CASSAZIONE

Fatture inesistenti: i costi sono deducibili anche se è nota la frode dell’operazione

Tributi- IVA –Imposte dirette – Reati Fiscali – Fatture false –  Frode carosello – Avviso di accertamento – Costi deducibili – Recupero fiscale –Società cartiera

Con l’ordinanza n. 25474 del 29 agosto 2022 la Corte di Cassazione, interessandosi della detraibilità IVA delle fatture soggettivamente false e della prova indiretta della consapevolezza del contribuente di essere parte di una frode, ha offerto una interpretazione interessante, anche se

apparentemente non in linea con l’attuale indirizzo della Corte di Giustizia europea, affermando che nel caso di operazioni soggettivamente inesistenti, riguardo ai beni acquistati che non sono stati utilizzati direttamente “al fine di commettere il reato”, ma per essere commercializzati, non è da ritenersi sufficiente, per escluderne la deducibilità, il coinvolgimento anche consapevole dell’acquirente in operazioni fatturate da soggetto diverso dall’effettivo venditore.

In altre parole, gli Ermellini hanno ritenuto che in presenza di fatture soggettivamente inesistenti il costo, ai fini delle imposte sui redditi, è deducibile anche se l’interessato è consapevole del carattere fraudolento delle operazioni: il contrario, quindi, di quanto previsto per l’IVA, dove la detrazione è possibile solo quando il contribuente può provare di non essere a conoscenza e di non aver preso parte alla frode.

Ma, nella specie, si è dato atto della condizione contraria con conseguente non detraibilità IVA.

Discorso a parte va fatto per la deducibilità dei costi: va dato seguito all’indirizzo della Corte di Cassazione secondo il quale, in tema di imposte sui redditi (L. n. 537/1993, modificata dal Dl n. 16/2012), è possibile dedurre i costi relativi a operazioni soggettivamente inesistenti qualora non siano utilizzati direttamente per commettere il reato, pur in presenza della consapevolezza del contribuente di partecipare ad una frode. Pertanto, se i beni sono stati usati per essere commercializzati, “non è sufficiente il coinvolgimento, anche consapevole, dell’acquirente in operazioni fatturate da soggetto diverso dall’effettivo venditore, per escluderne la deducibilità”.

I Supremi giudici, con la sentenza n. 872/2019 avevano anche ricordato che l’Agenzia delle entrate ha il potere di accertare la sussistenza dell’eventuale simulazione relativa (inerente al prezzo di vendita di un bene) in grado di pregiudicare il diritto dell’Amministrazione finanziaria alla percezione dell’esatto tributo, senza la necessità di un preventivo giudizio di simulazione, spettando poi al giudice tributario, in caso di contestazione, il potere di controllare incidenter tantum, attraverso l’interpretazione del negozio ritenuto simulato, l’esattezza di tale accertamento al fine di verificare la legittimità della pretesa tributaria.

L’istituto della simulazione riveste un ruolo determinante nel dibattito dottrinale e giurisprudenziale, che ha individuato l’elemento centrale dell’istituto nella dissociazione consapevole tra volontà e dichiarazione.

Occorre precisare che gli istituti dell’abuso del diritto e della simulazione contrattuale sarebbero profondamente diversi e concettualmente separati tra di loro, nonostante alcune pronunce della Suprema Corte vadano nella direzione di confondere l’elusione con la simulazione e con l’interposizione fittizia di persona, configurando l’articolo 37, comma 3, del DPR 600/1973 – in materia di “Disposizioni comuni in materia di accertamento delle imposte sui redditi” – nel novero delle norme antielusive. Se la simulazione fosse contraddistinta da una divergenza tra volontà effettiva e volontà manifestata, e di conseguenza tra fattispecie dichiarata e realizzata, la stessa per sua natura rientrerebbe, a parere di alcuni, nell’ambito dell’evasione fiscale. Se il contribuente adattasse il proprio comportamento all’apparenza risultante dal contratto, e non a quanto effettivamente avvenuto, violerebbe le norme tributarie generando quindi una fattispecie di evasione e non di elusione fiscale. Al contrario, nel caso di elusione, non ci si troverebbe dinanzi a un caso di simulazione del contratto, in quanto “la strumentazione negoziale è voluta giacché alla stessa si riconnettono ben precise conseguenze sul piano tributario”.

