CASSAZIONE

Falso in bilancio: Fatture verso terzi fanno la prova dell’omessa dichiarazione

Delitto di false comunicazioni sociali- Falso valutativo – Falso in bilancio- Rilevanza penale- Artt.2621 e 2622 c.c. come modificati dagli artt.9 e 10 della L. n.69/2015

La Corte di Cassazione a Sezioni Unite, con la sentenza n. 22474 del 27 maggio 2016, ha confermato la condanna per il reato di omessa presentazione della dichiarazione di cui all’art. 5 del D.lgs. 74/2000, ribadendo il principio che tale reato può dirsi provato nel suo presupposto oggettivo, nel rinvenimento di fatture attive emesse dall’imputato nei confronti di alcuni clienti a fronte delle quali risultino, a seguito di controlli incrociati, importanti pagamenti.

Le Sezioni Unite della Cassazione hanno risolto per il momento – ma forse dovremmo aspettarci nuovi contributi sul tema – l’acceso contrasto giurisprudenziale sorto a seguito della soppressione, ad opera della legge n. 69/2015, dell’inciso “ancorché oggetto di valutazioni”, prima contenuto negli artt. 2621 e 2622 c.c.: dal momento che la quasi totalità delle poste di bilancio ha carattere valutativo, escludere la rilevanza penale delle relative falsificazioni renderebbe la disciplina irrazionale.

La legge 27 maggio 2015, n. 69, ha sostituito (a decorrere dal 14 giugno 2015) gli artt. 2621 e 2622 c.c. e ha inserito i nuovi artt. 2621-bis e 2621-ter, c.c.

La normativa vigente, in sintesi, differenzia tra false comunicazioni sociali in società non quotate (art. 2621, c.c.) e false comunicazioni sociali in società quotate (art. 2622, c.c.), sanzionando entrambe le fattispecie come delitto e punendole con la reclusione da uno a cinque anni, nel caso di società non quotate, e da tre a otto anni, nel caso di falso in società quotate. Sono state, inoltre, introdotte ipotesi attenuate per fatti di lieve entità (art. 2621-bis, c.c.), e un’autonoma causa di non punibilità per particolare tenuità (art. 2621-ter, c.c.).

I dubbi interpretativi nascono dalla modifica degli artt. 2621 e2622, c.c. L’assenza di tale inciso ha portato alla formulazione di interpretazioni nonché di giudizi di legittimità opposti. È possibile ricostruire la spaccatura creatasi all’interno dei giudici della Suprema Corte partendo dalla sentenza n. 33774/2015. Questa prima sentenza ha attribuito alla citata riforma delle false comunicazioni sociali un effetto parzialmente abrogativo: si ritiene che il nuovo testo, facendo riferimento a “fatti materiali” delimiti la punibilità ai soli dati oggettivi, escludendo da essi le valutazioni. Seguendo tale interpretazione, la mancata inclusione nel nuovo testo legislativo dell’inciso sulle valutazioni esprime la “… volontà di non attribuire più rilevanza penale alle attività di mera valutazione ovvero alle stime, che caratterizzano alcune voci di bilancio e che rispondono a una pluralità di considerazioni fondate su elementi di varia natura”.

E si è pure rilevato che la locuzione “fatti materiali”, senza ulteriori specificazioni, già era stata utilizzata dalla legge n. 154/1991 per circoscrivere l’oggetto del reato di frode fiscale di cui all’art. 4, lett. f), legge n. 516/1982, con il chiaro intento di escludere dall’incriminazione le valutazioni relative alle componenti attive e passive del reddito dichiarato. Come è noto, però, tale scelta è stata poi espressamente superata dal legislatore in occasione della riforma dei reati tributari del 2000, con la quale non solo la menzionata formula è stata modificata, ma specificamente è stata attribuita espressa rilevanza penale alle valutazioni estimative divergenti da quelle ritenute corrette, seppure entro la soglia di tolleranza del 10% (art. 7, comma 2. D.lgs. n. 74/2000).

È del tutto evidente, allora, che l’adozione dello stesso riferimento ai “fatti materiali non rispondenti al vero”, senza alcun richiamo alle valutazioni e il dispiegamento della formula citata anche nell’ambito della descrizione della condotta omissiva, consente di ritenere ridotto l’ambito di operatività delle due nuove fattispecie di false comunicazioni sociali, con esclusione dei cosiddetti falsi valutativi.

E proprio sulla portata contenutistica della condotta descritta nell’art. 2638, la suprema Corte ha avuto modo di rilevare che l’espressione “fatti materiali, ancorché oggetto di valutazioni” porta solo ad escludere dal perimetro della punibilità le opinioni, le previsioni o le congetture prospettate come tali, cioè quali apprezzamenti di carattere squisitamente soggettivo. Tale interpretazione della locuzione contenuta nell’art. 2638 cod. civ. finisce allora per ulteriormente supportare la tesi secondo la quale la riforma del 2015 ha fatto ricorso solo alla locuzione “fatti materiali non rispondenti al vero”, non replicando la precisazione contenuta del previgente art. 2621 e nel vigente citato art. 2638, con l’intento di lasciar fuori dalla fattispecie le valutazioni.

Per quanto riguarda, invece, le modifiche apportate alla struttura dell’elemento soggettivo, deve osservarsi come il legislatore abbia confermato, riguardo ad entrambe le figure di reato, la necessità di un dolo specifico, caratterizzato dal fine di procurare per sé o per altri un ingiusto profitto. La novella non ha invece riproposto la espressa caratterizzazione dello stesso come intenzionale, attraverso la soppressione dell’inciso “con l’intenzione di ingannare i soci o il pubblico”, che era stato introdotto nel 2002. In diretta relazione alla descrizione della condotta ha fatto invece la sua comparsa l’avverbio “consapevolmente”, che appare rivelatore della volontà del legislatore di escludere lo spessore del dolo eventuale”. La pronuncia della Cassazione fa perno sulla necessaria tipicità della fattispecie penale, che verrebbe elusa dal mantenimento delle valutazioni come oggetto di reato, tenendo anche in considerazione la soppressione delle soglie di punibilità.

La successiva pronuncia della Cassazione – sentenza n. 890/2015 – ribalta la precedente, sostenendo che il riferimento ai “fatti materiali” indicati nell’art. 2621, c.c. quali possibili oggetti di una falsa rappresentazione della realtà non è sufficiente a escludere la rilevanza penale degli enunciati valutativi, anch’essi oggetto di falsità quando violino criteri di valutazione predeterminati o esibiti in una comunicazione sociale.

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Gli Ermellini, con la pronuncia in oggetto hanno così risolto l’acceso contrasto giurisprudenziale sorto a seguito della soppressione, ad opera della legge n. 69/2015, dell’inciso “ancorché oggetto di valutazioni”, prima contenuto negli artt. 2621 e 2622 c.c.

La Cassazione ha quindi ritenuto che, dal momento che la quasi totalità delle poste di bilancio ha carattere valutativo, escludere la rilevanza penale delle relative falsificazioni renderebbe la disciplina irrazionale. Tuttavia, va ricordato che in tema di reati tributari è ormai pacifico che i giudici possano legittimamente utilizzare i verbali di constatazione della Guardia di finanza, nonché ricorrere all’accertamento induttivo di cui all’articolo 39 del Dpr 600/1973 ai fini della determinazione dell’ammontare dell’imposta evasa. Il principio del doppio binario, ovvero dell’autonomia del procedimento penale rispetto a quello tributario, non esclude che, ai fini della formazione del suo convincimento, il giudice penale possa avvalersi anche di presunzioni tratte dall’ambito tributario, con l’unico limite rappresentato dal fatto che tali elementi vengano assunti “non con l’efficacia di certezza legale, ma come dati processuali oggetto di libera valutazione ai fini probatori” (Cassazione 9043/2013). Ciò vale a maggior ragione in sede cautelare, in cui ci si limita a valutare “solo” il fumus commissi delicti ovvero la non manifesta infondatezza del reato; in tal senso è stata ritenuta sufficiente la ricostruzione dell’imposta evasa esclusivamente sulla base dello studio di settore, rinviandosi alla fase di merito per il reperimento di ulteriori elementi indiziari in grado di confermare o smentire la pretesa dell’Agenzia delle Entrate (Cassazione, sentenza 40992/2013).

Con la sentenza 9043/2013, gli Ermellini hanno chiarito che, con riferimento al delitto di dichiarazione infedele, per imposta evasa deve intendersi “… l’intero tributo effettivamente dovuto, che va correlato al risultato economico conseguito e deve essere determinato – sulla base delle risultanze probatorie acquisite nel processo penale – dalla contrapposizione dei ricavi e dei costi d’esercizio fiscalmente detraibili …”.

È proprio al giudice penale che spetta la verifica in concreto dell’avvenuto superamento della soglia di punibilità e, quindi, la determinazione dell’ammontare dell’imposta evasa: “… attraverso una verifica che può venire a sovrapporsi ed anche entrare in contraddizione con quella eventualmente effettuata dinanzi al giudice tributario, non essendo configurabile alcuna pregiudiziale tributaria” (Cassazione, sentenze 34871/2010 e 21213/2008).

Tuttavia, il giudice penale può anche utilizzare i verbali di constatazione redatti dalla Guardia di finanza ai fini della determinazione dell’ammontare dell’imposta evasa, nonché ricorrere all’accertamento induttivo. Il ricorso a metodi induttivi di ricostruzione del reddito è ammesso ogni qual volta le scritture contabili imposte dalla legge non siano state tenute o siano state irregolarmente tenute dal contribuente. Infatti, a fronte di una contabilità irregolare, il reddito evaso non può essere ricavato in via meramente aritmetica, mentre gli indici presuntivi tributari permettono di risalire, attraverso un ragionamento induttivo, dal particolare accertato al complessivo imponibile desunto da tali elementi di presunzione (Cassazione 28053/2011).

Al fine di impostare il problema, le Sezioni unite si dipartono dal fine perseguito dalla l. n. 69 del 2015 (il ripristino della ‘trasparenza societaria’) e dall’interesse tutelato dagli artt. 2621-2622, individuato nella veridicità e completezza dell’informazione societaria, “sempre avendo come referente finale le potenziali ripercussioni negative delle falsità sulle sfere patrimoniali della società, dei soci, dei creditori e del pubblico”. Quindi l’attenzione si sposta sul piano sistematico, “in una visione – organica e tendenzialmente unitaria e coerente – dell’intera materia societaria in tema di bilancio e del sottosistema delle norme penali poste a tutela della corretta redazione del predetto documento”, dalla quale emerge che “il bilancio, in tutte le sue componenti (stato patrimoniale, conto economico, rendiconto finanziario, nota integrativa), è un documento dal contenuto essenzialmente valutativo” che adempie a una “funzione informativa/comunicativa”.

Al fine di assolvere tale compito – si prosegue – è necessario che le valutazioni riportate nel bilancio siano conformi ai criteri imposti dal codice civile, dalle direttive comunitarie e dai principi contabili accreditati, il cui rispetto da parte dei redattori del bilancio è alla base dell’affidamento dei suoi destinatari. Affidamento – può qui aggiungersi – che costituisce il presupposto indispensabile di un sano ed efficiente sistema economico.

È proprio alla luce di tali considerazioni che la Cassazione a Sezioni unite nella lunga e motivata pronuncia a cui rimandiamo la lettura, ha ribadito il seguente principio di diritto: Sussiste il delitto di false comunicazioni sociali, con riguardo alla esposizione o alla omissione di fatti oggetto di ‘valutazione’, se, in presenza di criteri di valutazione normativamente fissati o di criteri tecnici generalmente accettati, l’agente da tali criteri si discosti consapevolmente e senza darne adeguata informazione giustificativa, in modo concretamente idoneo ad indurre in errore i destinatari delle comunicazioni.

