, ne’ al diritto comunitario, ma è qui che riporta una tesi meritevole di attenta considerazione, precisando che la portata applicativa della nuova disciplina riguarda l’ambito della cognizione del giudice,demandando l’esame della questione proprio al giudice del rinvio, affermando che “… verificato quale sia la corretta sanzione applicabile, in considerazione del disposto di cui al d.lgs. n. 158/2015, occorrerà anche valutare la questione di legittimità costituzionale sollevata dal ricorrente in memoria, in relazione alle previsioni di cui all’art. 5 del d.lgs. n. 87 del 2024”.

In sintesi, i Supremi Giudici hanno innegabilmente reputato l’applicazione della legge 208/2015 e l’attuale riforma delle sanzioni del 2024, complessivamente legittime e non in conflitto fra loro, ma hanno anche  assegnato alle parti un termine per presentare osservazioni sulla questione di legittimità costituzionale. 

Questo passaggio procedurale è stato reputato fondamentale per garantire un contraddittorio completo prima della possibile rimessione alla Corte Costituzionale.

Nello specifico, inoltre, appare chiaro che la revisione del sistema sanzionatorio,  di cui al D.lgs. 158/2015, non aveva previsto una generalizzata riduzione delle sanzioni tributarie, ma aveva dettato una diversa disciplina che risulta ancora, sebbene in parte, pienamente favorevole per il contribuente.

Lo ius superveniens risulta peraltro vigente in relazione a tutti i giudizi ancora in corso (cfr. Cass. sez. V, 30.3.2021, n. 8716) ed è compito innanzitutto del giudice del merito pronunziarsi sulla questione se debba applicarsi al contribuente una disciplina sanzionatoria più favorevole. Appare quindi significativo il fatto che, una volta verificato quale sia la corretta sanzione applicabile, in considerazione del disposto di cui al D.lgs. 158/2015, occorrerà anche valutare la questione di legittimità costituzionale sollevata peraltro anche dal ricorrente in memoria, in relazione alle previsioni di cui all’art. 5 del D.lgs. 87/2024, ma anche e soprattutto sulla cognizione del giudice tributario. Del resto il giudice tributario, secondo la Cassazione, ha competenza esclusiva e generale, non circoscritta ad alcuni aspetti, per tributi e tasse di ogni tipo, e tale competenza è indipendente dalla denominazione del tributo o dal contenuto della domanda presentata dai ricorrenti.

Alla luce di tutte le suesposte considerazioni ricordiamo anche un precedente di rilievo, la sentenza n. 34909 depositata il 30 dicembre 2024, nella quale la S.C. che aveva espresso più di un dubbio sulla inapplicabilità del favor rei in ambito amministrativo – prevista dall’articolo 5 del D.lgs. 87/2024 – che ha ridotto le sanzioni tributarie conseguenti all’illecito commesso; in quell’occasione aveva aggiunto che, verificato quale sia la corretta sanzione applicabile, in considerazione del disposto di cui al D.lgs. 158/2015, occorrerà anche valutare la questione di legittimità costituzionale sollevata dal ricorrente in memoria, in relazione alle previsioni di cui all’art. 5 del D.lgs. 87/2024. Quindi, nel rinviare il procedimento al giudice di appello la Cassazione sottolinea come egli dovrà necessariamente valutare la questione di legittimità costituzionale sull’irretroattività del nuovo regime di cui al citato articolo 5 del decreto di riforma delle sanzioni tributarie.

D’altro canto, già con l’ordinanza 21150/2024 i giudici di legittimità avevano assegnato al Pm e alle parti un termine per formulare osservazioni sulla potenziale incostituzionalità dell’irretroattività delle sanzioni più favorevoli. Si ricorda che l’articolo 5 in commento risulterebbe tuttavia in contrasto con l’articolo 3, comma 3 del D.lgs. 472/1997, che codifica il principio del favor rei anche in ambito di sanzione amministrativa. Altra questione, non secondaria, è la lettura che si dà in ambito eurounitario alle sanzioni amministrative di natura afflittiva, che sono considerate alla stregua di sanzioni penali.

Ricordiamo, infine, che anche le stesse Sezioni Unite, con la pronunzia n. 1542/2019, erano intervenute sui limiti giurisdizionali del giudice tributario affermando: “…Ai fini della delimitazione dell’ambito della giurisdizione tributaria, occorre attribuire esclusivo rilievo alla disciplina dettata dall’art. 2 del D.Lgs 31 dicembre 1992, n. 546, norma espressamente dedicata a definire l’oggetto della giurisdizione tributaria, senza che tale disciplina possa essere in qualche modo condizionata (in senso limitativo) dal dettato del successivo art. 19, il quale, agendo su un piano distinto, elenca gli atti che possono, e debbono, essere oggetto di impugnazione dinanzi ai giudice tributario. L’art. 2 costituisce, infatti, la sedes materiae per individuare i confini della giurisdizione tributaria, delineati essenzialmente attraverso l’indicazione dei tributi oggetto di controversia, con i relativi accessori, confini ampliatisi fino a comprendere le controversie aventi ad oggetto, innanzitutto, … i tributi di ogni genere e specie, comunque denominati” (con esclusione delle controversie riguardanti gli atti della esecuzione forzata tributaria, tra i quali non rientrano le cartelle di pagamento e gli avvisi di mora), e sempre che si tratti di controversie in cui sia configurabile un rapporto di natura effettivamente tributaria, cioè concernente prestazioni patrimoniali e/o imposte di natura tributaria, ai fine di evitare la violazione del divieto costituzionale di istituire giudici speciali. Si tratta, quindi, di una giurisdizione attribuita in via esclusiva e ratione materiae, indipendentemente dal contenuto della domanda e dalla tipologia di atti emessi dall’Amministrazione finanziaria”.