I Supremi Giudici, in varie sentenze, hanno in qualche modo confermato un carattere di perdurante incertezza che connota questa materia e alcuni osservatori hanno ritenuto che la Corte avrebbe accomunato due fenomeni tra loro ontologicamente diversi, quello della simulazione con l’evasione fiscale e quello dell’elusione con l’abuso del diritto, comportando una sovrapposizione tra il citato articolo 37, comma 3, che contrasterebbe il fenomeno dell’interposizione fittizia nel possesso dei redditi, e l’articolo 10-bis della legge 212/2000 in materia di”Disposizioni in materia di statuto dei diritti del contribuente”, che, invece, sarebbe diretto a contrastare l’interposizione reale il cui fine sarebbe quello di ottenere un indebito risparmio d’imposta. A seguito di un’accertata simulazione soggettiva, che configuri un’ipotesi di interposizione fittizia, è rilevabile l’evasione fiscale, in quanto la simulazione determinerebbe un vero e proprio occultamento di imponibile, nella misura in cui viene imputato a un soggetto diverso da quello a cui in realtà dovrebbe essere ascritto. L’introduzione dell’articolo 10-bis, all’interno dello Statuto dei diritti del contribuente, ha permesso la predisposizione di uno strumento che consente di “contestare efficacemente, tra l’altro, l’interposizione reale senza necessariamente ricorrere all’art. 37, comma 2, DPR n. 600/1973, che chiaramente concerne un fenomeno (l’interposizione fittizia nel possesso del reddito) del tutto diverso dall’elusione fiscale”. 

Dopo i numerosi arresti giurisprudenziali a opera del giudice di legittimità, la materia dovrebbe essere immune da eventuali commistioni tra i diversi istituti e, a tal fine, la Cassazione ha elaborato un’interpretazione efficace (Ord. n.18767/2020) per prospettare l’illegittimità dell’atto di contestazione che determini una sostanziale commistione, e quindi confusione, tra la disciplina applicativa dei diversi istituti coinvolti.

Nell’ipotesi della simulazione relativa, dove cioè uno dei soggetti indicati nel documento fiscale (l’emittente) sia diverso da quello reale, per la Cassazione occorre distinguere tra IVA e imposte dirette, perché le conseguenze sono differenti e quindi, nella specifica materia, c’è una presunzione legale relativa di consapevolezza del contribuente di essere parte di una frode.

Diverso è il caso di una simulazione soggettiva relativa, dove, come nel caso affrontato dalla Suprema Corte, il destinatario della fattura ha realmente acquistato quei beni o quei servizi, ma lo avrebbe fatto da un soggetto diverso da quello che emesso la fattura. In questi casi c’è il precedente, la pronunzia n. 5576 /2021, che postula che l’onere della prova sia assolto dall’Amministrazione finanziaria che, anche attraverso l’uso di presunzioni semplici, deve dimostrare che il contribuente fosse consapevole della frode (in realtà dovrebbe dimostrare che sia parte di un contratto simulato e parte di un altro contratto dissimulato). Nella pronuncia in commento la Cassazione, a detta di autorevoli esponenti della dottrina, sembra però invertire l’onere della prova sul contribuente con riguardo alla circostanza della inconsapevolezza della partecipazione alla frode.

La questione resta comunque poco chiara, e non tanto su chi deve provare cosa, quanto sull’oggetto della prova, che non è l’esistenza di un accordo simulato tra le parti contrattuali, quanto piuttosto se il contribuente possa o meno essere consapevole di far parte di un più ampio meccanismo fraudolento, come nel caso delle frodi carosello.

Su questo punto l’orientamento della Cassazione è pertanto discordante. Da un lato, l’orientamento più rigido che ritiene provata la consapevolezza sulla base di indici di “inesistenza soggettiva” che il contribuente avrebbe dovuto verificare (Cass. 6 aprile 2020, n. 7694), dall’altro l’orientamento più ragionevole che richiede una prova diretta della consapevolezza (Cass. 6 aprile 2020, n. 7693), non ritenendo sufficienti indici oggettivi – ad esempio, il fatto che il venditore fosse una cartiera – che trova conforto anche nella giurisprudenza unionale (C. Giust. Ue 22 ottobre 2015, C-277/14, PPUH Stehcemp), per la quale va riconosciuto il diritto alla detrazione in capo al soggetto cessionario sebbene la società che aveva emesso le fatture risultasse un soggetto inesistente in quanto non era registrata ai fini dell’IVA, non presentava dichiarazioni fiscali, non pagava imposte, non disponeva di autorizzazione per la vendita dei beni fatturati e aveva stabilito la propria sede legale in un immobile fatiscente che, di fatto, rendeva impossibile lo svolgimento di qualsiasi attività economica.

Altra questione è, invece, la deducibilità del costo rappresentato da una fattura soggettivamente inesistente ai fini delle imposte dirette: per la Cassazione il costo è deducibile nella misura in cui è effettivamente sostenuto riguardando un acquisto reale. Ovviamente è necessario che abbia tutti i requisiti (certezza, inerenza, ecc.) previsti dal DPR 917/1986, il Testo Unico delle imposte sui redditi; inoltre, deve trattarsi di un costo per l’acquisto non di beni utilizzati direttamente al fine di commettere il reato, ma di beni destinati alla commercializzazione. E la deducibilità, a queste condizioni, è ammessa anche se è provata la consapevolezza del contribuente della partecipazione alla frode.

