CASSAZIONE

Falsa fatturazione, il compenso è confiscato

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 270 del 9 gennaio 2018, ha stabilito che il profitto derivante dal delitto di emissione di fatture per operazioni inesistenti è costituito dal prezzo ottenuto per l’emissione delle fatture stesse, ovvero dal compenso pattuito o riscosso per eseguire tale reato. Il compenso può consistere nel denaro, come la maggior parte delle volte accade, o in qualsiasi altra utilità, economicamente valutabile e immediatamente o indirettamente derivante dalla commissione del reato. Con la sentenza in commento i Supremi giudici, nel richiamare la giurisprudenza di legittimità formatasi in materia, hanno richiamato l’art. 8, D.lgs. 74/2000 (Emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti), che accerta un delitto a dolo specifico nel quale l’emissione delle fatture per operazioni inesistenti è fatta al fine di consentire a terzi – e non all’emittente – l’evasione dell’IVA o delle imposte sui redditi.

Tuttavia, la costante giurisprudenza di legittimità ha chiarito che in considerazione della natura di “pericolo astratto del reato”, “il fine di favorire l’evasione fiscale di terzi attraverso l’emissione di fatture per operazioni inesistenti può anche non essere esclusivo, nel senso che il reato comunque sussiste qualora sia commesso anche con lo scopo di trarre un profitto personale…” (Cassazione, 44449/2015).

Proprio con riferimento al profitto personale del soggetto emittente, la Cassazione ha spiegato che tale profitto non coincide né con il valore complessivo delle fatture emesse per le operazioni inesistenti, né con il valore corrispondente al profitto conseguito dall’utilizzatore delle stesse fatture, “in quanto il regime derogatorio previsto dall’art. 9 D.Lgs. n. 74 del 2000 – escludendo la configurabilità del concorso reciproco tra chi emette le fatture per operazioni inesistenti e chi se ne avvale – impedisce l’applicazione in questo caso del principio solidaristico, valido nei soli casi di illecito plurisoggettivo” (cfr. in tal senso Cassazione, 43952/2016, 30168/2015 e 42641/2013).

Del resto, la Cassazione aveva già precisato che “qualora manchino elementi processuali per determinare esattamente il prezzo del reato di emissione di fatture per operazioni inesistenti (identificabile nel compenso pattuito o riscosso per eseguire il delitto), deve ritenersi legittimo il sequestro preventivo, anche per equivalente, di qualsiasi utilità economicamente valutabile ed immediatamente o indirettamente derivante dalla commissione del reato, quando non sussista una manifesta sproporzione tra il valore dei beni sequestrati e l’importo delle fatture e/o il profitto conseguito dall’utilizzatore”. (cfr. Cassazione, 50310/2014).

Tornando al caso di specie e nell’ambito di un procedimento penale per reati tributari, il giudice per le indagini preliminari disponeva il sequestro preventivo della somma corrispondente al profitto del reato nei confronti di due indagati, che avevano operato, rispettivamente, come legale rappresentante e amministratore di fatto di una società a responsabilità limitata, accusati di avere commesso in concorso il reato di emissione di fatture per operazioni inesistenti. Secondo il provvedimento del giudice la somma sequestrata doveva rinvenirsi sui conti correnti o nelle disponibilità della società ovvero, qualora non fosse stato possibile rinvenire il profitto diretto, sui beni degli indagati per un importo equivalente a tale somma.

Avverso tale misura cautelare uno dei due indagati presentava richiesta di riesame al tribunale, che accoglieva parzialmente il ricorso, rideterminando quanto calcolato ai fini del sequestro. In particolare, il tribunale riteneva che l’emissione delle fatture per le operazioni inesistenti era stata effettuata dall’emittente, oltre che per favorire l’utilizzatore, anche per conseguire un vantaggio proprio, cioè quello di azzerare un pregresso debito IVA e, conseguentemente, riduceva l’oggetto del sequestro a tale importo.