Nel caso in esame sono state rigettate le valutazioni operate dalla Corte d’appello che si erano basate su una tipologia di controllo di tipo analitico ovvero sulle fatture attive emesse dalla ditta verificata, a fronte delle quali, attraverso controlli incrociati, risultavano pagamenti di somme ingenti. Emergeva infatti che con sentenza del 2015, la Corte d’appello di Campobasso, in parziale riforma della pronuncia di primo grado in virtù del riconoscimento delle attenuanti generiche, condannava il titolare di una ditta individuale per il reato di omessa presentazione della dichiarazione. Con il successivo ricorso per cassazione l’imputato denunciava, tra l’altro, violazione di legge, in quanto i giudici di appello avevano fondato la condanna basandosi sulle presunzioni derivanti dalle movimentazioni bancarie, ai sensi dell’articolo 32 del Dpr 600/1973, senza operare alcuna autonoma valutazione in ordine alla determinazione dell’imposta evasa, in violazione del principio del “doppio binario” tra processo penale e procedimento tributario.

Inoltre, la condanna era stata motivata unicamente con riferimento all’accertamento induttivo (da indagini finanziarie), in contrasto con l’assunto per cui le presunzioni non possono ex se fondare un giudizio di responsabilità. La sentenza, in pratica, si sarebbe discostata dai principi affermati dalla giurisprudenza di legittimità, “… rinunciando all’autonoma determinazione dell’imposta evasa, appiattendosi, invece, su meccanismi presuntivi ex art. 32 D.P.R. n. 600/1973”. Inoltre, sosteneva che le presunzioni tributarie non erano idonee a giustificare la condanna come elementi probatori.

La Cassazione ha appurato però che le prove erano state acquisite mediante indagini bancarie, ma nel caso in esame non si poteva parlare di accertamento basato sul solo metodo induttivo, mediante la presunzione: a fungere da prova c’erano i ricavi documentati dalle fatture emesse verso terzi dall’azienda. I controlli incrociati delle Fiamme Gialle sono stati eseguiti proprio sulla base di tali dati. Insomma, non c’era scampo per il contribuente, condannato anche al pagamento delle spese processuali. La Terza Sezione Penale ha poi evidenziato come i militari della Guardia di Finanza avessero provveduto, in sede di determinazione dell’imposta evasa, “a detrarre anche i verosimili costi conseguenti, a fronte delle poste attive accertate ed in tale misura individuate”, e precisando che “… è ben vero che la prova (dell’imposta evasa, quale elemento costitutivo della fattispecie delittuosa) è stata acquisita anche mediante indagini bancarie, ma è altrettanto vero che, nel caso in esame, non può parlarsi di accertamento basato esclusivamente su metodo induttivo attraverso la presunzione di cui all’art. 32, D.P.R. n. 600 del 1973… atteso che i ricavi risultano documentati dalle fatture attive emesse verso terzi dalla ditta verificata e che, sulla base di tali dati documentali, sono poi stati eseguiti i controlli incrociati della GDF da cui sono risultati i pagamenti relativi ai corrispettivi fatturati per centinaia di migliaia di euro”. Inoltre, come da giurisprudenza ormai consolidata, ai fini della determinazione dell’imposta evasa, i verificatori avevano tenuto conto della “contrapposizione tra ricavi e costi d’esercizio fiscalmente detraibili, in una prospettiva di prevalenza del dato fattuale reale rispetto ai criteri di natura meramente formale che caratterizzano l’ordinamento tributario” (cfr, ex multis, Cassazione 38684/2014)”.

 

Suprema Corte di Cassazione

Sentenza 27 maggio 2016, n. 22474

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE PENALI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CANZIO Giovanni – Presidente

Dott. FIALE Aldo – Consigliere

Dott. CONTI Giovanni – Consigliere

Dott. BIANCHI Luisa – Consigliere

Dott. FUMO Maurizio – rel. Consigliere

Dott. DIOTALLEVI Giovanni – Consigliere

Dott. VESSICHELLI Maria – Consigliere

Dott. FIDELBO Giorgio – Consigliere

Dott. RAMACCI Luca – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

RITENUTO IN FATTO

  1. La Corte di appello dell’Aquila, con sentenza in data 24 marzo 2014, ha parzialmente riformato la pronunzia di primo grado nei confronti di (OMISSIS) ed (OMISSIS), imputati entrambi di bancarotta fraudolenta distrattiva e documentale e, il solo (OMISSIS), di bancarotta da reato societario, per i quali le pene sono state rideterminate in melius.

1.1. Il giudice di primo grado aveva dichiarato i predetti colpevoli dei reati rispettivamente loro ascritti ai capi A ( (OMISSIS): articoli 216, primo comma, nn. 1 e 2, 219, primo comma e secondo comma, n. 1, 223 l. fall), B ( (OMISSIS): L. Fall., articolo 223, comma 2, n. 1, con riferimento all’articolo2621 c.c.); C ( (OMISSIS): L. Fall., articolo 216, comma 1, n. 2, articolo219, commi 1 e 2, L. Fall., articolo 223) e D (entrambi: L.F. articolo 216, comma 1, n. 2, articolo 219, commi 1 e 2, articolo 223).

1.2. La vicenda riguarda il fallimento della S.p.a. (OMISSIS), dichiarato con sentenza del (OMISSIS).

Secondo quanto si legge in sentenza, (OMISSIS), nella sua qualita’ di amministratore della societa’ (OMISSIS), dal 12 aprile 1999 al 30 gennaio 2004, e (OMISSIS), quale amministratore di fatto dal luglio 2003, distraevano somme di denaro, sia prelevandole direttamente (invero alcuni prelevamenti di cassa – si assume – non avevano giustificazione), sia emettendo sine titulo assegni della S.p.a., sia incassando assegni destinati alla societa’, ma non lasciando traccia del relativo importo nelle scritture contabili (utilizzando la somma per scopi estranei a quelli aziendali), sia appostando in bilancio falsi esborsi. E invero il Tribunale aquilano, prima, e la Corte di appello, poi, hanno evidenziato, tra l’altro (con particolare riferimento alla posizione di (OMISSIS)), la falsita’ di una fattura, apparentemente emessa dalla societa’ (OMISSIS) per la copertura del manto erboso del campo di calcio. Secondo i giudici di merito, si era trattato di una prestazione inesistente. Inoltre, non veniva annotato in contabilita’ il rilevante importo di Euro 327.775, per altro da considerare come contropartita di spese, a loro volta, non documentate. Vi erano poi stati bonifici a favore della ditta (OMISSIS) per servizi eseguiti non per conto della fallita, bonifici effettuati in realta’ per estinguere debiti personali del (OMISSIS).

Sempre il (OMISSIS), poi, si legge in sentenza, poneva in essere false comunicazioni sociali, in modo da ingannare i destinatari delle stesse (e al fine di conseguire l’ingiusto profitto pari alle consumate distrazioni), cagionando oltretutto, in tal modo, il dissesto della societa’, conseguenza diretta – dunque della condotta falsificatoria (L. Fall., articolo 223, comma 2, n. 1, e articolo2621 c.c.), consistita: a) nel riportare, tra i costi di produzione del bilancio 2003, voci fittizie, per un importo di Euro 513.675,62; b) nell’informare il pubblico dell’avvenuta ricostituzione del capitale sociale della societa’ (OMISSIS) contrariamente al vero – per l’importo di Euro 1.217.675,00, ricostituzione, in realta’, mai avvenuta per tale entita’, dal momento che venivano fittiziamente indicate come ricomprese in tale “operazione” anche somme gia’ indicate quali “anticipazioni soci” negli anni 2001, 2002 e 2003, per un ammontare complessivo di Euro 288.217,2.

1.3. Gli imputati sono stati riconosciuti colpevoli anche di bancarotta fraudolenta documentale, poiche’ tenevano le scritture contabili in modo da non consentire la ricostruzione del movimento degli affari, annotando crediti inesistenti, facendo risultare fittizie operazioni di anticipazioni soci, omettendo di annotare introiti ed altro. Invero, si legge nella sentenza di primo grado, confermata sul punto, in appello, che venivano sistematicamente annotati, a far tempo dal bilancio 2001, crediti inesistenti; altre false annotazioni venivano effettuate per mascherare singole condotte distrattive di prelevamento di somme di denaro.

  1. (OMISSIS) e (OMISSIS) ricorrono per cassazione avverso la sentenza d’appello.
  2. Gli avvocati (OMISSIS) e (OMISSIS), nell’interesse dello (OMISSIS), articolano quattro motivi.

3.1. Censurano, innanzitutto, la mancata assunzione di prove decisive. Invero il Tribunale aveva, a suo tempo, ammesso l’esame di tutti gli imputati, ma non vi aveva poi proceduto. Gli altri coimputati, a vario titolo prosciolti, dovevano essere considerati “testimoni puri” e il contributo di conoscenza che avrebbero potuto offrire per la ricostruzione della complessa vicenda processuale non avrebbe dovuto essere ignorato. Viene anche denunciato vizio di motivazione della sentenza di secondo grado, la quale non fornisce risposta adeguata, poiche’ si limita a rilevare che gli imputati erano rimasti contumaci. Ma tale circostanza non precludeva la possibilita’ che gli stessi fossero citati in giudizio per rendere o negare il consenso all’esame dibattimentale. Ai sensi dell’articolo603 c.p.p., la invocata decisione della Corte territoriale avrebbe dovuto essere considerata propedeutica alla richiesta di rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale.

3.2. Con il secondo motivo, si deduce travisamento degli atti e mancanza di motivazione, essendo state erroneamente valutate le dichiarazioni della teste (OMISSIS); da tali dichiarazioni non poteva certo dedursi il ruolo di amministratore di fatto in capo allo (OMISSIS). Peraltro, anche i contributi provenienti dagli altri testi sarebbero stati non correttamente interpretati dai giudici del merito, come risulta evidente dal raffronto del testo della decisione impugnata con i verbali della istruzione dibattimentale. Invero, il solo testimone Bizzarri ebbe a dichiarare di essere stato assunto direttamente da (OMISSIS), come medico sociale della squadra di calcio.

3.3. Con il terzo motivo, si assume che la condotta attribuita allo (OMISSIS) non sarebbe comunque integrativa degli estremi della figura dell’amministratore di fatto. I difensori fanno, in particolare, riferimento: a) a quanto la Corte distrettuale crede di poter desumere dal verbale assembleare del 31 ottobre 2003 (in cui si dava atto dell’intervenuto passaggio delle quote sociali dal (OMISSIS) allo (OMISSIS) e della sua attivita’ di controllo del bilancio), atteso che la prima circostanza e’ del tutto neutra e la seconda e’ pienamente giustificata dall’interesse del futuro acquirente circa le reali condizioni della societa’ della quale si accingeva ad acquisire quote; b) al fatto che, da un certo momento in poi, lo stesso fosse apostrofato dai dipendenti come “presidente” della societa’ e che tale qualifica apparisse anche sul sito internet della stessa, atteso che e’ noto che, in determinati contesti socio-culturali, si abbonda nell’attribuire titoli onorifici e si indulge nelle iperboli encomiastiche; c) alla sottoscrizione da parte sua di un importante contratto di sponsorizzazione per la societa’ sportiva, quasi che solo il presidente o il dominus della compagine possano attivarsi in tal senso.

In sintesi: tali emergenze non sarebbero per nulla significative di attivita’ di gestione da parte del ricorrente.

3.4. Con il quarto motivo, si denunzia l’inutilizzabilita’, ovvero la nullita’, della perizia contabile, acquisita al fascicolo del dibattimento, poiche’ tale acquisizione non era stata preceduta dal necessario esame del perito, nonostante quest’ultimo fosse stato ascoltato in sede di incidente probatorio.