Tanto premesso, e tornando al caso in dibattimento, esso ha inizio quando una società contribuente in liquidazione impugna due avvisi di accertamento, con i quali l’Agenzia delle entrate aveva contestato il mancato pagamento di IRES, IRAP e IVA, a seguito di indebite detrazioni su fatture soggettivamente inesistenti.

Rivoltasi alla giustizia tributaria, la ricorrente non otteneva ragione in quanto in entrambi i giudizi i giudici ne rilevavano l’infondatezza delle tesi difensive. Avverso tale decisione proponeva ricorso per cassazione sulla base di sei motivi, ei quali essenzialmente la società sosteneva che, medio tempore, era intervenuto il D.lgs. 87/2024, dettando una disciplina sanzionatoria ancora più favorevole e riducendo ulteriormente le sanzioni. La norma transitoria contenuta all’art. 5 del citato decreto limita l’applicazione di tali riduzioni alle violazioni commesse a partire dal 1° settembre 2024: di conseguenza, la parte ricorrente formulava istanza per la rimessione della questione di legittimità costituzionale dell’art. 5 del D.lgs. 87/2024 in relazione agli artt. 3, 25 e 27 Cost. e 117 Cost. in rapporto alla giurisprudenza europea che equipara le sanzioni amministrative tributarie a quelle penali secondo i criteri Engel (Corte EDU, Grande Camera, sent. 8 giugno 1976, Engel e altri c. Paesi Bassi).

I Supremi giudici di legittimità accolgono in parte i motivi del ricorso presentato dalla contribuente affermando che: “… Per contro, il terzo motivo, relativo alla non corretta applicazione della disciplina sulla indeducibilità dei costi derivanti da attività illecita, è fondato. Ed invero, nel caso di specie, trova applicazione l’art. 14, comma 4-bis, della L. 27 dicembre 1993, n. 537, così come novellato dall’art. 8, commi 1 e 3, del D.L. 2 marzo 2012, n. 16, conv. Dalla L. n. 44 del 2012, costituente jus superveniens astrattamente più favorevole al contribuente e quindi avente efficacia retroattiva. Al riguardo, la Suprema Corte ha, infatti, affermato che, in tema di imposte sui redditi, ai sensi dell’art. 14, comma 4-bis, della L. 24 dicembre 1993, n. 537 (nella formulazione introdotta con l’art. 8, comma 1, del D.L. 2 marzo 2012, n. 16, conv. dalla L. n. 44 del 2012), che opera, in ragione del precedente comma 3, quale jus superveniens con efficacia retroattiva in bonam partem, sono deducibili i costi delle operazioni soggettivamente inesistenti (inserite, o meno, in una “frode carosello”), per il solo fatto che siano stati sostenuti, anche nell’ipotesi in cui l’acquirente sia consapevole del carattere fraudolento delle operazioni, salvo che si tratti di costi in contrasto con i principi di effettività, inerenza, competenza, certezza, determinatezza o determinabilità oppure di costi relativi a beni o servizi direttamente utilizzati per il compimento di un delitto non colposo (Cass. n. 26461/2014, Rv. 63370801 e succ. conformi). Tale principio, peraltro, trova applicazione anche in tema di Iva, in virtù dell’art. 14, comma 4, della L. n. 537 del 1993, secondo il quale i proventi provenienti da attività illecita sono assoggettabili ad imposizione (Cass. n. 18495/2017, Rv. 64502601). Il predetto art. 14, comma 4-bis stabilisce che nella determinazione dei redditi di cui all’art. 6, comma 1, del tuir, di cui al D.P.R. n. 917 del 1986, non sono ammessi in deduzione i costi e le spese dei beni o delle prestazioni di servizio direttamente utilizzati per il compimento di atti o attività qualificabili come delitto non colposo per il quale il pubblico ministero abbia esercitato l’azione penale o, comunque, qualora il giudice abbia emesso il decreto che dispone il giudizio ai sensi dell’art. 429 c.p.p. ovvero sentenza di non luogo a procedere ai sensi dell’art. 425 dello stesso codice fondata sulla sussistenza della causa di estinzione del reato prevista dall’art. 157 c.p. La disposizione, come rileva la parte ricorrente, è mutata poiché in precedenza l’indeducibilità era riferita, più genericamente, ai costi riconducibili a fatti, atti o attività qualificabili come reato, fatto salvo l’esercizio di diritti costituzionalmente riconosciuti. Viene, quindi, prevista l’indeducibilità di componenti negative che si trovino in connessione diretta con il compimento dell’attività delittuosa per il quale sia stata promossa l’azione penale. Come osservato in motivazione da Cass. n. 7275/2024 (Rv. 67058501), vi è, quindi, correlazione tra esercizio dell’azione penale per fatti costituenti delitto non colposo e quei costi di produzione che risultino direttamente connessi con la consumazione dell’attività delittuosa.