Tanto premesso e tornando al caso de quo, una società è coinvolta in una frode carosello caratterizzata da operazioni soggettivamente inesistenti, fatturate da società cartiere e l’Agenzia delle entrate, rettificato il reddito e il volume d’affari della società contribuente, recupera i maggiori importi dovuti a titolo di IRES, IRAP e IVA. Dalle verifiche emergeva una frode carosello, che con il coinvolgimento di diverse società otteneva illecite detrazioni dell’IVA mediante l’emissione di fatture per operazioni soggettivamente inesistenti. La CTP di Milano rigettava il ricorso della contribuente, annullando l’atto impositivo: la CTR confermava la rettifica per l’IVA e per le imposte sui redditi, accogliendo l’appello erariale. Da qui il ricorso per Cassazione della società contribuente, affidato a sette motivi.  Resisteva l’Agenzia con controricorso. I supremi Giudici accolgono il ricorso della parte contribuente ritenendo che: “… Con il sesto motivo di ricorso si deduce, avuto riguardo all’art.360, comma 1, n. 3 C.P.C., l’illegittimità della sentenza impugnata per violazione e falsa applicazione dell’art. 109 DPR n. 917 del 1986, dell’art. 14, comma 4-bis, L. n. 537 del 1993 e dell’art. 19 DPR n. 633 del 1972, “nella parte in cui non ha concesso la deducibilità dei relativi costi ai fini delle imposte dirette e la detraibilità dell’Iva ai fini delle imposte indirette”.  Il motivo è fondato e va accolto nei termini che seguono. L’Iva appare indetraibile. In tema di IVA relativa ad operazioni soggettivamente inesistenti, contribuente ha il diritto di detrarre l’imposta solo provando, ai sensi dell’art. 2697 c.c., di non aver saputo o di non poter sapere di aver preso parte ad un’operazione fraudolenta. Nella specie, la CTR ha accertato in fatto, di contro, proprio la consapevolezza in capo al contribuente della frode fiscale. L’accertamento compiuto rientra nel perimetro del sindacato del giudice di merito, il quale ha liberamente formato il proprio convincimento, dandone conto in motivazione attraverso argomentazioni idonee ad illustrare la ratio decidendi. Tanto è sufficiente ad escludere, ai sensi dell’art. 21, u.c., d.P.R. n. 633 del 1972 la detraibilità dell’Iva da parte del contribuente consapevole del meccanismo frodatorio. La censura, per converso, coglie nel segno con riferimento al profilo della deducibilità dei costi. Invero, sebbene – come puntualizzato dalla stessa CTR in sentenza – la contribuente evidenziasse in appello la deducibilità, ai fini delle imposte dirette, dei costi correlati alle fatture per le operazioni soggettivamente inesistenti, il giudice del gravame di merito ha ab implicito escluso detta prerogativa, trascurando, tuttavia, di soffermarsi sui profili fattuali e giuridici a sostegno del diniego interposto. Nel tralasciare di operare una distinzione tra gli effetti della condotta del contribuente in funzione della detraibilità dell’Iva, da un lato, e delle deducibilità dei costi sostenuti (e fatturati), dall’altro, il collegio regionale si è posto in contrasto con il condivisibile indirizzo di questa Corte a tenore del quale “In tema di imposte sui redditi,a norma dell’art. 14, comma 4 bis, della l. n. 537 del 1993, nella formulazione introdotta con l’art. 8, comma 1, del d.l. n. 16 del 2012, conv. dalla l. n. 44 del 2012, l’acquirente dei beni può dedurre i costi relativi ad operazioni soggettivamente inesistenti, non utilizzati direttamente per commettere il reato, anche per l’ipotesi in cui sia consapevole del carattere fraudolento delle operazioni, salvo che si tratti di costi che, a norma del T.U. delle imposte sui redditi approvato con d.P.R. n. 917 del 1986, siano in contrasto con i principi di effettività, inerenza, competenza, certezza, determinatezza o determinabilità” (Cass. n. 11020 del 2022; Cass. n. 8480 del 2022; Cass. n. 25249 del 2016; Cass. 24426 del 2013). Ha soggiunto questa Corte che “In tema di imposte sui redditi, a norma dell’art. 14, comma 4-bis, della l. n. 537 del 1993, nella formulazione introdotta dall’art. 8, comma 1, del d.l. n. 16 del 2012 (conv. in l. n. 44 del 2012), poiché nel caso di operazioni soggettivamente inesistenti i beni acquistati non sono stati utilizzati direttamente “al fine di commettere il reato”, bensì per essere commercializzati, non è sufficiente il coinvolgimento, anche consapevole, dell’acquirente in operazioni fatturate da un soggetto diverso dall’effettivo venditore per escludere la deducibilità, ai fini delle imposte dirette, dei costi relativi a siffatte operazioni anche ove ricorrano i presupposti di cui all’art. 109 del d.P.R. n. 917 del 1986” (Cass. n. 27566 del 2018). Con il settimo motivo di ricorso viene denunciata l’illegittimità della sentenza impugnata per omessa pronuncia ai sensi dell’art.112 c.p.c., in ordine all’eccezione sollevata dal contribuente in appello relativo al l’illegittimo inserimento in dichiarazione di fatture d’acquisto considerate soggettivamente inesistenti all’emissione di fatture fittizie avuto riguardo all’art. 360 n. 4 c.p.c. Il motivo rimane assorbito. La sentenza impugnata va, pertanto, cassata in relazione al sesto motivo, assorbito il settimo e respinti tutte le altre censure. Ne consegue il rinvio della causa per un nuovo esame alla CTR della Lombardia in diversa composizione. Il giudice di rinvio provvederà anche alla regolazione delle spese del giudizio, ivi incluse quelle correlate alla presente fase di legittimità. Per questi motivi Respinti i primi cinque motivi del ricorso, ne accoglie il sesto e ne dichiara assorbito il settimo e respinti tutte le altre censure. Ne consegue il rinvio della causa per un nuovo esame alla CTR della Lombardia in diversa composizione. Il giudice di rinvio provvederà anche alla regolazione delle spese del giudizio, ivi incluse quelle correlate alla presente fase di legittimità”.