3.5. In data 15 febbraio 2016 e’ stata depositata dalla difesa di (OMISSIS) uno scritto intestato “motivi nuovi”, con il quale si ribadisce l’asserito “completo travisamento” delle risultanze dell’istruttoria dibattimentale, soprattutto nella valutazione della prova testimoniale a carico del ricorrente, segnalando ulteriormente alcune incongruenze tra quanto risultante dai verbali di udienza e quanto desunto dalla sentenza d’appello circa il ruolo di amministratore di fatto di (OMISSIS). Invero, i testi (OMISSIS), (OMISSIS) e (OMISSIS) ebbero a chiarire di essere stati assunti ben prima che il ricorrente entrasse in contatto con la squadra di calcio. Il solo (OMISSIS), come premesso, ha affermato di essere stato assunto dallo (OMISSIS), precisando tuttavia che cio’ era avvenuto in quanto l’imputato era in procinto di acquistare la societa’.

  1. Nell’interesse del (OMISSIS) sono stati proposti due ricorsi.

4.1. L’avvocato (OMISSIS) deduce un unico motivo, con il quale sostiene, da un lato, che la sentenza impugnata non avrebbe adeguatamente considerato che il ricorrente aveva lasciato la gestione della societa’ oltre un anno prima della dichiarazione di fallimento, di talche’ non gli si poteva addebitare alcun fatto di bancarotta fraudolenta; dall’altro, che il giudice di appello avrebbe operato una erronea valutazione della sussistenza dell’elemento psicologico, mancando l’indicazione della consapevolezza che il fatto distrattivo fosse commesso in danno dei creditori.

4.2. L’avvocato (OMISSIS), a sua volta, deduce violazione di legge processuale per quel che riguarda le notifiche del decreto di citazione in appello e dell’estratto contumaciale della sentenza di secondo grado, evidenziando, che il ricorrente aveva, in un primo tempo, eletto domicilio presso il proprio difensore di fiducia, per poi – subito dopo la condanna ad opera della sentenza di primo grado – revocare detta elezione. Tuttavia le notifiche sopra indicate erano state erroneamente eseguite presso il primo domicilio, e cioe’ presso lo studio dell’avv. (OMISSIS). Cio’ ha determinato, secondo il ricorrente, nullita’ assoluta ed insanabile.

  1. I ricorsi sono stati assegnati ratione materiae alla Quinta Sezione penale, la quale, all’udienza del 2 marzo 2016, ha rilevato che, tra i reati per i quali e’ intervenuta condanna del (OMISSIS) e in relazione ai quali e’ stato proposto ricorso, vi e’ anche quello previsto e punito dal combinato disposto della L. Fall., articolo 223, comma 2, e articolo 2621 c.c., (capo B della imputazione), sulla cui eventuale, sopravvenuta, parziale abrogazione e’ di recente sorto un contrasto interpretativo nella giurisprudenza di legittimita’.

Per tale ragione, con ordinanza depositata in data 4 marzo 2016, la Quinta Sezione ha rimesso alle Sezioni Unite la questione in ordine al seguente quesito:

“Se, in tema di false comunicazioni sociali, la modifica con cui la L. 27 maggio 2015, n. 69, articolo 9, che ha eliminato, nell’articolo 2621 c.c., l’inciso ancorche’ oggetto di valutazioni, abbia determinato un effetto parzialmente abrogativo della fattispecie, ovvero se tale effetto non si sia verificato”.

5.1. L’ordinanza passa in rassegna gli arresti giurisprudenziali contrapposti, che hanno dato luogo al contrasto (peraltro interno alla medesima Quinta Sezione e concentrato nei primi mesi dopo l’entrata in vigore del nuovo testo normativo). Da un lato, si pongono le sentenze n. 33774 del 16/06/2015, ric. Crespi, Rv. 264868 e n. 6916 del 08/01/2016, ric. Banca Popolare dell’Alto Adige, Rv. 265492; dall’altro, la sentenza n. 890 del 12/11/2015, dep. 2016, ric. Giovagnoli, Rv. 265491.

Secondo le prime due pronunzie, che sottolineano la incidenza del dato letterale, la significativa eliminazione dell’inciso predetto ha determinato l’abrogazione parziale del reato di falso in bilancio con riferimento ai cosi’ detti falsi “valutativi” (o “estimativi”). Si sarebbe dunque verificata una vera e propria successione di leggi penali con effetto abrogativo e l’esplicito riferimento ai “fatti materiali” contenuto nell’articolo 2621 cod. civ. starebbe ulteriormente a provare che il legislatore ha voluto escludere dal perimetro della repressione penale le attestazioni conseguenti a processi intellettuali di carattere, appunto, valutativo.

Secondo la sentenza Giovagnoli (che, temporalmente, si interpone tra le due sopra citate e che predilige un criterio ermeneutico di tipo storico-sistematico), la soppressione dell’inciso deve ritenersi priva di conseguenze, atteso che esso era, gia’ nelle precedenti “versioni” della norma incriminatrice, da considerare non essenziale, in quanto semplicemente atto a meglio descrivere e specificare ad abundantiam la condotta di reato.

5.2. L’ordinanza in questione, che si interroga anche sugli effettivi confini concettuali del “falso valutativo”, ribadisce, infine, che le anomalie di bilancio, attraverso le quali – secondo la ipotesi di accusa, condivisa dai giudici del merito – si e’ consentito alla societa’ fallita di evitare l’adozione delle necessarie deliberazioni di messa in liquidazione e scioglimento, coinvolgono inevitabilmente la questione dell’interpretazione del nuovo dettato dell’articolo2621 c.c., in quanto, se si aderisse al primo orientamento giurisprudenziale, dovrebbe rilevarsi, immediatamente, da parte della Corte di cassazione, una causa di esclusione del reato, ai sensi dell’articolo 129 c.p.p., destinata ad emergere – in ogni caso – in sede di esecuzione ex articolo 673 c.p.p.

  1. Il Primo Presidente, con decreto del 4 marzo 2016, ha assegnato i ricorsi alle Sezioni Unite, destinando per la trattazione la odierna udienza.
  2. Risulta depositata successivamente al predetto provvedimento, in data 30 marzo 2016, altra sentenza della Quinta Sezione penale (n. 12793, ric. Beccari e altri, deliberata il 2 marzo scorso), che riprende e approfondisce il percorso argomentativo della sentenza Giovagnoli.
  3. Il Procuratore generale ha fatto pervenire memoria scritta, con la quale, argomentando articolatamente, conclude per il rigetto dei ricorsi.
  4. E’ stata irritualmente presentata dai difensori di (OMISSIS) ulteriore memoria difensiva, datata 31 marzo 2016 e quindi intempestiva.

CONSIDERATO IN DIRITTO

  1. Appare necessario, ancor prima di esaminare le censure specificamente proposte con i ricorsi del (OMISSIS) e dello (OMISSIS), affrontare il quesito per il quale i ricorsi stessi sono stati rimessi alle Sezioni Unite penali della Corte di cassazione.

Invero, pur se il delitto di bancarotta da reato societario non e’ stato oggetto di specifiche censure da parte dei difensori del (OMISSIS), non di meno, come correttamente si osserva nell’ordinanza di rimessione, l’accertamento della eventuale, parziale eliminazione della rilevanza penale del cosi’ detto falso valutativo nell’ambito della fattispecie criminosa di cui all’articolo 2621 cod. civ., comporterebbe, quale conseguenza della abolitio criminis, la immediata declaratoria di annullamento senza rinvio in parte qua, senza possibilita’ di ulteriori approfondimenti.

1.2. Il quesito, dunque, ben puo’ essere sintetizzato come segue: “se, in tema di false comunicazioni sociali, abbia ancora rilievo il falso valutativo”.

Si tratta di chiarire se la modifica con cui la L. 27 maggio 2015, n. 69, articolo 9, che ha eliminato, nell’articolo 2621 c.c., e nell’articolo 2622 c.c., (limitatamente alla ipotesi commissiva), l’inciso “ancorche’ oggetto di valutazioni”, abbia determinato, o non, un effetto parzialmente abrogativo della fattispecie.

  1. Allo scopo, e’ indispensabile, innanzitutto, richiamare i termini in cui il contrasto si e’ manifestato.
  2. La Quinta Sezione, con la sentenza n. 33774 del 16/06/2015, Crespi, Rv. 264868, ha affermato, in tema di bancarotta fraudolenta impropria da reato societario (L. Fall., articolo 223, comma 2, n. 1), che la nuova formulazione degli articoli 2621 e 2622 c.c., introdotta dalla L. 27 maggio 2015, n. 69, ha determinato – eliminando l’inciso “ancorche’ oggetto di valutazioni” ed inserendo il riferimento, quale oggetto anche della condotta omissiva, ai “fatti materiali non rispondenti al vero” – una vera e propria successione di leggi, con effetto abrogativo, limitato, ovviamente, alle condotte di falsa valutazione di una realta’ effettivamente sussistente. La medesima Sezione, poi, con la pronuncia n. 6916 del 08/01/2016, Banca Popolare dell’Alto Adige, Rv. 265492, ha ribadito l’affermazione di parziale abrogazione riferita ai reati di cui agli articoli 2621 e 2622 c.c., ritenendo, tuttavia, escluse da tale effetto abrogativo l’esposizione di crediti materialmente falsi, perche’ indicati con un valore difforme dal dato reale o perche’ descritti come certi, laddove, invece, essi avevano natura solo potenziale, in quanto oggetto di contenzioso.

D’altra parte, la stessa sentenza Crespi aveva escluso dall’effetto parzialmente abrogativo l’esposizione di crediti inesistenti perche’ originati da contratti fittizi, nonche’ l’esposizione di crediti concernenti i ricavi di competenza dell’esercizio successivo, cosi’ come l’esposizione di crediti relativi ad una fattura emessa a fronte di operazioni inesistenti; cio’ in quanto trattasi di ipotesi, tutte, riferibili a condotte sussumibili nella categoria dei falsi materiali e non gia’ di quelli cd. “valutativi”.

  1. Entrambe le sentenze sopra indicate valorizzano innanzitutto il dato testuale della nuova disposizione normativa, confrontato con il precedente testo di legge e con quello dell’articolo 2638 c.c. Esse assumono che “la scomparsa” dell’inciso “ancorche’ oggetto di valutazioni” (che, nel previgente testo, ineriva alla espressione “fatti materiali non rispondenti al vero”) appare altamente significativa, atteso che, oltretutto, il legislatore ha mantenuto fermo l’inciso nel successivo articolo 2638, cosi’ manifestando uno specifico intento, mirato ad escludere la rilevanza penale delle stesse nella sola ipotesi delle false comunicazioni sociali e non anche nel reato di ostacolo all’esercizio delle funzioni delle autorita’ pubbliche di vigilanza. Si osserva poi che la nuova versione non si limita alla semplice elisione del predetto inciso, ma richiede che i fatti materiali siano anche rilevanti (“fatti materiali rilevanti, non rispondenti al vero”). Non si tratterebbe, dunque, della semplice applicazione del criterio dell’ubi voluit dixit, atteso che proprio l’aggiunta dell’aggettivazione “rilevanti” vincola ulteriormente l’interprete ad una lettura piu’ restrittiva della portata della norma incriminatrice.