In altre parole, gli specifici costi di produzione che siano imputabili al compimento dell’attività penalmente rilevante non sono deducibili, ciò comportando l’imposizione sull’ammontare dei ricavi lordi, anziché sul reddito netto. L’elemento differenziale di questo trattamento più gravoso risiede nell’aggancio del presupposto impositivo alla commissione di una azione delittuosa perseguita in sede penale, differenziandola dalla mera commissione un illecito civile o amministrativo. La restrizione dell’area di indeducibilità ai soli componenti negativi di reddito (peraltro, non tutti ma solo quelli relativi a beni o prestazioni di servizio direttamente utilizzati per Giurisprudenza il compimento di atti o attività qualificabili come delitto non colposo), per i quali sia possibile istituire un nesso diretto dei costi stessi con la realizzazione dell’atto o dell’attività che costituisce delitto non colposo, istituisce un più stringente rapporto tra l’esercizio dell’azione penale e i costi direttamente utilizzati per l’esecuzione di quella attività delittuosa per la quale sia stato promosso il giudizio penale. La connessione diretta tra costi e attività spiega, ulteriormente, la ragione per la quale l’accertamento dell’indeducibilità presuppone l’emissione del decreto che dispone il giudizio ai sensi dell’art. 424 c.p.p. (ovvero della sentenza di non luogo a procedere per sussistenza della causa di estinzione del reato ex art. 157 c.p.), laddove la precedente formulazione normativa lasciava incertezza sui presupposti della norma e sul dies a quo. L’esercizio dell’azione penale per quei fatti costituisce presupposto per l’accertamento dell’indeducibilità dei costi per i quali sia individuabile il nesso diretto con l’attività delittuosa. In tal senso, infatti, la disposizione costituisce ius superveniens astrattamente più favorevole al contribuente e, come già sopra evidenziato, avente efficacia retroattiva. Considerato, quindi, che l’esercizio dell’azione penale è il presupposto per l’accertamento dell’indeducibilità dei relativi costi, costituendo elemento normativo esterno alla fattispecie tributaria, deve escludersi che il giudice tributario possa accertare incidentalmente l’esistenza del fatto costituente reato. L’oggetto dell’accertamento del giudice tributario è, invero, incentrato sull’individuazione di quali siano i costi che si pongano in connessione diretta con la consumazione della fattispecie delittuosa, la cui esistenza e i cui connotati sono riservati all’iniziativa del giudice ordinario. Al giudice tributario residua, in ogni caso, il controllo in ordine al fatto che la condotta oggetto del giudizio penale sia riferibile a quella oggetto di contestazione nel giudizio tributario ai fini dell’indeducibilità dei relativi costi di produzione. Conferma questa lettura il correlativo riconoscimento del diritto del contribuente al rimborso delle maggiori imposte versate, ove risulti l’accertamento sopravvenuto del venir meno della fattispecie delittuosa in relazione alle maggiori imposte versate in relazione alla non ammissibilità in deduzione prevista dal periodo precedente e dei relativi interessi. Tuttavia, anche in tal caso, il giudice tributario non può accertare incidentalmente e autonomamente se la fattispecie penale esista o meno, ma deve limitarsi ad verificare se la condotta oggetto del giudizio penale sia riferibile a quella oggetto del giudizio tributario. In tal senso si segnala Cass. n. 20579/2020 (Rv. 65906001), secondo cui, in tema di operazioni oggettivamente inesistenti, poiché ai fini della deducibilità dei costi assume rilevanza, ex art. 14, comma 4 bis, L. n. 537 del 1993, la pronuncia penale che esclude la sussistenza dei fatti di reato dai quali sia derivata la non deducibilità dei costi, con conseguente eventuale rimborso delle maggiori imposte versate, il giudice del merito deve accertare se la condotta oggetto del giudizio penale sia riferibile a quella oggetto di contestazione nel giudizio tributario. Nella specie, la sentenza impugnata non si è attenuta ai suddetti principi, in quanto, con riferimento al rilievo della indeducibilità dei costi, non ha affatto affrontato la questione della normativa sopravvenuta di cui al citato art. 14, comma 4-bis, della L. n. 537 del 1993 e non ha verificato la sussistenza, quale presupposto della indeducibilità dei costi, dell’esercizio dell’azione penale da parte del pubblico ministero. 14. L’accoglimento del terzo motivo rende superfluo l’esame del quarto e del quinto. 15. Parimenti fondato risulta il sesto motivo di doglianza, con cui la ricorrente chiede l’applicazione del principio del favor rei in materia di sanzioni, essendo sopravvenuta la Giurisprudenza L. n. 208 del 2015, che ha ridotto le sanzioni tributarie conseguenti alla dichiarazione infedele. La revisione del sistema sanzionatorio invocata dal ricorrente, di cui al D.Lgs. n. 158 del 2015, in effetti non ha previsto una generalizzata riduzione delle sanzioni tributarie, ma ha dettato una diversa disciplina che risulta in parte favorevole per il contribuente.  Lo ius superveniens risulta peraltro vigente in relazione a tutti i giudizi ancora in corso (cfr. Cass. sez. V, 30.3.2021, n. 8716) ed è compito, innanzitutto, del giudice del merito pronunziarsi sul se debba applicarsi al contribuente una disciplina sanzionatoria più favorevole. Inoltre, verificato quale sia la corretta sanzione applicabile, in considerazione del disposto di cui al D.Lgs. n. 158 del 2015, occorrerà anche valutare la questione di legittimità costituzionale sollevata dal ricorrente in memoria, in relazione alle previsioni di cui all’art. 5 del D.Lgs. n. 87 del 2024. 16. Alla luce di tutte le suesposte considerazioni, quindi, non risulta corretta la decisione impugnata, che ha rigettato l’impugnazione del contribuente, non valutando la normativa sanzionatoria sopravvenuta. Pertanto, in accoglimento del terzo e del sesto motivo di ricorso, la sentenza impugnata va cassata, con rinvio al giudice a quo per le ragioni di cui sopra e per valutare la questione di legittimità costituzionale sollevata dal ricorrente, nonché per il regolamento delle spese di lite anche del giudizio di legittimità