Corte di Cassazione – Ordinanza 29 agosto 2022, n. 25474

sul ricorso iscritto al numero 21046 del ruolo generale dell’anno 2014, proposto da V. P. s.p.a. in liquidazione e concordato preventivo, in persona del suo legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avv. Prof. Stefano Loconte, elettivamente domiciliata presso il suo studio in Roma, via Giovan Battista Martini, n. 14

-ricorrente-

contro Agenzia delle Entrate, in persona del direttore pro tempore, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, presso gli uffici della quale in Roma, alla via dei Portoghesi, n. 12, elettivamente si domicilia

-controricorrente-

per la cassazione della sentenza della Commissione tributaria regionale della Lombardia, depositata in data 20 gennaio 2014, n. 223/2014;

sentita la relazione svolta dal consigliere Salvatore Leuzzi nella camera di consiglio del 4 maggio 2022.

Fatti di causa

Con l’avviso di accertamento, l’Agenzia delle entrate, rettificato il reddito e il volume d’affari della società contribuente, recuperava con riferimento all’anno d’imposta 2004 i maggiori importi dovuti a titolo di Ires, Irap e Iva. L’accertamento scaturiva dai controlli effettuati nei confronti della società S. P. s.r.l. dal Nucleo di Polizia Tributaria.

Dalle verifiche emergeva una “frode carosello”, che, con il coinvolgimento di diverse società, risultava finalizzata a lucrare indebite detrazioni dell’IVA, con ingenti risparmi d’imposta, mediante l’emissione di fatture per operazioni soggettivamente inesistenti, praticandosi l’immissione sul mercato di materiale plastico a prezzi assai concorrenziali. La CTP di Milano rigettava il ricorso della contribuente, annullando l’atto impositivo. La CTR della Lombardia accoglieva, per converso, l’appello erariale. Il ricorso della contribuente è affidato a sette motivi. Resiste l’Agenzia con controricorso.

Ragioni della decisione.

Con il primo motivo di ricorso si denuncia l’illegittimità della sentenza per violazione e falsa applicazione dell’art. 22, comma 1, e dell’art. 53, comma 2, D.Lgs. n. 546 del 1992, per avere omesso la CTR di dichiarare l’inammissibilità dell’atto d’appello in quanto l’Ufficio appellante non aveva depositato presso la segreteria del giudice tributario, nel termine di decadenza di giorni 30 dalla proposizione del ricorso, copia dello stesso con la fotocopia della ricevuta della spedizione della raccomandata a mezzo del servizio postale nonché per violazione e falsa applicazione degli artt. 16 e 51 del D.Lgs. n. 546 del 1992, per intempestività dell’atto, invero notificato oltre il termine di legge. Il motivo è infondato.

La CTR ha evidenziato con chiarezza la tempestività e ritualità dell’appello in virtù dell’appurata spedizione dell’atto in plico raccomandato con avviso di ricevimento, come evincibile “inequivocabilmente dalla distinta delle raccomandate, compilata dall’Agenzia delle Entrate, bollata e sottoscritta dall’Ufficio postale”.

Di detta distinta il giudice d’appello segnala l’equipollenza alla ricevuta di spedizione, stante la risultanza in essa del numero della raccomandata, della relativa data nonché dell’Ufficio postale dal quale è avvenuta la spedizione.