D’altra parte, si osserva che la recente modifica della fattispecie omissiva dell’articolo 2621 c.c., rende manifesta la volonta’ del legislatore di circoscrivere l’area del penalmente perseguibile alle sole condotte non integranti “falsi valutativi”. E cio’ si deduce, secondo le ricordate sentenze, anche dal fatto che il nuovo testo non fa piu’ riferimento ad “informazioni”, come nel previgente articolato (che recava: “ovvero omettono informazioni la cui comunicazione e’ imposta dalla legge”), ma, ancora una volta, a “fatti materiali rilevanti”, la cui comunicazione e’ imposta dalla legge e la cui omissione determina la punibilita’ della condotta. Dunque: l’espunzione delle “valutazioni” dalla disposizione normativa non puo’ non essere priva di significato, anche – e soprattutto perche’ la valutazione e’ connaturata al concetto di informazione, termine quest’ultimo che, non a caso, e’ stato espressamente sostituito nella nuova formulazione normativa.

4.1. Peraltro, secondo la tesi “abrogazionista”, ulteriore elemento indicativo, utilizzabile quale canone ermeneutico deriverebbe dalla “parallela” lettura della normativa in tema di frode fiscale (L. n. 516 del 1982, articolo 4, lettera t), e succ. L. n. 154 del 1991), nella quale l’inserimento della espressione “fatti materiali” rispondeva all’intento – pacificamente ammesso – di evitare conseguenze penali derivanti da “valutazioni”; e cio’ in ragione della possibilita’ di errore o di interpretazioni opinabili, in conseguenza della complessita’ della normativa tributaria. In particolare, poi, nella sentenza n. 6916 del 2016 si osserva che l’aggettivo “materiali”, riferito ai “fatti non rispondenti al vero”, oggetto delle false comunicazioni sociali, non va inteso semplicement come antitetico al termine “immateriali”, in quanto, in realta’, esso sottintende un’accezione riconducibile alla stretta oggettivita’ dei fatti, vale a dire ad un dato che, in quanto tale, e’ estraneo ai risultati valutativi. Si argomenta: il legislatore ha indicato i fatti penalmente rilevanti utilizzando l’espressione “fatti materiali rilevanti”. Dunque: “materialita’” e “rilevanza” dei fatti, a meno di non voler ritenere la precisazione normativa del tutto superflua, devono necessariamente stare a significare concetti distinti e non impropri sinonimi.

4.2. Conclusivamente si sostiene nella pronunzia da ultimo indicata che la soppressione dell’inciso piu’ volte ricordato “ha ridotto l’estensione incriminatrice della norma alle appostazioni contabili che attingono fatti economici materiali, escludendone quelle prodotte da valutazioni, pur se moventi da dati oggettivi”.

  1. Tra le due sentenze sopra citate (n. 33774 del 2015, Crespi e n. 6916 del 2016, Banca Alto Adige) si colloca la pronunzia di segno contrario, sempre della Quinta Sezione, n. 890 del 12/11/2015, dep. 2016, Giovagnoli, Rv. 265491, secondo la quale, viceversa, vi e’ piena sovrapponibilita’, quanto alle condotte punibili, tra il testo della disposizione di cui all’articolo 2621 c.c., nella sua formulazione antecedente alla novella del 2015, e quello successivo. Si sostiene che il falso “valutativo” e’ tuttora penalmente rilevante, nonostante la L. n. 69 del 2015, abbia eliminato dal testo della disposizione l’inciso “ancorche’ oggetto di valutazioni”. Invero l’esclusivo riferimento ai “fatti materiali”, oggetto di falsa rappresentazione, non ha avuto l’effetto di escludere dal perimetro della repressione penale gli enunciati valutativi, i quali, viceversa, ben possono esser definiti falsi, quando si pongano in contrasto con criteri di valutazione normativamente determinati, ovvero tecnicamente indiscussi.

5.1. Secondo l’assunto di tale sentenza, la precedente fisionomia della fattispecie delle false comunicazioni sociali ha subito un complessivo e significativo riordino; invero, a fronte delle due distinte, precedenti ipotesi (la prima, prevista dall’originario articolo 2621 cod. civ., in termini di reato contravvenzionale; la seconda come delitto di danno), sono state configurate distinte tipologie di reato, a seconda che si tratti di societa’ non quotate (odierno articolo 2621 c.c.) o quotate (odierno articolo 2622 c.c.). Si tratta, in entrambi i casi, di delitti di pericolo, connotati da dolo specifico e punibili di ufficio.

Si fa poi menzione della introduzione di due nuovi articoli, e cioe’ gli articoli2621 bis e 2621 ter c.c.. L’articolo 2621 bis, prevede, al comma 1, una pena ridotta (reclusione da sei mesi a tre anni), nel caso in cui i fatti di cui all’articolo 2621, siano di lieve entita’, “tenuto conto della natura e delle dimensioni della societa’ e delle modalita’ o degli effetti della condotta”; il medesimo regime sanzionatorio e’ previsto dal comma 2, per i fatti di cui allo stesso articolo 2621 c.c. – salvo che costituiscano piu’ grave reato – se riguardanti societa’ che non superino i limiti indicati dal Regio Decreto 16 marzo 1942, n. 267, articolo 1, comma 2, stabilendo che, in ipotesi siffatta, la procedibilita’ e’ a querela da parte della societa’, dei soci, dei creditori o degli altri destinatari della comunicazione sociale. L’articolo 2621 ter, stabilisce, invece, la non punibilita’, ex articolo 131 bis c.p., per particolare tenuita’ del fatto, qualora il giudice valuti “in modo prevalente, l’entita’ dell’eventuale danno cagionato alla societa’, ai soci o ai creditori conseguente ai fatti di cui agli articoli 2621 e 2621 bis”.

5.2. Dopo un sintetico excursus storico, la sentenza Giovagnoli, in un’ottica “prospettica” della volonta’ della legge (eventualmente non coincidente con la intenzione del legislatore), affronta il problema in chiave strettamente sistematica, muovendo, comunque, dal canone ermeneutico di riferimento, individuato nell’articolo 12 “preleggi”. Al proposito, si afferma che l’inciso “ancorche’ oggetto di valutazioni” si sostanzia in una proposizione di natura tipicamente concessiva, introdotta da congiunzione “ancorche’”, notoriamente equivalente ad altre tipiche e similari (“sebbene”, “benche’”, “quantunque”, “anche se” ecc.). Le si attribuisce, conseguentemente, finalita’ “ancillare”, con funzione esplicativa e chiarificatrice del nucleo sostanziale della proposizione principale. In altre parole, si sostiene che il legislatore dell’epoca volle semplicemente significare che, nei “fatti materiali” oggetto di esposizione nei bilanci, nelle relazioni o nelle altre comunicazioni sociali, dirette ai soci o al pubblico, erano (sono) da intendersi ricompresi anche quelli “oggetto di valutazione”. Si tratterebbe, dunque, di una mera specificazione/chiarificazione, la cui soppressione lascerebbe intatta la portata della norma incriminatrice.

5.3. D’altra parte, si sostiene nella sentenza in questione, “materialità” e “rilevanza” dei fatti economici da rappresentare in bilancio sono semplicemente connotazioni gemelle ed esprimono l’esigenza della corretta informazione cui e’ tenuto il redattore. I termini predetti non andrebbero assunti nella loro accezione comune, in quanto si tratta di espressioni del linguaggio contabile, derivanti dalla terminologia anglosassone (in un’ottica di adeguamento, anche lessicale, alla normativa Europea e sovrannazionale in genere).

“Materialità”, pertanto, altro non vuol significare che essenzialita’, nel senso che, nella redazione del bilancio, devono essere riportati (e valutati) solo dati informativi essenziali, cioe’ significativi ai fini dell’informazione: quelli utili e necessari per garantire la “rappresentazione veritiera e corretta della situazione patrimoniale, finanziaria ed economica della societa’ e del risultato economico di esercizio” (articolo 2423 c.c.).

“Rilevanza”, a sua volta, e’ concetto relativo (di origine comunitaria: cfr. articolo 2, punto 16, della Direttiva 2013/34/UE, relativa ai bilanci di esercizio, ai bilanci consolidati ed alle relative relazioni di talune tipologie di imprese, direttiva recepita nel nostro ordinamento con decreto legislativo 14/08/2015, n. 136, entrato in vigore il 16/09/2015), in quanto essa deve essere apprezzata in rapporto alla funzione precipua dell’informazione, cui sono preordinati i bilanci e le altre comunicazioni sociali, dirette ai soci ed al pubblico. Vale a dire che l’informazione, per essere giudicata corretta, non deve essere tale da influenzare, in modo distorto, le decisioni dei destinatari, non deve, cioe’, essere ingannevole e fuorviante. Dunque, l’informazione e’ rilevante “quando la sua omissione o errata indicazione potrebbe ragionevolmente influenzare le decisioni prese dagli utilizzatori sulla base del bilancio dell’impresa”, con la precisazione che “la rilevanza delle singole voci e’ giudicata nel contesto di altre voci analoghe”.

5.4. D’altronde, la L. 27 maggio 2015, n. 69, recante “Disposizioni in materia di delitti contro la pubblica amministrazione, di associazioni di tipo mafioso e di falso in bilancio”, si iscrive nell’ambito di una “strategia anticorruzione”, atteso che proprio il falso in bilancio viene considerato come un “reato-spia” dei fenomeni corruttivi. Invero, attraverso l’appostazione contabile di false fatturazioni vengono costituiti i cc.dd. “fondi neri”, che ben possono essere destinati al pagamento di tangenti o alla consumazione di altre attivita’ contra legem. Escludere dal novero dei falsi punibili quello valutativo significherebbe frustrare le finalita’ della legge, volte a perseguire ogni illecita attivita’, preordinata ad alimentare o ad occultare il fenomeno della corruzione.

5.5. Quanto al fatto che l’inciso piu’ volte ricordato (“ancorche’ oggetto di valutazione”) sia stato conservato nel corpo dell’articolo 2638 c.c., mentre e’ stato eliminato dall’articolo 2621, la sentenza n. 890 del 2016 contesta in radice la lettura proposta dalle sentenze nn. 33774/2015 e 6916/2016 (ubi voluit dixit), trattandosi di due fattispecie (articoli 2621 e 2638) non comparabili per natura ed obiettivita’ giuridica e per le finalita’, non omologhe, che perseguono. A voler seguire l’opposta tesi, si profilerebbe una opzione interpretativa probabilmente incostituzionale, in quanto la redazione del medesimo bilancio, recante falsi valutativi, sarebbe penalmente irrilevante se il documento e’ diretto ai soci ed al pubblico e sarebbe, viceversa, penalmente rilevante se rivolto alle autorita’ pubbliche di vigilanza.

  1. Come premesso, dopo il decreto del Primo Presidente, che assegnava il ricorso alle Sezioni Unite e prima della odierna udienza, e’ stata depositata il 30 marzo 2016 altra sentenza, deliberata dalla Quinta Sezione in data 2 marzo (ricorrenti: Beccari e altri), che si allinea con la pronunzia Giovagnoli, ulteriormente argomentando sul punto. Dopo aver riassunto i termini della questione e dopo aver ricordato le contrapposte pronunzie, la sentenza prende posizione nel senso della permanente rilevanza penale del falso valutativo, osservando che “negare la possibilita’ che il falso possa realizzarsi mediante valutazioni significa negare lo stesso veicolo con il quale si realizza il falso, posto che il bilancio si struttura di per se’ necessariamente anche in un procedimento valutativo, i cui criteri sono indicati dalla legge, come chiaramente evincibile dal disposto di cui all’articolo 2426 c.c.”. Viene tuttavia precisato che non qualsiasi difformita’ dal modello legale di bilancio determina – quasi si tratti di un meccanismo automatico – la falsita’ del bilancio stesso. Si deve, viceversa, fare riferimento alla idoneita’ del dato falsamente esposto ad indurre concretamente in errore il lettore del documento “in una dimensione di significativa valorizzazione della qualita’ del falso”. In cio’, d’altra parte, e non in altro, consisterebbe quel requisito della “rilevanza” preteso dal legislatore del 2015.