Corte di Cassazione – Sentenza 6 febbraio 2025, n. 2951

sul ricorso n. 11580/2016 proposto da:

AUTO Srl, c.f. (Omissis), in persona del legale rappresentante p.t., rappresentata e difesa dall’Avv. (Omissis), elettivamente domiciliato presso il suo studio in Roma

– Ricorrente –

CONTRO

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore p.t., elettivamente domiciliata in Roma, via dei Portoghesi n. 12, presso l’Avvocatura Generale dello Stato, che la rappresenta e difende.

– Resistente –

Avverso la sentenza n. (Omissis) della Corte di giustizia tributaria regionale della Toscana, depositata il (Omissis);

sentite le conclusioni della Procura Generale, nella persona del Sostituto Procuratore generale Fulvio Troncone, che concludeva chiedendo l’accoglimento del ricorso, limitatamente al terzo ed al sesto motivo;

sentite le conclusioni delle parti presenti.

Svolgimento del processo

Con separati ricorsi proposti alla Commissione tributaria provinciale di Lucca, la P. Spa (ora S. AUTO Srl in liquidazione) impugnava due avvisi di accertamento, con cui l’Agenzia delle entrate le aveva contestato il mancato pagamento di Ires, Irap e Iva, a seguito di indebite detrazioni su fatture soggettivamente inesistenti; omessa contabilizzazione di ricavi relativi ad un gruppo di 15 assegni bancari girati in favore dell’amministratore della società contribuente, sig. B.B., e da lui posti all’incasso; deduzione di costi provenienti da attività illecite.

Riuniti i giudizi in primo grado, l’impugnazione veniva accolta limitatamente alla contestazione delle fatture soggettivamente inesistenti. Tale decisione veniva confermata dalla C.t.r., che, dopo aver ritenuto tempestivo l’appello proposto dalla società S. AUTO Srl in liquidazione, ne rilevava l’infondatezza, affermando che non era stato superato il limite di durata della verifica previsto dall’art. 12, comma 5, della L. n. 212 del 2000; che comunque l’eventuale superamento non determinava la nullità della verifica e dell’accertamento;

che dalla ricostruzione dei movimenti contabili e della documentazione bancaria non era stata individuata una corrispondenza tra assegni ed operazioni;

che le analitiche contestazioni relative ai costi non deducibili non erano state disattese dalle affermazioni non analitiche della parte appellante.

Avverso tale decisione proponeva ricorso per cassazione il contribuente, sulla base di sei motivi.

L’Agenzia delle entrate resisteva con controricorso, cui replicava la società ricorrente con memoria. Depositava memoria il Pubblico Ministero, nella persona del Sostituto Procuratore generale Fulvio Troncone, che concludeva chiedendo l’accoglimento del ricorso, limitatamente al terzo ed al sesto motivo, con rigetto del primo e secondo ed assorbimento del quarto e del quinto.

Motivi della decisione

1. Con il primo motivo di doglianza, la S. AUTO Srl in liquidazione deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 36 del D.Lgs. n. 546 del 1992, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c., non avendo la C.t.r. chiarito le ragioni del rigetto degli specifici motivi di appello formulati dalla contribuente, non comprendendo neanche il contenuto di talune doglianze e limitandosi a riprodurre apodittiche affermazioni della controparte.

2. Con il secondo motivo di doglianza, la contribuente deduce la violazione o falsa applicazione degli artt. 2697 e 2729 c.c. e dell’art. 115 c.p.c., in relazione all’art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c., avendo la C.t.r. posto a fondamento della decisione le dichiarazioni del sig. B.B., all’epoca amministratore della società, contenute nel pvc, sebbene queste non potevano essere riferite ai 15 assegni in contesa (incontrovertibilmente privi del timbro della P. e di ogni altro riferimento all’attività della stessa) e non integravano i requisiti di gravità, precisione e concordanza, prescritti ai fini dell’integrazione della prova presuntiva.