Giova allora richiamare il condiviso orientamento di questa Corte secondo il quale “Nel processo tributario, la prova del perfezionamento della notifica a mezzo posta dell’atto di appello è validamente fornita dal notificante mediante la produzione dell’elenco delle raccomandate recante il timbro delle poste, poiché la veridicità dell’apposizione della data mediante lo stesso è presidiata dal reato di falso ideologico in atto pubblico, riferendosi all’attestazione di attività compiute da un pubblico agente nell’esercizio delle sue funzioni di ricezione, senza che assuma rilevanza la mancanza di sottoscrizione, che non fa venir meno la qualificazione di atto pubblico del detto timbro, stante la possibilità d’identificarne la provenienza e non essendo la stessa richiesta dalla legge ‘ad substantiam’” (Cass. n. 19547 del 2019; Cass. n. 14163 del 2018).

Con il secondo motivo di ricorso si lamenta l’illegittimità della sentenza per omessa pronuncia ex art. 112 c.p.c. in ordine alla specifica domanda sollevata dal contribuente in appello relativa alle estensibilità alla fattispecie del giudicato esterno rappresentato dalle sentenze della CTP di Milano nn. 149/1/11 e 151/1/11, depositate il 20 giugno 2012.

Il motivo è inammissibile.

A contrassegnarlo è, infatti, un vistoso deficit di autosufficienza. La questione del giudicato esterno e delle sentenze che ne implicherebbero la sussistenza e l’incidenza risulta genericamente veicolata in ricorso, senza che se ne chiariscano gli esatti termini e la reale portata. Mette in conto richiamare l’avviso consolidato di questa Corte in ragione del quale “ Nel giudizio di legittimità, la deduzione del vizio di omessa pronuncia, ai sensi dell’art. 112 c.p.c., postula, per un verso, che il giudice di merito sia stato investito di domande d’eccezione autonomamente apprezzabili e ritualmente e inequivocabilmente formulate e, per altro verso, che tali istanze siano puntualmente riportate nel ricorso per cassazione nei loro esatti termini e non genericamente o per riassunto del relativo contenuto, con l’indicazione specifica, altresì, dell’atto difensivo e/o del verbale di udienza nei quali l’una o l’altra erano state proposte, onde consentire la verifica, innanzitutto, della ritualità e della tempestività e, in secondo luogo, della decisività delle questioni prospettatevi. Pertanto, non essendo detto vizio rilevabile d’ufficio, la Corte di cassazione, quale giudice del “fatto processuale”, intanto può esaminare direttamente gli atti processuali in quanto, in ottemperanza al principio di autosufficienza del ricorso, il ricorrente abbia, a pena di inammissibilità, ottemperato all’onere di indicarli compiutamente, non essendo essa legittimata a procedere ad un’autonoma ricerca, ma solo alla verifica degli stessi” (Cass. n. 28072 del 2021; Cass. n. 15367 del 2014).

Della questione del giudicato esterno dedotta con il ricorso per cassazione non si fa, del resto, idonea menzione nella sentenza d’appello, nella quale non risultano segnalate le sentenze della CTP che a dire della ricorrente sarebbero passate in giudicato.

Giova, allora, richiamare anche il condiviso indirizzo di questa Corte secondo cui “In tema di ricorso per cassazione, qualora siano prospettate questioni di cui non vi sia cenno nella sentenza impugnata, il ricorrente deve, a pena di inammissibilità della censura, non solo allegarne l’avvenuta loro deduzione dinanzi al giudice di merito ma, in virtù del principio di autosufficienza, anche indicare in quale specifico atto del giudizio precedente ciò sia avvenuto, giacché i motivi di ricorso devono investire questioni già comprese nel “thema decidendum” del giudizio di appello, essendo preclusa alle parti, in sede di legittimità, la prospettazione di questioni o temi di contestazione nuovi, non trattati nella fase di merito né rilevabili di ufficio” (Cass. n. 20694 del 2018; Cass. n. 15430 del 2018; Cass. 23675 del 2013).

Con il terzo motivo di ricorso si censura l’illegittimità della sentenza per violazione e falsa applicazione degli artt. 10 e 11, comma 2, D.Lgs. n. 546 del 1992, avendo la CTR omesso di dichiarare l’inammissibilità dell’atto d’appello in quanto sottoscritto da soggetto non legittimato.

Il motivo è infondato.