6.1. Quanto all’aggettivazione “materiali” (riferita a “fatti”), la sentenza de qua concorda con quanto sostenuto nella sentenza Giovagnoli, sostenendo che si tratta di espressione priva di un reale valore innovativo e atta ad “escludere dalla sfera della punibilita’ le sole opinioni di natura soggettiva, i pronostici, le previsioni, i progetti, le dichiarazioni di intenti ecc.”.

6.2. Non significativa, viceversa, per la questione in discussione appare altra sentenza della Quinta Sezione (n. 37570 del 08/07/2015, Fiorini, Rv. 265020), la quale, pur affermando la sussistenza di un rapporto di continuita’ normativa della nuova fattispecie di cui all’articolo 2622 c.c., con quella previgente (e la conseguente successione di leggi penali ai sensi dell’articolo 2 c.p.), fa riferimento alla condotta di mancata esposizione in bilancio di poste attive effettivamente esistenti nel patrimonio sociale e, dunque, a una ipotesi di falso omissivo certamente non valutativo, ma consistente in una vera e propria preterizione della annotazione di una voce di bilancio.

  1. Allo scopo di affrontare – con la doverosa sistematicita’ – la problematica sottoposta all’esame delle Sezioni Unite, e’ necessario procedere ad una, sia pur sintetica, ricognizione della stratificazione normativa che, nel corso degli anni, ha connotato la fattispecie del falso in bilancio, concentrando, innanzitutto, l’attenzione sull’adozione della formula verbale utilizzata per descrivere l’oggetto della condotta di falsificazione.

7.1. Nel codice di commercio del 1882 (Zanardelli) era utilizzata l’espressione “fatti falsi”; il legislatore del 1942 preferi’ indicare la falsita’ con una litote (“fatti non rispondenti al vero”), espressione rimasta in vigore sino al 2002, quando, con il Decreto Legislativo n. 61 del 2002, fu sostituita da “fatti materiali non rispondenti al vero, ancorche’ oggetto di valutazioni” (adottata, come si e’ visto, anche nella formulazione del delitto di ostacolo all’esercizio delle funzioni di vigilanza, di cui all’articolo 2638 c.c.); infine, la L. n. 69 del 2015, ha preferito “fatti materiali rilevanti non rispondenti al vero”, eliminando l’inciso “ancorche’ oggetto di valutazioni” ed aggiungendo l’aggettivo “rilevanti” al sintagma “fatti materiali”. La legge da ultimo evocata ha anche eliminato il riferimento alla omissione di “informazioni” la cui comunicazione sia imposta per legge, espressione sostituita, a sua volta, dalla previsione della omissione della comunicazione (ancora una volta) di “fatti materiali” sulla situazione economica, patrimoniale o finanziaria, quando tale comunicazione sia dovuta per legge.

7.2. Per altro, finalita’ dichiarata di tale ultimo intervento legislativo e’ stata quella di ripristinare una significativa risposta sanzionatoria ai fatti di falsita’ in bilancio, ritenendosi non adeguato l’assetto repressivo introdotto dal Decreto Legislativo n. 61 del 2002, connotato dalla introduzione, accanto alla ipotesi delittuosa (articolo 2622), di una figura contravvenzionale (articolo2621 c.c., nella precedente versione, con conseguente, considerevole, abbreviazione del termine di prescrizione), dalla procedibilita’ a querela (prevista, nell’ipotesi delittuosa, in relazione alle societa’ non quotate, ai sensi dell’articolo 2622, comma 1), oltre che da scelte tecniche quantomeno innovative, quali il sistema delle “soglie di rilevanza”, scandite da precisi riferimenti percentuali, al di sotto delle quali la falsita’ realizzata diveniva, per previsione legislativa, “quantita’ trascurabile”.

7.3. Ebbene, la riforma introdotta dalla L. 27 maggio 2015, n. 69, ha perseguito il dichiarato fine di tendere al ripristino della “trasparenza societaria”, eliminando la precedente bipartizione tra contravvenzione di pericolo (articolo 2621, nella versione precedente) e delitto di danno (articolo 2622) e sostituendola con la previsione di una fattispecie “generale” delittuosa (di pericolo) per le societa’ non quotate (articolo 2621), e con la introduzione di una ipotesi “speciale” (sempre delittuosa), concernente le false comunicazioni sociali delle societa’ quotate, punita piu’ severamente (articolo2622 c.c.).

Vengono poi previsti un’ipotesi “minore” ed un caso di irrilevanza penale (articoli 2621 bis e 2621 ter c.c.).

Risultano cosi’ significativamente rideterminati tanto la condotta punibile, quanto l’elemento psicologico che deve sostenerla; viene poi ripristinata la procedibilita’ d’ufficio (salvo che per le falsita’ minori, realizzate in seno a “societa’ che non superano i limiti indicati dal Regio Decreto 16 marzo 1942, n. 267, articolo 1, comma 2”, che, ai sensi dell’articolo 2621 bis c.c., comma 2, rimangono procedibili a querela). Sono state inoltre eliminate le “soglie di rilevanza” ed e’ stata, infine, inasprita la risposta sanzionatoria (con conseguente applicabilita’ di misure cautelari – coercitive ed interdittive – ed adottabilita’ di mezzi di ricerca della prova particolarmente penetranti, quali le intercettazioni telefoniche e ambientali).

7.4. All’esito del ricordato intervento riformatore, la condotta, pertanto, risulta essere quella di colui (amministratore, direttore generale, dirigente preposto alla redazione dei documenti contabili societari, sindaco o liquidatore) il quale, “nei bilanci, nelle relazioni o nelle altre comunicazioni sociali dirette ai soci o al pubblico, previste dalla legge”, espone “fatti materiali rilevanti non rispondenti al vero”, ovvero omette “fatti materiali rilevanti, la cui comunicazione e’ imposta dalla legge, sulla situazione economica, patrimoniale o finanziaria della societa’ o del gruppo al quale la stessa appartiene, in modo concretamente idoneo ad indurre altri in errore”.

In particolare, e’ da notare che i “fatti materiali” (senza ulteriore specificazione) costituiscono l’oggetto della sola condotta (commissiva) di esposizione, contemplata dall’articolo 2622 c.c.; viceversa, i fatti materiali “rilevanti” costituiscono l’oggetto tipico dell’omessa esposizione nel medesimo articolo 2622 c.c., e rappresentano anche l’oggetto della condotta tipica – sia nella forma commissiva, sia nella forma omissiva – nell’articolo 2621 c.c.

Scomparse le ipotesi contravvenzionali, il delitto di cui all’articolo 2622 c.c., (relativo alle societa’ che emettono strumenti finanziari ammessi alla negoziazione nel mercato regolamentato italiano o di altro paese aderente alla Unione Europea), punito con pena ben piu’ elevata rispetto al passato (cosi’ come il reato-base ex articolo 2621), si e’ trasformato da fattispecie di danno in fattispecie di pericolo, e come reato di pericolo e’ stata plasmata la fattispecie ex articolo 2621 c.c. Cio’ non toglie, ovviamente, che la alterazione del bilancio ben possa causare anche un immediato danno (si pensi ad esempio al dettato dell’articolo 2433 c.c., per il quale, come e’ noto, non possono essere pagati dividendi se non per utili realmente conseguiti). Sono poi state abolite le soglie di punibilita’, ma e’ stato introdotto il requisito della “rilevanza” della alterazione di bilancio. Per quel che riguarda l’elemento soggettivo, l’avverbio “consapevolmente” precisa e delimita ulteriormente il dolo, che si atteggia certamente come diretto. Sul versante processuale, l’aumento della pena edittale comporta la possibilita’ di far ricorso a piu’ incisivi e penetranti mezzi di ricerca della prova (in pratica, alle intercettazioni).

Puo’ allora dirsi che ratio della norma e’ – riconoscibilmente – la tutela tanto della veridicita’, quanto della completezza (che, d’altronde, della veridicita’ costituisce un presupposto) dell’informazione societaria, sempre avendo come referente finale le potenziali ripercussioni negative delle falsita’ sulle sfere patrimoniali della societa’, dei soci, dei creditori e del pubblico.

  1. Come si e’ visto, le quattro sentenze sopra illustrate (nn. 33774/2015, Crespi; 890/2015, dep. 2016, Giovagnoli; 6916/2016, Banca Popolare dell’Alto Adige; 12793/2016, Beccari) concentrano la loro attenzione, innanzitutto, sul dato letterale della norma, operando, in particolare, un’analisi comparativa tra il testo attualmente vigente (dopo la modifica operata dallalegge 69/2015) e quello immediatamente precedente. Grande rilievo viene attribuito alla soppressione dell’inciso “ancorche’ oggetto di valutazioni”, nonche’ alla sostituzione, con riferimento alla condotta omissiva, del termine “informazioni”.

Al proposito, va subito detto che eccessiva appare l’enfatizzazione di tale strumento ermeneutico, atteso che l’interpretazione letterale altro non e’ che un (indispensabile) “passaggio” funzionale verso la completa ed esaustiva intelligenza del comando legislativo. E invero, e’ certamente corretto l’assunto per il quale, in base all’articolo 12 “preleggi”, “nell’applicare la legge, non si puo’ ad essa attribuire altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole, secondo la connessione di esse, e dalla intenzione del legislatore”; tuttavia non puo’ certo negarsi che proprio l’intenzione del legislatore deve essere “estratta” dall’involucro verbale (“le parole”), attraverso il quale essa e’ resa nota ai destinatari e all’interprete. Che poi detta intenzione non si identifichi con quella dell’Organo o dell’Ufficio che ha predisposto il testo, ma vada ricercata nella volonta’ statuale, finalisticamente intesa (come correttamente sostiene la sentenza Giovagnoli) e’ fuor di dubbio.

8.1. Quando, come nel caso in esame, un nuovo testo normativo prende il posto di uno precedente, operando, non un’aggiunta o una sostituzione di un’espressione verbale ad un’altra, ma una mera soppressione di una frase (peraltro, sintatticamente subordinata), e’ di tutta evidenza che uno sforzo ermeneutico che si arrestasse, appunto, all’involucro verbale e si risolvesse in un’analisi lessicale non potrebbe dare risultati soddisfacenti. E invero, poiche’ sarebbe paradossale chiedersi quale sia il significato proprio di parole soppresse, non resta che interrogarsi sul significato della frase come risulta dopo la soppressione. Nessuna norma puo’ essere presa in considerazione isolatamente, ma va valutata come componente di un “insieme”, tendenzialmente unitario e le cui “parti” siano reciprocamente coerenti.

8.2 Se dunque, per una corretta interpretazione delle norme, non e’ sufficiente verba earum tenere, sed vim ac potestatem, allora appare necessario, concentrandosi sul caso in scrutinio, soffermarsi, principalmente, a riflettere, da un lato, sul complessivo impianto dell’assetto societario come tracciato nel codice civile (e in parte ridisegnato dalla L. n. 69 del 2015), in una visione logico-sistematica della materia, dall’altro, sulle conseguenze derivanti dall’una o dall’altra interpretazione, non essendo dubbio che la valutazione di tali conseguenze costituisce una sorta di controprova della (correttezza della) necessaria interpretazione teleologica.