3. Con il terzo motivo di doglianza, la contribuente deduce la violazione o falsa applicazione dell’art. 14, comma 4-bis, della L. n. 537 del 1993 e dell’art. 8 del D.L. n. 16 del 2012, nonché dell’art. 7 della L. 212 del 2000 e dell’art. 42 del D.P.R. n. 600 del 1973, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., non avendo la C.t.r. affrontato, implicitamente rigettando, la questione della illegittimità del recupero relativo alla indeducibilità dei costi cd. da reato, alla luce dello ius superveniens di cui al D.L. n. 16 del 2012, secondo il quale il giudice tributario è tenuto dapprima ad accertare l’esercizio dell’azione penale da parte del P.M. (non potendo qualificare direttamente il fatto come delitto non colposo) e, solo in caso di esito positivo, verificare altresì il parametro del diretto utilizzo dei costi per il compimento del delitto.

4. Con il quarto motivo di doglianza, la contribuente deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c., in relazione all’art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c., ove il mancato esame della questione dedotta con il motivo precedente non venisse ricondotto ad un rigetto implicito, ma ad un’omissione di pronuncia.

5. Con il quinto motivo di doglianza, la contribuente deduce la violazione o falsa applicazione degli artt. 2697 e 2729 c.c. e dell’art. 115 c.p.c., in relazione all’art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c., poiché, con riferimento alla indeducibilità di costi legati a quattro operazioni di riacquisto, asseritamente connesse ad attività di riciclaggio di somme di provenienza illecita, la C.t.r. aveva fondato la sua decisione su assunti dell’Agenzia delle entrate, che risultavano smentiti dalla documentazione in atti (da cui risultava che i riacquisti erano intervenuti ad un prezzo superiore e non inferiore alle originarie vendite) e che non potevano integrare neanche gli estremi della prova presuntiva.

6. Con il sesto motivo di doglianza, la contribuente invoca l’applicazione del principio del favor rei per le sanzioni irrogate ex art. 3 del D.Lgs. n. 472 del 1997, in considerazione dello ius superveniens costituito dalle disposizioni di cui al D.Lgs. n. 158 del 2015, poiché, dopo la pubblicazione della sentenza impugnata, il legislatore è intervenuto a riordinare il sistema delle sanzioni tributarie, amministrative e penali, rideterminando i limiti sanzionatori minimi e massimi previsti anche per gli illeciti contestati nella presente sede.

7. Con il controricorso, l’Agenzia delle entrate concludeva per il rigetto dei primi cinque motivi di doglianza, rimettendosi alla Corte per la valutazione del sesto.

8. Il Pubblico Ministero conclude per il rigetto del primo e del secondo motivo, poiché, con riferimento al profilo dell’omessa contabilizzazione dei ricavi, dalla sintetica motivazione era possibile ricavare la ratio decidendi, fondata sull’impossibilità di individuare una corrispondenza tra assegni e operazioni e sulla persuasività delle dichiarazioni rese dal sig. B.B.. Ritiene, invece fondati il terzo ed il sesto motivo di doglianza, con assorbimento del quarto e del quinto.

9. Con la memoria, la parte ricorrente deduce che, medio tempore, è intervenuto il D.Lgs. n. 87 del 2024, che ha dettato una disciplina sanzionatoria ancora più favorevole, riducendo ulteriormente le sanzioni.

La norma transitoria contenuta all’art. 5 del citato D.Lgs. limita l’applicazione di tali riduzioni alle violazioni commesse a partire dal 1 settembre 2024. Di conseguenza, la parte ricorrente formula istanza per la rimessione della questione di legittimità costituzionale dell’art. 5 del D.Lgs. n. 87 del 2024, in relazione agli artt. 3, 25 e 27 Cost. e 117 Cost. in rapporto alla giurisprudenza europea che equipara le sanzioni amministrative tributarie a quelle penali secondo i criteri Engel (Corte EDU, Grande Camera, sent. 8 giugno 1976, Engel e altri c. Paesi Bassi).

10. Sembra opportuno ripercorrere, in estrema sintesi, le vicende che hanno originato il presente giudizio.

All’esito di una verifica condotta dalla Guardia di finanza, venivano formulati a carico della P. Spa (ora S. AUTO Srl in liquidazione) molteplici rilievi, tra cui, in particolare, l’omessa contabilizzazione e dichiarazione di ricavi imponibili e l’indebita deduzione di costi provenienti da attività illecita.

Il primo rilievo scaturiva dal rinvenimento di 15 assegni bancari, emessi da C.C. e D.D. in favore di A.A., poi girati e incassati da B.B., all’epoca amministratore della società.

I finanziari ritenevano che tali assegni fossero riferibili all’attività d’impresa della società, anche alla luce delle dichiarazioni rese dallo stesso B.B.

Quanto al secondo rilievo, questo scaturiva dall’esame di alcune operazioni con cui la P. Spa aveva prima venduto e poi riacquistato dai medesimi soggetti delle autovetture ad un prezzo generalmente inferiore a quello di cessione.

La Guardia di finanza riteneva, dunque, che la differenza tra le due transazioni commerciali costituisse un compenso per la società contribuente, per l’attività di riciclaggio di somme di provenienza illecita.

11. Ciò premesso, il primo motivo di doglianza, relativo alla mancata motivazione del rigetto dei motivi di appello, è infondato. Giova ricordare che, a seguito della riforma dell’art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c., l’unica contraddittorietà della motivazione che può rendere nulla una sentenza è quella insanabile e l’unica insufficienza scrittoria che può condurre allo stesso esito è quella insuperabile (cfr. Cass., Sez. Un, 28 ottobre 2022, n. 32000).