Al riguardo i Giudici di piazza Cavour, richiamando la copiosa giurisprudenza in merito, concludono che “… Considerato in diritto 1. L’art. 8 del d.lsg. 74/2000 è un delitto a dolo specifico, nel quale l’emissione delle fatture per operazioni inesistenti è fatta al fine di consentire a terzi – e non all’emittente – l’evasione dell’Iva o delle imposte sui redditi. Però, come chiarito dalla costante giurisprudenza di legittimità (cfr. da ultimo Cass. Sez. 3, n. 44449 del 2015 Rv. 265442, Colloca), il fine di favorire l’evasione fiscale di terzi attraverso l’emissione di fatture per operazioni inesistenti può anche non essere esclusivo, nel senso che il reato comunque sussiste qualora sia commesso anche con lo scopo di trarre un profitto personale; in altri termini la finalità di evasione fiscale può concorrere con altre finalità, attesa la natura di pericolo astratto del reato, per la configurabilità del quale è sufficiente il mero compimento dell’atto tipico. La giurisprudenza ha escluso che il profitto per il soggetto emittente coincida da un lato con il valore complessivo delle fatture emesse per le operazioni inesistenti e dall’altro nel valore corrispondente al profitto conseguito dall’utilizzatore delle stesse fatture, in quanto il regime derogatorio previsto dall’art. 9 D.Lgs. n. 74 del 2000 – escludendo la configurabilità del concorso reciproco tra chi emette le fatture per operazioni inesistenti e chi se ne avvale – impedisce l’applicazione in questo caso del principio solidaristico, valido nei soli casi di illecito plurisoggettivo (cfr. in tal senso Cass. Sez. 3, n. 43952 del 2016 Rv. 267925, Sanna e altro; Cas. Sez. 3, n. 42641 del 2013 Rv. 257419, Alonge).Il profitto del delitto ex art. 8 d. Igs. 74/2000 è costituito dal prezzo ottenuto per l’emissione delle fatture, cioè dal compenso pattuito o riscosso per eseguire il delitto, che può consistere tanto in un compenso in denaro, come per lo più accade, o in qualsiasi altra utilità, economicamente valutabile ed immediatamente o indirettamente derivante dalla commissione del reato. Come ha osservato Cass. Sez. 3, n. 50310 del 18/09/2014 Rv. 261517, Scandroglio, “In materia di reati tributari, qualora manchino elementi processuali per determinare esattamente il prezzo del reato di emissione di fatture per operazioni inesistenti (identificabile nel compenso pattuito o riscosso per eseguire il delitto), deve ritenersi legittimo il sequestro preventivo, anche per equivalente, di qualsiasi utilità economicamente valutabile ed immediatamente o indirettamente derivante dalla commissione del reato, quando non sussista una manifesta sproporzione tra il valore dei beni sequestrati e l’importo delle fatture e/o il profitto conseguito dall’utilizzatore”.

  1. Il ricorso è infondato per le seguenti ragioni.

Va preliminarmente rilevato che il ricorso per cassazione è stato presentato da Candido Casanova in proprio e non nella sua qualità di legale rappresentante della R.P. Rappresentanze s.r.l. A Candido Casanova risulta essere stata sequestrata “per equivalente” la somma di euro 598,73. Orbene, va precisato che il Tribunale del riesame di Benevento ha determinato il profitto ricavato dal reato contestato non con riferimento al valore complessivo dell’Iva riportato nelle fatture emesse per le operazioni inesistenti, bensì con riferimento all’Iva relativa alle fatture emesse dal fornitore nazionale A.E.G. Italia s.r.l. e ricevute dalla R.P. Rappresentanze s.r.l. Le fatture ricevute da tale ultima società per forniture ammontavano ad € 1.494.011,24 oltre iva pari ad C 331.682,67.

Dunque, il Tribunale del riesame di Benevento non ha adoperato il criterio indicato dalla difesa né ha confuso il concetto di profitto dell’art. 8 con quello dell’art. 2 del d.lgs. 74/2000. Il Tribunale del riesame di Benevento in realtà ha individuato il profitto non nel prezzo ottenuto per l’emissione delle fatture per e operazioni inesistenti, ma in un’altra utilità e ne ha determinato il valore economico indirettamente derivante dalla commissione del reato. Il Tribunale del riesame di Benevento ha ritenuto che l’emissione delle fatture per le operazioni inesistenti è stata effettuata, oltre che per favorire l’utilizzatore, anche per conseguire un vantaggio proprio, cioè quello di azzerare un pregresso debito iva; di conseguenza, individuato tale vantaggio economicamente valutabile, ha ridotto il sequestro a tale valore dell’Iva. Nel far ciò ha preso in esame il materiale investigativo, l’ha esaminato ed ha espresso un giudizio di fatto relativo al profitto che non è suscettibile di valutazione in sede di legittimità. Va ricordato che avverso le ordinanze emesse nella procedura di riesame delle misure cautelari reali il ricorso per cassazione è ammesso, ai sensi dell’art. 325 cod. proc. pen., soltanto per violazione di legge; è preclusa ogni censura relativa ai vizi della motivazione, salvi i casi della motivazione assolutamente mancante – che si risolve in una violazione di legge per la mancata osservanza dell’obbligo stabilito dall’art. 125 cod. proc. pen. – e della motivazione apparente, tale cioè da rendere l’apparato argomentativo, posto a sostegno del provvedimento, privo dei requisiti minimi di coerenza, completezza e ragionevolezza e quindi, inidonei, a rendere comprensibile l’itinerario logico seguito dal giudice. Nel caso in esame il Tribunale del riesame di Benevento non è incorso in nessuna violazione di legge ed ha argomentato sull’esistenza del profitto. Si tratta di una motivazione articolata, che in alcun modo può essere definita apparente. Il ricorso va dunque rigettato. Ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen. si condanna il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento”.