  1. Orbene, in ragione di quanto sopra premesso, sembra opportuno, anziche’ partire dalla esegesi testuale (e comparativa) degli articolati normativi che si sono succeduti nel tempo, affrontare il problema, innanzitutto, sotto l’aspetto sistematico, vale a dire in una visione – organica e tendenzialmente unitaria e coerente – dell’intera materia societaria in tema di bilancio e del sottosistema delle norme penali poste a tutela della corretta redazione del predetto documento, partendo dal presupposto – non contestabile – che l’oggetto della tutela penale e’ da individuarsi nella “trasparenza societaria”. Il codice civile regolamenta la redazione del bilancio nella Sezione Nona, Capo Quinto, Titolo Quinto, Libro Quinto. Vengono in particolare rilievo gli articoli da2423 a 2427. Il legislatore non solo si fa carico di indicare la struttura e il contenuto del bilancio, ma detta i criteri di redazione dello stesso e – per quel che in questa sede maggiormente interessa – impone canoni di valutazione e indica quale debba essere il contenuto della nota integrativa. Di talche’ non puo’ che sottoscriversi, alla luce del descritto impianto normativo, l’affermazione in base alla quale il bilancio, in tutte le sue componenti (stato patrimoniale, conto economico, rendiconto finanziario, nota integrativa), e’ un documento dal contenuto essenzialmente valutativo; un documento in cui confluiscono dati certi (es. il costo di acquisto di un bene), dati stimati (es. il prezzo di mercato di una merce) e dati congetturali (es. le quote di ammortamento). Il bilancio e’ dunque un documento composito e complesso, la cui lettura e intelligenza presuppone una specifica preparazione, che abbraccia la conoscenza dei criteri (tanto legali, quanto tecnici) vigenti per la sua redazione. Il redattore di tale documento, a sua volta, non puo’ non operare valutazioni. Si tratta peraltro di valutazioni “guidate” dai suddetti criteri. Vale a dire che egli necessariamente deve effettuare una stima ponderale delle singole componenti del bilancio, attribuendo – alla fine un valore in denaro a ciascuna di esse. Solo la “traduzione” in valuta (oggi in Euro: articolo 2423 c.c., u.c.) consente la comparazione di entita’ eterogenee, quali possono essere, ad esempio, un immobile, un macchinario o una materia prima. E tale reductio ad unitatem e’ (ritenuta) indispensabile per descrivere lo “stato di salute” di un operatore economico. Invero non si puo’ seriamente dubitare che la funzione del bilancio sia essenzialmente una funzione informativa/comunicativa. Attraverso il bilancio, si forniscono, infatti, notizie sulla consistenza e sulle prospettive di un’azienda e cio’, evidentemente, non solo a garanzia dei diretti (e attuali) interessati, vale a dire i soci e i creditori, ma anche a tutela dei futuri ed ipotetici soggetti che potrebbero entrare in contatto con la predetta azienda. Si pensi solo, a titolo di esempio, a una banca richiesta di aprire una linea di credito o ai potenziali investitori, eventualmente interessati all’acquisto di azioni, obbligazioni e quant’altro. Ebbene, i destinatari della informazione (i lettori del bilancio) devono essere posti in grado di effettuare le loro valutazioni, vale a dire di valutare un documento, gia’ in se’ di contenuto essenzialmente valutativo. Ma tale “valutazione su di una valutazione” non sarebbe possibile (ovvero sarebbe assolutamente aleatoria) se non esistessero criteri – obbligatori e/o largamente condivisi – per eseguire tale operazione intellettuale. Tali criteri esistono e sono, in gran parte, imposti dallo stesso legislatore nazionale (cfr. i gia’ citati articolo 2423 c.c. e ss.), dalle direttive Europee (cfr. Direttiva 2013/34/UE, relativa ai bilanci di esercizio ai bilanci consolidati e alle relative relazioni di talune tipologie di imprese, recepita dal Decreto Legislativo 18 agosto 2015, n. 139), ovvero sono frutto della elaborazione dottrinale nelle materie di competenza (e sono ufficializzate ad opera di soggetti “certificatori”: Organismo italiano di contabilita’ e, a livello sovrannazionale, International Financial Reporting Standard).

9.1. In sintesi: tutta la normativa civilistica presuppone e/o prescrive il momento valutativo nella redazione del bilancio, anzi ne detta (in gran parte) i criteri, delineando un vero e proprio metodo convenzionale di valutazione. Basti riflettere sulla esistenza di voci quali “ammortamenti”, “svalutazioni”, “crediti”, “partecipazioni”, “costi di sviluppo” ecc.

D’altra parte, l’articolo 2423 c.c., al comma 3, cita esplicitamente, accanto alla “rilevazione”, la “valutazione” dei dati da riportare in bilancio. Il medesimo articolo, poi, nell’imporre al redattore del bilancio la elaborazione di un documento che rappresenti “in modo veritiero e corretto” tanto la situazione patrimoniale e quella finanziaria della societa’, quanto il risultato economico dell’esercizio, consente, inoltre, da un lato (comma 3), di trascurare “i dati irrilevanti” ai fini della predetta rappresentazione, dall’altro (comma 4), di discostarsi, “in casi eccezionali”, dai criteri valutativi fissati per legge (negli articoli seguenti), se cio’ possa essere di ostacolo proprio a quella esposizione veritiera e corretta dell’assetto societario. Ma, e’ il caso di notare subito, tale deroga non solo deve essere giustificata dalla situazione contingente, ma deve trovare esauriente spiegazione nella nota integrativa (articolo 2427 c.c.), la quale ha la funzione di “motivare la deroga e deve indicarne l’influenza sulla rappresentazione della situazione patrimoniale, finanziaria e del risultato economico”. Inoltre, “gli eventuali utili derivanti dalla deroga devono essere iscritti in una riserva non distribuibile, se non in misura corrispondente al valore recuperato”. Se dunque la nota integrativa rappresenta la chiave di lettura del bilancio e la esplicitazione dei criteri (e della eventuale deroga a tali criteri) di redazione dello stesso, non puo’ esservi alcun dubbio sulla natura prevalentemente (e quasi esclusivamente) valutativa del predetto documento contabile.

E dunque, “sterilizzare” il bilancio con riferimento al suo contenuto valutativo significherebbe negarne la funzione e stravolgerne la natura.

9.2. Una volta chiarito cio’, appare evidente la fallacia della opzione ermeneutica che intende contrapporre “i fatti materiali”, da esporsi in bilancio, alle valutazioni, che pure nel bilancio compaiono; e cio’ per l’ottima ragione che un bilancio non contiene “fatti”, ma “il racconto” di tali fatti. Vale a dire: un fatto, per quanto “materiale”, deve comunque, per trovare collocazione in un bilancio, essere “raccontato” in unita’ monetarie e, dunque, valutato (o se si vuole apprezzato). Solo cio’ che e’ gia’ espresso in Euro (la giacenza di cassa, il saldo di un conto corrente bancario) non necessita di tale conversione, non occorrendo omologare cio’ che corrisponde alla unita’ di misura prevista dal legislatore.

9.3. Per la tesi abrogazionista, “materiale” sarebbe sinonimo di “oggettivo” (e comunque di “a-valutativo”). Cosi’ certamente non e’, per le ragioni che si sono appena esposte. Si puo’ anche far ricorso a un ulteriore dato testuale, atteso che l’invariato (e gia’ menzionato) articolo 2638 c.c. (“ostacolo all’esercizio delle funzioni delle autorita’ pubbliche di vigilanza”) prevede esplicitamente la condotta del soggetto attivo che esponga “fatti materiali non rispondenti al vero, ancorche’ oggetto di valutazioni, sulla situazione economica, patrimoniale o finanziaria ecc.”. Dunque, per il legislatore, un “fatto materiale” ben puo’ essere (e quasi sempre e’) oggetto di valutazione in sede di bilancio.

D’altra parte, gia’ sotto la vigenza della precedente normativa, questa Corte di legittimita’ non aveva mai dubitato della valenza meramente concessiva del sintagma “ancorche’ oggetto di valutazioni”. Conseguentemente il reato di cui all’articolo 2638 c.c., fu ritenuto (con la sentenza Sez. 5, n. 44702 del 28/09/2005, Mangiapane, Rv. 232535) sussistente anche nel caso in cui la falsita’ fosse contenuta in giudizi estimativi delle poste di bilancio, “atteso che dal novero dei “fatti materiali” indicati dalla attuale norma incriminatrice come possibile oggetto di falsita’ vanno escluse soltanto le previsioni o congetture prospettate come tali, vale a dire quali apprezzamenti di carattere squisitamente soggettivo e l’espressione, riferita agli stessi fatti, “ancorche’ oggetto di valutazioni”, va intesa in senso concessivo, per cui, in ultima analisi, l’oggetto della vigente norma incriminatrice viene a corrispondere a quello della precedente, che prevedeva come reato la comunicazione all’autorita’ di vigilanza di fatti non corrispondenti al vero”. Nel caso allora in esame, invero, la Quinta Sezione annullo’ la decisione di merito che aveva escluso la configurabilita’ del reato in una ipotesi in cui la falsita’ era stata ravvisata nella dolosa sopravvalutazione della posta di bilancio di un istituto bancario, relativa ai crediti vantati nei confronti della clientela per avvenuta concessione di mutui e risultati, in effetti, di difficile o impossibile recupero (nello stesso senso, piu’ recentemente, Sez. 6, n. 17290 del 13/01/2006, Marino, Rv 234533; Sez. 5, n. 49362 del 07/12/2012, Banco, in motivazione).

La norma (articolo 2638 c.c.) e’ rimasta invariata, per cui delle due l’una: o la cancellazione dal testo dell’articolo 2621 c.c., della espressione “ancorche’ oggetto di valutazioni” comporta che essa sia considerata tamquam non esset anche nell’articolo 2638, (ma non si vede come cio’ possa essere), ovvero, considerata la natura meramente concessiva/specificativa del sintagma e dunque – sostanzialmente – la sua superfluita’, la scomparsa delle ricordate quattro parole dal testo dell’articolo 2621 c.c. (e dall’articolo 2622, e la sua non riproduzione nell’articolo 2621 bis) non comporta una diversa (rispetto a quella previgente) configurazione della norma incriminatrice. D’altronde, la giurisprudenza antecedente alla riforma del 2015 era costante nel ritenere la sostanziale superfluita’ dell’inciso in questione (oltre alle sentenze sopra citate, si veda, sia pure implicitamente, Sez. 5, n. 8984 del 18/05/2000, Patrucco, Rv 217767; Sez. 5, n. 40833 del 07/07/2004, Preantoni, Rv 230258). Andrebbe allora chiarito perche’ mai la sua soppressione, nella nuova formulazione, dovrebbe in qualche modo vincolare l’interprete, quando (in precedenza) la sua presenza non lo vincolava. Quanto al parallelo con la normativa fiscale, e’ agevole replicare, condividendo autorevole dottrina, che detto “accostamento” ha perso significato, atteso che, gia’ quando entro’ in vigore la riforma del falso in bilancio introdotta dalDecreto Legislativo 11 aprile 2002, n. 61 (poi modificato dalla L. 28 dicembre 2005, n. 262, articolo 30), la L. 7 agosto 1982, n. 516, articolo 4, lettera t), era stato sostituito dal Decreto Legislativo 10 marzo 2000, n. 74, articolo 7, comma 2, (“Nuova disciplina dei reati in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto, a norma della L. 25 giugno 1999, n. 205, articolo 9”), che ha sancito, anche in campo tributario, la rilevanza penale delle valutazioni che differiscano di oltre il 10 per cento rispetto a quelle corrette.

9.4. Una volta chiarita la irrilevanza della soppressione dell’inciso, perde rilievo, a sua volta, anche la questione su cosa si debba intendere per “materialita’” del fatto, espressione atecnica che non puo’ essere intesa come antitetica alla soggettivita’ delle valutazioni. Infatti, in bilancio vanno certamente esposti tutti quei “fatti” passibili di “traduzione” in termini contabili e monetari e, dunque, gli elementi di composizione del patrimonio aziendale, come valutati dal redattore del bilancio secondo i parametri – legali e scientifici – che lo stesso deve rispettare.