A tal riguardo, la Suprema Corte ha chiarito che è oggi denunciabile in sede di legittimità solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali (cfr. tra le più recenti, anche nelle rispettive motivazioni, Cass. 27 dicembre 2023, n. 35947; Cass. 11 ottobre 2023, n. 28390; Cass. 18 settembre 2023, n. 26704; Cass. 13 gennaio 2023, n. 956 del 2023; Cass.17 novembre 2022, n. 33961).

Questa anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di sufficienza della motivazione o di sua contraddittorietà (cfr. Cass., Sez. Un., 7 aprile 2014, n. 8053; nello stesso senso anche le più recenti e già menzionate Cass. nn. 28930 del 2023 e 33961 del 2022).

Orbene, la sentenza impugnata, seppur sinteticamente, contiene una espressa motivazione sia con riferimento al rilievo della omessa contabilizzazione dei ricavi, sia con riferimento al rilievo relativo ai costi non deducibili.

Quanto al primo, i giudici di merito hanno evidenziato che dai movimenti risultanti dalla contabilità e dalla documentazione bancaria non è stato possibile individuare una corrispondenza tra gli assegni in questione e le operazioni. Tali operazioni, anche sulla scorta delle dichiarazioni rese dall’amministratore B.B., sono state ritenute riconducibili all’attività d’impresa, per la quale non era stato emesso alcun documento fiscale.

Quanto ai costi non deducibili, la C.t.r. ha ritenuto più convincenti gli elementi forniti dall’amministrazione rispetto alle affermazioni della contribuente, ritenute non analitiche ed inidonee a dare dimostrazione contraria. Una siffatta motivazione consente di individuare l’iter argomentativo seguito dai giudici di merito e, per tale ragione, essa si sottrae alla censura articolata, collocandosi al livello del minimo costituzionale, richiesto dalla giurisprudenza sopra richiamata (cfr., da Giurisprudenza ultimo, Cass. 16 maggio 2024, n. 13621; Cass. 11 aprile 2024, n. 9807; Cass. 7 marzo 2024, n. 6127).

12. Parimenti infondato è il secondo motivo di doglianza, con cui il ricorrente lamenta la violazione degli artt. 2697 c.c. e 115 c.p.c. ed invero, giova ricordare che, in tema di ricorso per cassazione, la violazione dell’art. 2697 c.c. si configura soltanto nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella su cui esso avrebbe dovuto gravare secondo le regole di scomposizione delle fattispecie basate sulla differenza tra fatti costitutivi ed eccezioni mentre, per dedurre la violazione dell’art. 115 c.p.c., occorre denunziare che il giudice, contraddicendo espressamente o implicitamente la regola posta da tale disposizione, abbia posto a fondamento della decisione prove non introdotte dalle parti, ma disposte di sua iniziativa fuori dei poteri officiosi riconosciutigli, non anche che il medesimo, nel valutare le prove proposte dalle parti, abbia attribuito maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre, essendo tale attività consentita dall’art. 116 c.p.c. (Cass. n. 26769/2018, Rv. 65089201).

Inoltre, la violazione del precetto di cui all’art. 2697 c.c., censurabile per cassazione ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., è configurabile soltanto nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne era onerata secondo le regole di scomposizione delle fattispecie basate sulla differenza tra fatti costitutivi ed eccezioni e non invece laddove oggetto di censura sia la valutazione che il giudice abbia svolto delle prove proposte dalle parti (sindacabile, quest’ultima, in sede di legittimità, entro i ristretti limiti del “nuovo” art. 360 n. 5 c.p.c.) (Cass. n. 13395/2018, Rv. 64903801).

Nel caso in esame, la società ricorrente, nel lamentare la violazione del principio dell’onere della prova, contesta ai giudici di merito di aver fondato la loro decisione sulla base di due dichiarazioni di terzi, asseritamente contrastanti con la documentazione in atti.

Con tale doglianza, però, la ricorrente chiede sostanzialmente una rivalutazione del fatto, criticando il convincimento che il giudice di merito si è formato in esito all’esame del materiale probatorio ed evocando altri fatti non risultanti dalla motivazione e non presi in considerazione.

La valutazione delle prove raccolte, tuttavia, compresa la ricorrenza dei requisiti di precisione, gravità e concordanza richiesti dall’art. 2729 c.c. (Cass. n. 1234/2019, Rv. 65267201; Cass. n. 1216/2006, Rv. 58799801) e l’idoneità degli elementi presuntivi dotati di tali caratteri a dimostrare, secondo il criterio dell’id quod plerumque accidit, i fatti ignoti da provare (Cass. n. 12002/2017, Rv. 64430001) costituisce un’attività riservata, in via esclusiva, all’apprezzamento discrezionale del giudice di merito. Ed infatti, le conclusioni in ordine alla ricostruzione della vicenda fattuale non sono sindacabili in cassazione se non per il vizio consistito, come stabilito dall’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., nell’avere del tutto omesso, in sede di accertamento della fattispecie concreta, l’esame di uno o più fatti storici, principali o secondari, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbiano costituito oggetto di discussione tra le parti e abbiano carattere decisivo, vale a dire che, se esaminati, avrebbero determinato un esito diverso della controversia.