La CTR ha ritenuto l’appello “validamente sottoscritto dal Capo Ufficio controlli per delega del Direttore Provinciale”. Va, allora, richiamato il condiviso indirizzo di questa Corte a tenore del quale “In tema di contenzioso tributario, gli artt. 10 e 11, comma 2, del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546 riconoscono la qualità di parte processuale e conferiscono la capacità di stare in giudizio all’ufficio locale dell’agenzia delle entrate nei cui confronti è proposto il ricorso, organicamente rappresentato dal direttore o da altra persona preposta al reparto competente, da intendersi con ciò stesso delegata in via generale, sicché è validamente apposta la sottoscrizione dell’appello dell’ufficio finanziario da parte del preposto al reparto competente, anche ove non sia esibita in giudizio una corrispondente specifica delega, salvo che non sia eccepita e provata la non appartenenza del sottoscrittore all’ufficio appellante o, comunque, l’usurpazione del potere d’impugnare la sentenza” (Cass. n. 6691 del 2014).

Sul tema evocato questa Corte ha più volte affermato che la sottoscrizione dell’atto di appello dell’ufficio finanziario è validamente apposta quando proviene dal preposto al reparto competente (v. Cass. n. 21546 del 2011; Cass. n. 13908 del 2008). Questo perché la delega da parte del direttore può essere legittimamente conferita anche in via generale mediante la preposizione del funzionario a un settore dell’ufficio con competenze specifiche. Infatti, “In tema di processo tributario, la sottoscrizione dell’atto di appello, pur non competendo ad un qualsiasi funzionario sprovvisto di specifica delega da parte del titolare dell’Ufficio, deve ritenersi validamente apposta quando proviene dal funzionario preposto al reparto competente, poiché la delega da parte del titolare dell’Ufficio può essere legittimamente conferita in via generale mediante la preposizione del funzionario ad un settore dell’Ufficio con competenze specifiche” (cfr. da ultimo Cass. n. 20599 del 2021).

Con il quarto motivo di ricorso si contesta la nullità della sentenza per avere la CTR utilizzato gli atti emersi nel giudizio penale quali elementi probatori nel giudizio tributario violando il principio del cd “doppio binario” ex art. 20 D.Lgs. n. 74 del 2000.

Il motivo è infondato.

Legittimamente la CTR ha ritenuto di valorizzare gli elementi emersi nel contesto di un giudizio penale e – segnatamente – la documentazione raccolta dalla Guardia di Finanza. Vale richiamare la giurisprudenza sedimentata di questa Corte, ad avviso della quale “In materia tributaria, gli elementi raccolti a carico del contribuente dai militari della Guardia di Finanza senza il rispetto delle formalità di garanzia difensiva prescritte per il procedimento penale non sono inutilizzabili nel procedimento di accertamento fiscale, stante l’autonomia del procedimento penale rispetto a quello di accertamento tributario, secondo un principio, oltre che sancito dalle norme sui reati tributari (art. 12 del d.l. n. 429 del 1982, successivamente confermato dall’art.20 del d.lgs. n.74 del 2000), desumibile anche dalle disposizioni generali dettate dagli artt. 2 e 654 c.p.p. ed espressamente previsto dall’art. 220 disp. att. c.p.p., che impone l’obbligo del rispetto delle disposizioni del codice di procedura penale quando, nel corso di attività ispettive, emergano indizi di reato ma soltanto ai fini dell’applicazione della legge penale” (Cass. n. 28060 del 2017; cfr. anche Cass. n. 22984 del 2010)

D’altronde, questa stessa Corte ha puntualizzato che “L’Amministrazione finanziaria, nell’attività di contrasto e accertamento dell’evasione fiscale, può, in linea di principio, avvalersi di qualsiasi elemento di valore indiziario, anche unico, ancorché acquisito illegittimamente secondo l’ordinamento processuale penale, con esclusione di quelli la cui inutilizzabilità discenda da una specifica disposizione della legge tributaria o dal fatto di essere acquisiti in violazione di diritti fondamentali di rango costituzionale, stante la netta differenziazione tra processo penale e tributario, secondo un principio sancito non solo dalle norme sui reati tributari (art. 12 del d.l. n. 429 del 1982, successivamente confermato dall’art. 20 del d.lgs. n. 74 del 2000), ma anche dalle disposizioni generali dettate dagli artt. 2 e 654 c.p.p. ed espressamente dall’art. 220 disp. att. c.p.p., che impone l’obbligo del rispetto delle disposizioni del codice di procedura penale quando, nel corso di attività ispettive, emergano indizi di reato ma soltanto ai fini dell’applicazione della legge penale” (Cass. n. 31243 del 2019).

In definitiva, alla luce dei principi nomofilattici “in tema di accertamento tributario, è legittima l’utilizzazione di qualsiasi elemento con valore indiziario, anche acquisito in modo irrituale, ad eccezione di quelli la cui inutilizzabilità discende da specifica previsione di legge e salvi i casi in cui venga in considerazione la tutela di diritti fondamentali di rango costituzionale. Ne consegue che sono utilizzabili ai fini della pretesa fiscale, nel contraddittorio con il contribuente, i dati bancari trasmessi dall’autorità finanziaria francese a quella italiana, ai sensi della direttiva 77/799/CEE, senza onere di preventiva verifica da parte dell’autorità destinataria, sebbene acquisiti con modalità illecite ed in violazione del diritto alla riservatezza bancaria” (Cass. n. 31779 del 2019; Cass. n. 31085 del 2019; Cass. n. 11162 del 2021).