E, sotto tale aspetto, non puo’ non convenirsi con l’assunto delle sentenze Giovagnoli e Beccari, per le quali, se si accedesse alla tesi della non punibilita’ del falso valutativo, si sarebbe in pratica al cospetto di una interpretatio abrogans del delitto di false comunicazioni sociali e il corpus normativo denominato “Disposizioni in materia di delitti contro la pubblica amministrazione, di associazioni di tipo mafioso e di falso in bilancio” finirebbe per presentare una significativa falla nella sua trama costitutiva, prestandosi a una lettura depotenziata proprio nella parte che dovrebbe essere una delle piu’ qualificanti: quella della trasparenza aziendale, quale strumento di contrasto alla economia sommersa e all’accumulo di fondi occulti, destinati non raramente ad attivita’ corruttive.

9.5. Per altro, nel panorama giurisprudenziale di legittimita’, la figura del falso valutativo e’ solidamente incardinata e i suoi confini (oltre che il suo contenuto) sono sufficientemente tracciati. La giurisprudenza della Suprema Corte, ed in particolare quella della Quinta Sezione penale, ha gia’ avuto modo di chiarire che e’ certamente possibile ipotizzare la falsita’ di enunciati valutativi, sia in tema di falso ideologico ex articolo 479 c.p., sia in tema di falsa perizia ex articolo 373 c.p. Analoghe statuizioni, come si e’ visto, erano state enunciate anche in tema di false comunicazioni sociali, alla luce della normativa previgente (per tutte si puo’ ricordare la gia’ menzionata sentenza Patrucco del 2000, per la quale, nell’espressione “fatti non rispondenti al vero”, vanno ricomprese anche “le stime di entita’ economiche non precisamente calcolabili”). E cio’ quando la attestazione sia resa in un contesto implicante la necessaria accettazione di parametri di valutazione normativamente determinati o tecnicamente indiscussi (ex plurimis, Sez. 5, n. 15773 del 24/01/2007, Marigliano, Rv. 236550; Sez. 5, n. 7067 del 12/01/2011, Sabolo, Rv. 249836; Sez. 5, n. 35104 del 22/06/2013, Baldini, Rv 25712; Sez. 6, n. 8588 del 06/12/2000, dep. 2001, Ciarletta, Rv. 219039; Sez. 1, n. 45373 del 10/06/2013, Capogrosso, Rv. 257895).

9.6. Si sostiene in particolare nella sentenza Andronico (Sez. 5, n. 3552 del 09/02/1999, Rv. 213366) che la valutazione – se fa obbligatorio riferimento a criteri vincolanti e predeterminati – e’ un modo di rappresentare la realta’ non dissimile dalla descrizione o dalla constatazione, sebbene l’ambito di una sua possibile qualificazione in termini di verita’ o di falsita’ sia variabile e risulti, di regola, meno ampio, dipendendo “dal grado di specificita’ e di elasticita’ dei criteri di riferimento”. Nella sentenza in questione viene in sostanza operata una equiparazione tra la falsita’ di un enunciato valutativo fondato su false premesse e la falsita’ di un enunciato (parimenti valutativo) che sia in aperta contraddizione con criteri di valutazione indiscussi e indiscutibili. Con la sentenza Marigliano, poi (Sez. 5, n. 15773 del 24/01/2007, Rv. 236550), in tema di “falsita’ medica”, la Corte ha avuto modo di chiarire che la diagnosi compiuta dal sanitario ben puo’ configurarsi come errata o addirittura falsa (a seconda dell’elemento psicologico che la supporta), in quanto tale valutazione e’ elaborata in contesti implicanti l’accettazione di parametri valutativi normativamente determinati o tecnicamente certi; e dunque sara’ falsa (ovvero errata) se da tali parametri si discosti; cio’ in quanto, laddove il giudizio faccia riferimento a criteri predeterminati, esso e’ certamente un modo di rappresentare la realta’, analogo alla descrizione o alla constatazione. Conseguentemente puo’ dirsi falso l’enunciato valutativo che contraddica criteri indiscussi o indiscutibili e/o sia fondato su premesse contenenti false attestazioni. Il predetto orientamento, peraltro, appare autorevolmente condiviso da una recente sentenza di queste Sezioni Unite (n. 51824 del 25/09/2014, Giudici, non mass. sul punto), che, a seguito della sentenza Corte cost. n. 163 del 2014, citando puntualmente la giurisprudenza sopra ricordata, afferma che “le norme positive ammettono talora la configurabilita’ del falso ideologico, anche in enunciati valutativi e qualificatori, come avviene, ad esempio, nell’articolo 2529 cod. civ. (valutazione esagerata dei conferimenti e degli acquisti delle societa’)”, quando, si fa “riferimento a criteri predeterminati”. In tali casi, “anche in relazione ai giudizi di natura squisitamente tecnico-scientifica, puo’ essere svolta una valutazione in termini di verita’ – falsita’”. Particolare rilievo assume la recente sentenza Sez. F., n. 39843 del 04/08/2015, Di Napoli, Rv. 264364, in tema di falso ideologico in atto pubblico e in particolare di provvedimenti urbanistici di tipo abilitativo e con riferimento alla omessa indicazione – da parte di funzionari e dirigenti comunali – della reale consistenza delle opere, della loro incidenza sulla realta’ territoriale e della normativa correttamente applicabile nel caso concreto. La Corte opera, innanzitutto, una importante distinzione tra due ipotesi. Nella prima, il pubblico ufficiale, chiamato ad esprimere un giudizio, e’ libero anche nella scelta dei criteri di valutazione; nella seconda (che era poi quella, in materia urbanistica, in concreto sottoposta al vaglio dei giudici di legittimita’), sussiste, viceversa, un riferimento (eventualmente anche implicito) a previsioni normative, le quali dettano criteri di valutazione. Nel primo caso, la attivita’ di apprezzamento del pubblico ufficiale e’ assolutamente discrezionale e, conseguentemente, il documento che contiene il giudizio non e’ destinato a provare la verita’ di alcun fatto; nel secondo, viceversa, si e’ in presenza di un esercizio di discrezionalita’ tecnica, che vincola la valutazione ad una verifica di conformita’ della situazione fattuale a parametri predeterminati. Ne deriva che l’atto potra’ risultare falso se detto giudizio di conformita’ non sia rispondente ai parametri cui esso e’ (anche implicitamente) vincolato.

9.7. A ben vedere, insomma, l’atto valutativo comporta necessariamente un apprezzamento discrezionale del valutatore, ma si tratta – nel caso dei bilanci, non meno che in quello della materia urbanistica – di una discrezionalita’ tecnica. Ebbene, le scienze contabilistiche appartengono senz’altro al novero delle scienze a ridotto margine di opinabilita’; pertanto la “valutazione” dei fatti oggetto di falso investe la loro “materialita’”. Cio’ senza trascurare il fatto che gran parte dei parametri valutativi sono stabiliti per legge. Ne consegue che la redazione del bilancio e’ certamente attivita’ sindacabile anche con riferimento al suo momento valutativo; e cio’ appunto in quanto tali valutazioni non sono “libere”, ma vincolate normativamente e/o tecnicamente.

  1. Le varie fattispecie di false comunicazioni sociali integrano, ad evidenza, reati di pura condotta. Per esplicito dettato normativo, inoltre, tale condotta che da’ luogo ad una attivita’ falsificatoria del redattore del bilancio, deve riguardare fatti (materiali) rilevanti quali oggetto del comportamento commissivo ed omissivo dell’articolo 2621 c.c. (e, per richiamo, anche quella di cui all’articolo 2621 bis), mentre, per quel che riguardale le false comunicazioni sociali delle societa’ quotate (articolo 2622), la rilevanza viene in rilievo solo per la condotta omissiva, essendo, viceversa, comunque sempre penalmente perseguibile – in tal caso – la condotta commissiva (anche se il “fatto” esposto non sia ritenuto “rilevante”, trattandosi, evidentemente, di una valutazione eseguita, in astratto, dal legislatore e non demandata al giudice).

10.1. Va dunque, per completezza, definito il concetto di “rilevanza” ai fini del falso in bilancio. Esso, come evidenziato, tra le altre, dalla sentenza Giovagnoli, ha la sua riconoscibile origine nella normativa comunitaria (articolo 2 punto 16 Direttiva UE 2013/34/UE, relativa ai bilanci di esercizio, ai bilanci consolidati ed alle relative relazioni e tipologie di imprese, recepito con Decreto Legislativo 14 agosto 2015, n. 136), che definisce rilevante l’informazione “quando la sua omissione o errata indicazione potrebbe ragionevolmente influenzare le decisioni prese dagli utilizzatori, sulla base del bilancio dell’impresa”. Il requisito risulta aver sostituito il previgente parametro della idoneita’ “ad indurre in errore i destinatari” (oltre alle soglie percentuali di punibilita’) in relazione alla situazione economica, patrimoniale e finanziaria della societa’. Ma, a ben vedere, la idoneita’ ad indurre in errore, altro non e’ che il riflesso soggettivo della rilevanza della alterazione (conseguente a una condotta commissiva od omissiva) dei dati di bilancio e si risolve nella efficacia decettiva o fuorviante dell’informazione omessa o falsa. Il falso insomma deve essere tale da alterare in misura apprezzabile il quadro d’insieme e deve avere la capacita’ di influire sulle determinazioni dei soci, dei creditori o del pubblico. Da questo punto di vista, la rilevanza altro non e’ che la pericolosita’ conseguente alla falsificazione; il che suggella, se pur ce ne fosse bisogno, la natura, appunto di reato di pericolo (concreto) delle “nuove” false comunicazioni sociali.

10.2 Eliminato quindi ogni riferimento a soglie percentuali di rilevanza (chiaro indice di un criterio valutativo agganciato al dato quantitativo), la nuova normativa affida al giudice la valutazione – in concreto – della incidenza della falsa appostazione o della arbitraria preterizione della stessa; dovra’ dunque il giudice operare una valutazione di causalita’ ex ante, vale a dire che dovra’ valutare la potenzialita’ decettiva della informazione falsa contenuta nel bilancio e, in ultima analisi, dovra’ esprimere un giudizio prognostico sulla idoneita’ degli artifizi e raggiri contenuti nel predetto documento contabile, nell’ottica di una potenziale induzione in errore in incertam personam. Tale rilevanza, proprio perche’ non piu’ ancorata a soglie numeriche predeterminate, ma apprezzata dal giudicante in relazione alle scelte che i destinatari dell’informazione (soci, creditori, potenziali investitori) potrebbero effettuare, connota la falsita’ di cui agli articoli 2621, 2621 bis 2622 c.c. Essa, dunque, deve riguardare dati informativi essenziali, idonei a ingannare e a determinare scelte potenzialmente pregiudizievoli per i destinatari. Ed e’ ovvio, in base a cio’ che si e’ premesso, che tale potenzialita’ ingannatoria ben puo’ derivare, oltre che dalla esposizione in bilancio di un bene inesistente o dalla omissione di un bene esistente, dalla falsa valutazione di un bene che pure e’ presente nel patrimonio sociale. L’alterazione di tali dati, per altro, non deve necessariamente incidere solo sul versante quantitativo, ben potendo anche il c.d. “falso qualitativo” avere una attitudine ingannatoria e una efficacia fuorviante nei confronti del lettore del bilancio. Invero, la impropria appostazione di dati veri, l’impropria giustificazione causale di “voci”, pur reali ed esistenti, ben possono avere effetto decettivo (ad esempio: mostrando una situazione di liquidita’ fittizia) e quindi incidere negativamente su quel bene della trasparenza societaria, che si e’ visto costituire il fondamento della tutela penalistica del bilancio.