Del resto, come costantemente affermato dalla Suprema Corte, è inammissibile il ricorso per cassazione che, sotto l’apparente deduzione del vizio di violazione o falsa applicazione di legge, di mancanza assoluta di motivazione e di omesso esame circa un Giurisprudenza fatto decisivo per il giudizio miri, in realtà, ad una rivalutazione dei fatti storici operata dal giudice di merito (Cass. n. 34476/2019, Rv. 656492-03).

13. Per contro, il terzo motivo, relativo alla non corretta applicazione della disciplina sulla indeducibilità dei costi derivanti da attività illecita, è fondato.

Ed invero, nel caso di specie, trova applicazione l’art. 14, comma 4-bis, della L. 27 dicembre 1993, n. 537, così come novellato dall’art. 8, commi 1 e 3, del D.L. 2 marzo 2012, n. 16, conv. Dalla L. n. 44 del 2012, costituente jus superveniens astrattamente più favorevole al contribuente e quindi avente efficacia retroattiva. Al riguardo, la Suprema Corte ha, infatti, affermato che, in tema di imposte sui redditi, ai sensi dell’art. 14, comma 4-bis, della L. 24 dicembre 1993, n. 537 (nella formulazione introdotta con l’art. 8, comma 1, del D.L. 2 marzo 2012, n. 16, conv. dalla L. n. 44 del 2012), che opera, in ragione del precedente comma 3, quale jus superveniens con efficacia retroattiva in bonam partem, sono deducibili i costi delle operazioni soggettivamente inesistenti (inserite, o meno, in una “frode carosello”), per il solo fatto che siano stati sostenuti, anche nell’ipotesi in cui l’acquirente sia consapevole del carattere fraudolento delle operazioni, salvo che si tratti di costi in contrasto con i principi di effettività, inerenza, competenza, certezza, determinatezza o determinabilità oppure di costi relativi a beni o servizi direttamente utilizzati per il compimento di un delitto non colposo (Cass. n. 26461/2014, Rv. 63370801 e succ. conformi).

Tale principio, peraltro, trova applicazione anche in tema di Iva, in virtù dell’art. 14, comma 4, della L. n. 537 del 1993, secondo il quale i proventi provenienti da attività illecita sono assoggettabili ad imposizione (Cass. n. 18495/2017, Rv. 64502601).

Il predetto art. 14, comma 4-bis stabilisce che nella determinazione dei redditi di cui all’art. 6, comma 1, del tuir, di cui al D.P.R. n. 917 del 1986, non sono ammessi in deduzione i costi e le spese dei beni o delle prestazioni di servizio direttamente utilizzati per il compimento di atti o attività qualificabili come delitto non colposo per il quale il pubblico ministero abbia esercitato l’azione penale o, comunque, qualora il giudice abbia emesso il decreto che dispone il giudizio ai sensi dell’art. 429 c.p.p. ovvero sentenza di non luogo a procedere ai sensi dell’art. 425 dello stesso codice fondata sulla sussistenza della causa di estinzione del reato prevista dall’art. 157 c.p.

La disposizione, come rileva la parte ricorrente, è mutata poiché in precedenza l’indeducibilità era riferita, più genericamente, ai costi riconducibili a fatti, atti o attività qualificabili come reato, fatto salvo l’esercizio di diritti costituzionalmente riconosciuti.

Viene, quindi, prevista l’indeducibilità di componenti negative che si trovino in connessione diretta con il compimento dell’attività delittuosa per il quale sia stata promossa l’azione penale.

Come osservato in motivazione da Cass. n. 7275/2024 (Rv. 67058501), vi è, quindi, correlazione tra esercizio dell’azione penale per fatti costituenti delitto non colposo e quei costi di produzione che risultino direttamente connessi con la consumazione dell’attività delittuosa.

In altre parole, gli specifici costi di produzione che siano imputabili al compimento dell’attività penalmente rilevante non sono deducibili, ciò comportando l’imposizione sull’ammontare dei ricavi lordi, anziché sul reddito netto.

L’elemento differenziale di questo trattamento più gravoso risiede nell’aggancio del presupposto impositivo alla commissione di una azione delittuosa perseguita in sede penale, differenziandola dalla mera commissione un illecito civile o amministrativo. La restrizione dell’area di indeducibilità ai soli componenti negativi di reddito (peraltro, non tutti ma solo quelli relativi a beni o prestazioni di servizio direttamente utilizzati per Giurisprudenza il compimento di atti o attività qualificabili come delitto non colposo), per i quali sia possibile istituire un nesso diretto dei costi stessi con la realizzazione dell’atto o dell’attività che costituisce delitto non colposo, istituisce un più stringente rapporto tra l’esercizio dell’azione penale e i costi direttamente utilizzati per l’esecuzione di quella attività delittuosa per la quale sia stato promosso il giudizio penale. La connessione diretta tra costi e attività spiega, ulteriormente, la ragione per la quale l’accertamento dell’indeducibilità presuppone l’emissione del decreto che dispone il giudizio ai sensi dell’art. 424 c.p.p. (ovvero della sentenza di non luogo a procedere per sussistenza della causa di estinzione del reato ex art. 157 c.p.), laddove la precedente formulazione normativa lasciava incertezza sui presupposti della norma e sul dies a quo.