In buona sostanza, nel processo tributario il giudice può legittimamente porre a base del proprio convincimento, in ordine alla sussistenza dei fatti costitutivi dell’obbligazione tributaria, le prove assunte in un diverso processo e anche in sede penale, quali prove atipiche idonee a fornire elementi di giudizio sufficienti, se ed in quanto non smentite dal raffronto critico – riservato al giudice di merito e non censurabile in sede di legittimità se non congruamente motivato – con le altre risultanze del processo (così efficacemente Cass. n. 19859 del 2012).

Con il quinto motivo si censura la nullità della sentenza per omessa indicazione degli elementi che hanno condotto i giudici d’appello al proprio convincimento, ravvisandosi una “motivazione apparente”, per l’assenza di argomentazioni idonee a rivelare la ratio decidendi della decisione di merito; con la medesima censura si lamenta altresì l’error in procedendo per violazione dell’art. 36 D.Lgs. n. 546 del 1992, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 4 c.p.c.

Il motivo è inammissibile.

La CTR ha riportato il quadro indiziario sul quale si poggia l’accertamento fiscale, evidenziando su quella scorta la fondatezza della pretesa tributaria. In particolare, risulta evidenziata la fittizia intestazione di fatture, l’inesistenza delle operazioni correlate ad una “frode carosello” finalizzata all’evasione, la sussistenza di enti deputati a svolgere il compito di mera “cartiera”, la rilevanza indiziaria della documentazione raccolta durante i controlli dalla Guardia di Finanza, il ruolo attivo rivestito dalla contribuente e dal suo procuratore generale nell’organizzazione mirata all’evasione.

La ratio decidendi è ben evincibile nella specie. Non viene in apice, pertanto, il vizio lamentato, occorrendo evidenziare come in astratto esso sia denunciabile in sede di legittimità ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c. soltanto qualora la motivazione “benché graficamente esistente, non renda, tuttavia, percepibile il fondamento della decisione, perché recante argomentazioni obiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento, non potendosi lasciare all’interprete il compito di integrarla con le più varie, ipotetiche, congetture” (Cass. n. 6758 del 2022; Cass.13977 del 2019).

La motivazione resa dai giudici d’appello non scende al di sotto della soglia del c.d. “minimo costituzionale”, giovando richiamare l’orientamento di questa Corte in base al quale “In seguito alla riformulazione dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., disposta dall’art. 54 del d.l. n. 83 del 2012, conv., con modif., dalla l. n. 134 del 2012, non sono più ammissibili nel ricorso per cassazione le censure di contraddittorietà e insufficienza della motivazione della sentenza di merito impugnata, in quanto il sindacato di legittimità sulla motivazione resta circoscritto alla sola verifica del rispetto del «minimo costituzionale» richiesto dall’art.111, comma 6, Cost., che viene violato qualora la motivazione sia totalmente mancante o meramente apparente, ovvero si fondi su un contrasto irriducibile tra affermazioni inconcilianti, o risulti perplessa ed obiettivamente incomprensibile, purché il vizio emerga dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali” (Cass. n. 7090 del 2022; Cass. n. 22598 del 2018).

Non risulta neppure violato l’art. 36 D.Lgs. n.546 del 1992, posto che la sentenza non è affatto priva dell’illustrazione delle censure mosse dall’appellante alla decisione di primo grado – sulle quali la decisione anzi ampiamente si diffonde – e delle considerazioni che hanno indotto la commissione a disattenderle. La CTR lascia comprendere con sufficiente chiarezza sia il thema decidendum, sia le ragioni poste a fondamento della decisione.

Con il sesto motivo di ricorso si deduce, avuto riguardo all’art.360, comma 1, n. 3 C.P.C., l’illegittimità della sentenza impugnata per violazione e falsa applicazione dell’art. 109 DPR n. 917 del 1986, dell’art. 14, comma 4-bis, L. n. 537 del 1993 e dell’art. 19 DPR n. 633 del 1972, “nella parte in cui non ha concesso la deducibilità dei relativi costi ai fini delle imposte dirette e la detraibilità dell’Iva ai fini delle imposte indirette”.

Il motivo è fondato e va accolto nei termini che seguono.

L’Iva appare indetraibile. In tema di IVA relativa ad operazioni soggettivamente inesistenti, contribuente ha il diritto di detrarre l’imposta solo provando, ai sensi dell’art. 2697 c.c., di non aver saputo o di non poter sapere di aver preso parte ad un’operazione fraudolenta.