  1. Poiche’ poi il soggetto attivo (gli amministratori, i direttori generali, i dirigenti preposti alla redazione dei documenti contabili societari, i sindaci, i liquidatori) deve avere agito “consapevolmente” ed “al fine di conseguire per se’ o per altri un ingiusto profitto”, il delitto e’ connotato da dolo specifico.
  2. A conclusione delle argomentazioni sopra svolte, si deve – dunque affermare che, pur dopo le modifiche apportate dalla L. n. 69 del 2015, (anche) in tema di false comunicazioni sociali, il falso valutativo mantiene il suo rilievo penale. Precisamente deve essere enunciato il seguente principio di diritto: “Sussiste il delitto di false comunicazioni sociali, con riguardo alla esposizione o alla omissione di fatti oggetto di valutazione, se, in presenza di criteri di valutazione normativamente fissati o di criteri tecnici generalmente accettati, l’agente da tali criteri si discosti consapevolmente e senza darne adeguata informazione giustificativa, in modo concretamente idoneo ad indurre in errore i destinatari delle comunicazioni”.
  3. Tanto premesso, si puo’ passare all’esame delle singole censure formulate nell’interesse dei ricorrenti.
  4. Manifestamente infondata e’ la prima censura del ricorso (OMISSIS). Invero gli attuali imputati (OMISSIS) e (OMISSIS)) hanno tenuto una condotta processuale in aperta contraddizione con la richiesta formulata dai difensori del primo, i quali si lamentano del fatto che gli stessi non siano stati esaminati in dibattimento. I ricorrenti, invero, non si sono mai presentati in dibattimento innanzi ai loro giudici (ne’ in primo, ne’ in secondo grado), neanche per rendere spontanee dichiarazioni ai sensi dell’articolo 494 c.p.p. Ne’ nei loro confronti avrebbe potuto essere disposto accompagnamento ai sensi dell’articolo 132 del medesimo codice. Macchinosa (oltre che fantasiosa) e’ poi la procedura suggerita nel ricorso, in base alla quale i due avrebbero dovuto essere citati per rendere o negare il consenso al loro esame; esame richiesto – come si e’ appena anticipato – dai difensori dello stesso (OMISSIS). Ma a tale richiesta e’ stata negata qualsiasi attualita’ dalla stessa condotta di (OMISSIS) (e del suo coimputato). E’ evidente, invero, che, per facta concludentia, tanto (OMISSIS), quanto (OMISSIS) hanno mostrato di non avere interesse ad essere esaminati in dibattimento.

14.1. Per altro, dalla lettura del suddetto primo motivo, si evince che i difensori di (OMISSIS) avrebbero voluto che fossero ascoltati tutti gli originari imputati (dunque tanto quello assolto con formula piena, quanto gli altri, nei cui confronti e’ stata dichiarata la prescrizione dei reati loro ascritti). La richiesta, si legge, fu formulata innanzi al giudice di primo grado in data 3 giugno 2010 ed accolta nella medesima data. Ad essa tuttavia il Tribunale non dette corso. Ma, a dire il vero, tale richiesta (di audizione di tutti gli originari imputati) non risulta riportata con i motivi di appello, ma solo “ripresa” in una “memoria riassuntiva della discussione orale” nel corpo della quale, per vero, non si chiariva l’incidenza sul decisum della omessa audizione. Peraltro singolare appare che solo in sede di discussione innanzi al giudice di appello ci si ricordi di richieste istruttorie formulate in primo grado. D’altro canto, neanche con il ricorso per cassazione viene chiarito quale sarebbe la rilevanza di tale (omesso) atto istruttorio, atteso che ci si limita a sostenere che “l’esame dei vari imputati avrebbe certamente addotto una serie di dati conoscitivi difficilmente ignorabili”. Dunque la decisivita’ della prova richiesta e non raccolta non viene minimamente individuata e la censura – conseguentemente – appare affetta da palese genericita’.

  1. La seconda e la terza censura del ricorso (OMISSIS), cui si ricollegano i “motivi nuovi”, sono infondate. Invero la Corte di appello ha ritenuto che lo stesso fosse amministratore di fatto della societa’ fallita sulla base di plurimi e significativi indici. (OMISSIS) infatti: a) veniva individuato sul sito web ufficiale della societa’ come Presidente di ” (OMISSIS)”; b) veniva chiamato “presidente” da dipendenti ed atleti; c) aveva concluso un importante contratto di sponsorizzazione per la squadra di calcio; d) si occupava del pagamento degli stipendi; e) aveva aperto un conto corrente sui cui confluivano gli importi degli abbonamenti, importi che gestiva direttamente; f) aveva conferito un incarico ad un avvocato per conto della societa’; g) aveva certamente assunto personalmente il dott. (OMISSIS) quale medico della societa’ calcistica (e poco conta che cio’ abbia fatto nella prospettiva di divenire il dominus di ” (OMISSIS)”, atteso che la proprieta’ va certamente tenuta distinta dall’amministrazione). A fronte di tale convergente quadro probatorio, il ricorso, per un verso, sostiene la non corretta lettura delle dichiarazioni della teste (OMISSIS), per l’altro, suggerisce una diversa lettura delle dichiarazioni degli altri testi (ma non del (OMISSIS)), per altro verso ancora, sostiene che gli elementi sopra elencati (da “a” a “g”) non avrebbero significato univoco. Orbene, e’ evidente che, mentre, da un lato, l’offerta di una diversa interpretazione del materiale probatorio (testi (OMISSIS), (OMISSIS) e (OMISSIS)) e’ improponibile in sede di giudizio di legittimita’, dall’altro, appare metodologicamente erroneo l’approccio che si vorrebbe tenere nei confronti degli altri dati processuali; approccio certamente viziato da una impostazione “atomistica”, che non considera i singoli elementi (anche) nella loro globalita’ e non ne apprezza, quindi, per cosi’ dire, “la direzione” univoca. Correttamente, viceversa, hanno operato i giudici del merito, i quali hanno ritenuto – non illogicamente – che una tale significativa convergenza di dati non potesse avere altra spiegazione se non quella in base alla quale (OMISSIS), da un certo momento in poi, era divenuto gestore della societa’.
  2. Infondata e’ anche la quarta censura del ricorso del predetto. Invero l’incidente probatorio altro non e’ che una “anticipazione” del momento dibattimentale. Esso dunque si svolge con i tempi, le modalita’, le cadenze e le procedure del dibattimento, assicurando il contraddittorio tra le parti e mirando alla raccolta di vere e proprie prove. Tanto cio’ e’ vero che gli atti che tale fase procedimentale riflettono confluiscono, ai sensi dell’articolo 431 c.p.p., direttamente nel fascicolo del dibattimento. E’ allora evidente che l’assunzione della perizia in incidente probatorio deve avvenire con le modalita’ ex articolo392 c.p.p., comma 1, lettera f), articolo 220 c.p.p. e ss., con la conseguenza che non vi e’ alcuna ragione di esaminare – nuovamente – il perito in dibattimento prima di acquisire il suo elaborato, il quale e’ gia’ stato acquisito. Invero il predente giurisprudenziale segnalato dal ricorrente (Sez. 6, n. 40971 del 26/09/2008, Camber) non e’ affatto pertinente; va viceversa fatto riferimento a Sez. 4, 04/04/1997, Minestrina, Rv 207483, esattamente in termini, in base alla quale, in tema di incidente probatorio, quantunque l’articolo 401 c.p.p., comma 5, richiami le forme di assunzione delle prove stabilite per il dibattimento, non puo’ ritenersi applicabile l’articolo 511 c.p.p., comma 3, all’udienza del procedimento incidentale probatorio. Cio’ in quanto di “lettura di atti” ex articolo 511 c.p.p., ha senso parlare solo per le attivita’ svolte prima del giudizio, con riferimento a quelle formalita’ attraverso le quali gli atti medesimi proprio nel giudizio vengono immessi in contraddittorio tra le parti (nella fattispecie la Corte ha respinto l’assunto difensivo secondo cui e’ inutilizzabile la perizia raccolta in sede di incidente probatorio nel caso di mancato preliminare esame orale dei periti, giusta la disposizione dell’articolo511 c.p.p., comma 3).
  3. Conclusivamente il ricorso dello (OMISSIS) va rigettato, in quanto complessivamente infondato.
  4. Identica sorte va riservata ai ricorsi proposti nell’interesse del (OMISSIS).

18.1. Per quel che riguarda la censura formulata dal primo difensore (avv. (OMISSIS)), e’ il caso di ricordare che i fatti di distrazione, una volta intervenuta la dichiarazione di fallimento, assumono rilevanza penale in qualsiasi momento essi siano stati commessi e quindi anche se la condotta si e’ realizzata quando ancora l’impresa non versava in condizioni di insolvenza. Non si richiede alcun nesso (causale o psichico) tra la condotta dell’autore e il dissesto dell’impresa, essendo sufficiente che l’agente abbia cagionato il depauperamento dell’impresa destinandone le risorse ad impieghi estranei alla sua attivita’ (tra le piu’ recenti: Sez. 5, n. 47616 del 17/07/2014, Simone, Rv 261683). La condotta, in altre parole, si perfeziona con la distrazione, mentre la punibilita’ della stessa e’ subordinata alla dichiarazione di fallimento, che, ovviamente, consistendo in una pronunzia giudiziaria, si pone come evento successivo (in caso, appunto, di bancarotta distrattiva prefallimentare) e comunque esterno alla condotta stessa.

18.2. Quanto all’elemento psicologico della bancarotta distrattiva esso consiste nel dolo generico per la cui sussistenza non e’ necessaria la consapevolezza dello stato di insolvenza dell’impresa, ne’ lo scopo di recare pregiudizio ai creditori, essendo sufficiente la consapevole volonta’ di dare al patrimonio sociale una destinazione diversa da quella di garanzia delle obbligazioni contratte (tra le tante: Sez. 5, n. 52077 del 04/11/2014, Lelli, Rv 261348).

18.3. Per quel che attiene alla bancarotta documentale, non sono state proposte, con il ricorso per cassazione, specifiche censure.

  1. Quanto alla censura formulata dal secondo difensore del (OMISSIS) (avv. (OMISSIS)), essa e’, a sua volta, infondata. La revoca della elezione di domicilio presso il difensore, avvenuta, secondo quel che si legge nel ricorso, dopo la sentenza di primo grado e prima della citazione in appello, ha determinato che detta citazione fosse effettuata (come le precedenti) presso il predetto difensore. Non si sostiene tuttavia che, in presenza di una notificazione non omessa, ma effettuata con modalita’ difformi da quelle previste, il (OMISSIS) non abbia avuto cognizione dell’atto, ed e’ noto che la nullita’ assoluta e insanabile prevista dall’articolo 179 c.p.p., ricorre soltanto nel caso in cui la notificazione della citazione sia stata omessa o quando, essendo stata eseguita in forme diverse da quelle prescritte, risulti inidonea a determinare la conoscenza effettiva dell’atto da parte dell’imputato; la medesima nullita’ non ricorre invece nei casi in cui vi sia stata esclusivamente la violazione delle regole sulle modalita’ di esecuzione, alla quale consegue la applicabilita’ della sanatoria di cui all’articolo 184 cod. proc. pen. (Sez. U, n. 119 del 27/10/2004, dep. 2005, Palumbo, Rv 229539, 229541). Nel caso in esame, dalla lettura del processo verbale di dibattimento in appello, si rileva che il difensore di fiducia presente (l’avv. (OMISSIS), anche in sostituzione dell’avv. (OMISSIS)) nulla fece rilevare circa la pretesa irregolarita’ della notifica della citazione, ne’ rappresento’ che il suo assistito non avesse avuto cognizione della stessa.
  2. Consegue al rigetto dei ricorsi di (OMISSIS) e (OMISSIS) la condanna di ciascuno di essi al pagamento delle spese del procedimento.

P.Q.M.

Rigetta i ricorsi e condanna ciascun ricorrente al pagamento delle spese processuali

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