L’esercizio dell’azione penale per quei fatti costituisce presupposto per l’accertamento dell’indeducibilità dei costi per i quali sia individuabile il nesso diretto con l’attività delittuosa. In tal senso, infatti, la disposizione costituisce ius superveniens astrattamente più favorevole al contribuente e, come già sopra evidenziato, avente efficacia retroattiva.

Considerato, quindi, che l’esercizio dell’azione penale è il presupposto per l’accertamento dell’indeducibilità dei relativi costi, costituendo elemento normativo esterno alla fattispecie tributaria, deve escludersi che il giudice tributario possa accertare incidentalmente l’esistenza del fatto costituente reato.

L’oggetto dell’accertamento del giudice tributario è, invero, incentrato sull’individuazione di quali siano i costi che si pongano in connessione diretta con la consumazione della fattispecie delittuosa, la cui esistenza e i cui connotati sono riservati all’iniziativa del giudice ordinario.

Al giudice tributario residua, in ogni caso, il controllo in ordine al fatto che la condotta oggetto del giudizio penale sia riferibile a quella oggetto di contestazione nel giudizio tributario ai fini dell’indeducibilità dei relativi costi di produzione.

Conferma questa lettura il correlativo riconoscimento del diritto del contribuente al rimborso delle maggiori imposte versate, ove risulti l’accertamento sopravvenuto del venir meno della fattispecie delittuosa in relazione alle maggiori imposte versate in relazione alla non ammissibilità in deduzione prevista dal periodo precedente e dei relativi interessi.

Tuttavia, anche in tal caso, il giudice tributario non può accertare incidentalmente e autonomamente se la fattispecie penale esista o meno, ma deve limitarsi ad verificare se la condotta oggetto del giudizio penale sia riferibile a quella oggetto del giudizio tributario.

In tal senso si segnala Cass. n. 20579/2020 (Rv. 65906001), secondo cui, in tema di operazioni oggettivamente inesistenti, poiché ai fini della deducibilità dei costi assume rilevanza, ex art. 14, comma 4 bis, L. n. 537 del 1993, la pronuncia penale che esclude la sussistenza dei fatti di reato dai quali sia derivata la non deducibilità dei costi, con conseguente eventuale rimborso delle maggiori imposte versate, il giudice del merito deve accertare se la condotta oggetto del giudizio penale sia riferibile a quella oggetto di contestazione nel giudizio tributario.

Nella specie, la sentenza impugnata non si è attenuta ai suddetti principi, in quanto, con riferimento al rilievo della indeducibilità dei costi, non ha affatto affrontato la questione della normativa sopravvenuta di cui al citato art. 14, comma 4-bis, della L. n. 537 del 1993 e non ha verificato la sussistenza, quale presupposto della indeducibilità dei costi, dell’esercizio dell’azione penale da parte del pubblico ministero.

14. L’accoglimento del terzo motivo rende superfluo l’esame del quarto e del quinto.

15. Parimenti fondato risulta il sesto motivo di doglianza, con cui la ricorrente chiede l’applicazione del principio del favor rei in materia di sanzioni, essendo sopravvenuta la Giurisprudenza L. n. 208 del 2015, che ha ridotto le sanzioni tributarie conseguenti alla dichiarazione infedele.

La revisione del sistema sanzionatorio invocata dal ricorrente, di cui al D.Lgs. n. 158 del 2015, in effetti non ha previsto una generalizzata riduzione delle sanzioni tributarie, ma ha dettato una diversa disciplina che risulta in parte favorevole per il contribuente.

Lo ius superveniens risulta peraltro vigente in relazione a tutti i giudizi ancora in corso (cfr. Cass. sez. V, 30.3.2021, n. 8716) ed è compito, innanzitutto, del giudice del merito pronunziarsi sul se debba applicarsi al contribuente una disciplina sanzionatoria più favorevole. Inoltre, verificato quale sia la corretta sanzione applicabile, in considerazione del disposto di cui al D.Lgs. n. 158 del 2015, occorrerà anche valutare la questione di legittimità costituzionale sollevata dal ricorrente in memoria, in relazione alle previsioni di cui all’art. 5 del D.Lgs. n. 87 del 2024.

16. Alla luce di tutte le suesposte considerazioni, quindi, non risulta corretta la decisione impugnata, che ha rigettato l’impugnazione del contribuente, non valutando la normativa sanzionatoria sopravvenuta.

Pertanto, in accoglimento del terzo e del sesto motivo di ricorso, la sentenza impugnata va cassata, con rinvio al giudice a quo per le ragioni di cui sopra e per valutare la questione di legittimità costituzionale sollevata dal ricorrente, nonché per il regolamento delle spese di lite anche del giudizio di legittimità.

P.Q.M. La Corte, in accoglimento del terzo e del sesto motivo di ricorso, rigettati i restanti motivi, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte di giustizia tributaria della Toscana, in diversa composizione, per le ragioni di cui in parte motiva e per valutare questione di legittimità costituzionale sollevata dal ricorrente, nonché per il regolamento delle spese di lite anche del giudizio di legittimità.

Desidero ricevere in abbonamento gratuito il vostro periodico FiscotoDay