Nella specie, la CTR ha accertato in fatto, di contro, proprio la consapevolezza in capo al contribuente della frode fiscale. L’accertamento compiuto rientra nel perimetro del sindacato del giudice di merito, il quale ha liberamente formato il proprio convincimento, dandone conto in motivazione attraverso argomentazioni idonee ad illustrare la ratio decidendi.

Tanto è sufficiente ad escludere, ai sensi dell’art. 21, u.c., d.P.R. n. 633 del 1972 la detraibilità dell’Iva da parte del contribuente consapevole del meccanismo frodatorio. La censura, per converso, coglie nel segno con riferimento al profilo della deducibilità dei costi. Invero, sebbene – come puntualizzato dalla stessa CTR in sentenza – la contribuente evidenziasse in appello la deducibilità, ai fini delle imposte dirette, dei costi correlati alle fatture per le operazioni soggettivamente inesistenti, il giudice del gravame di merito ha ab implicito escluso detta prerogativa, trascurando, tuttavia, di soffermarsi sui profili fattuali e giuridici a sostegno del diniego interposto. Nel tralasciare di operare una distinzione tra gli effetti della condotta del contribuente in funzione della detraibilità dell’Iva, da un lato, e delle deducibilità dei costi sostenuti (e fatturati), dall’altro, il collegio regionale si è posto in contrasto con il condivisibile indirizzo di questa Corte a tenore del quale “In tema di imposte sui redditi,a norma dell’art. 14, comma 4 bis, della l. n. 537 del 1993, nella formulazione introdotta con l’art. 8, comma 1, del d.l. n. 16 del 2012, conv. dalla l. n. 44 del 2012, l’acquirente dei beni può dedurre i costi relativi ad operazioni soggettivamente inesistenti, non utilizzati direttamente per commettere il reato, anche per l’ipotesi in cui sia consapevole del carattere fraudolento delle operazioni, salvo che si tratti di costi che, a norma del T.U. delle imposte sui redditi approvato con d.P.R. n. 917 del 1986, siano in contrasto con i principi di effettività, inerenza, competenza, certezza, determinatezza o determinabilità” (Cass. n. 11020 del 2022; Cass. n. 8480 del 2022; Cass. n. 25249 del 2016; Cass. 24426 del 2013).

Ha soggiunto questa Corte che “In tema di imposte sui redditi, a norma dell’art. 14, comma 4-bis, della l. n. 537 del 1993, nella formulazione introdotta dall’art. 8, comma 1, del d.l. n. 16 del 2012 (conv. in l. n. 44 del 2012), poiché nel caso di operazioni soggettivamente inesistenti i beni acquistati non sono stati utilizzati direttamente “al fine di commettere il reato”, bensì per essere commercializzati, non è sufficiente il coinvolgimento, anche consapevole, dell’acquirente in operazioni fatturate da un soggetto diverso dall’effettivo venditore per escludere la deducibilità, ai fini delle imposte dirette, dei costi relativi a siffatte operazioni anche ove ricorrano i presupposti di cui all’art. 109 del d.P.R. n. 917 del 1986” (Cass. n. 27566 del 2018).

Con il settimo motivo di ricorso viene denunciata l’illegittimità della sentenza impugnata per omessa pronuncia ai sensi dell’art.112 c.p.c., in ordine all’eccezione sollevata dal contribuente in appello relativo al l’illegittimo inserimento in dichiarazione di fatture d’acquisto considerate soggettivamente inesistenti all’emissione di fatture fittizie avuto riguardo all’art. 360 n. 4 c.p.c.

Il motivo rimane assorbito.

La sentenza impugnata va, pertanto, cassata in relazione al sesto motivo, assorbito il settimo e respinti tutte le altre censure.

Ne consegue il rinvio della causa per un nuovo esame alla CTR della Lombardia in diversa composizione.

Il giudice di rinvio provvederà anche alla regolazione delle spese del giudizio, ivi incluse quelle correlate alla presente fase di legittimità.

Per questi motivi Respinti i primi cinque motivi del ricorso, ne accoglie il sesto e ne dichiara assorbito il settimo e respinti tutte le altre censure. Ne consegue il rinvio della causa per un nuovo esame alla CTR della Lombardia in diversa composizione. Il giudice di rinvio provvederà anche alla regolazione delle spese del giudizio, ivi incluse quelle correlate alla presente fase di legittimità.

Per questi motivi

Respinti i primi cinque motivi del ricorso, ne accoglie il sesto e ne dichiara assorbito il settimo. Cassa la sentenza impugnata. Rinvia la causa per un nuovo esame alla CTR della Lombardia, in diversa composizione, anche ai fini della regolazione delle spese del giudizio. Così deciso in Roma, il 4 maggio 2022

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