 

Corte di Cassazione, Sez. 3 Penale, Sentenza 9 gennaio 2018, n. 270

sul ricorso proposto da: CASANOVA CANDIDO nato il 04/04/1948 a CAMEROTA nel procedimento a carico di quest’ultimo avverso l’ordinanza del 07/03/2017 del TRIB. LIBERTÀ di AVELLINO;

visti gli atti, il provvedimento impugnato ed il ricorso; udita la relazione svolta dal consigliere LUCA SEMERARO;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale SIMONE PERELLI, che ha concluso per l’inammissibilità del ricorso.

Il difensore presente, Avvocato FEDERICO PAOLUCCI, al termine del proprio intervento, si riporta ai motivi del ricorso.

Ritenuto in fatto 1.

Al ricorrente Candido Casanova, quale legale rappresentante della R.P. Rappresentanze s.r.I., in concorso con l’amministratore di fatto Nicola Barese, è ascritto, fra l’altro, il reato ex art. 8 d.lgs. 74/2000 per avere emesso o rilasciato nel 2016 fatture per operazioni inesistenti per un importo complessivo di € 1.531,915,17.

Il giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Avellino, con decreto del 23 dicembre 2016, ha disposto il sequestro preventivo della somma di € 1.531,915,17, quale profitto diretto del reato, da rinvenirsi sui conti correnti o nelle disponibilità della società; ove non rinvenuto il profitto diretto, il giudice per le indagini preliminari ha disposto il sequestro dei beni degli indagati Candido Casanova e Nicola Barese per un importo equivalente alla somma sopra indicata.

  1. Candido Casanova, in proprio e quale legale rappresentante della R.P. Rappresentanze s.r.I., propose riesame avverso il decreto del giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Benevento.

Il ricorrente contestò, a pagina 23 punto k del riesame, il criterio di determinazione del profitto, avvenuto in maniera generica, senza il collegamento con il fatto penalmente rilevante, e facendo ricorso ad una diversa fattispecie di reato, senza una indagine rigorosa per legittimare una misura cautelare reale di così rilevante proporzione.

In subordine (pagine 24 e ss. punto I) la difesa chiese con il riesame, una drastica riduzione del sequestro, nel rispetto del principio di proporzionalità.

Secondo la difesa, l’entità del profitto travalicava il vantaggio economico eventualmente conseguito dal ricorrente a seguito dell’azione delittuosa; il profitto, secondo anche quanto indicato dal p.m., ammonterebbe ad € 330.000, pari all’importo dell’Iva evasa dalla società.

La difesa ha infatti distinto tra le somme fatturate e l’importo dell’Iva dovuta all’erario ed ha ritenuto che il debito fiscale è commisurabile a quest’ultimo e non alle prime.

Pertanto, nei motivi di riesame si affermò la illegittimità del sequestro per un importo superiore al profitto derivante dal reato.

  1. Il Tribunale del riesame di Benevento, in accoglimento del solo motivo sub I, ha limitato il sequestro all’importo di € 331.682,67.

Il Tribunale del riesame ha infatti condiviso l’argomento difensivo quanto alla impossibilità di sottoporre a sequestro l’importo complessivo delle fatture e, richiamato l’orientamento espresso da Cass. Sez. 3, ordinanza n. 1893 del 2011, ha affermato che il profitto andava determinato in base al risparmio per il mancato versamento dell’imposta.

Ciò anche perché le fatture, secondo l’ipotesi accusatoria, erano state emesse per azzerare il debito Iva.

Pertanto, il Tribunale del riesame ha determinato il profitto con riferimento all’Iva relativa alle fatture emesse dal fornitore nazionale A.E.G. Italia s.r.l. e ricevute dalla R.P. Rappresentanze s.r.l. Le fatture ricevute da tale ultima società per forniture ammontavano ad C 1.494.011,24 oltre iva pari ad € 331.682,67.

  1. Il difensore di Candido Casanova, solo in proprio e non nella qualità di legale rappresentante, ha proposto ricorso per cassazione avverso l’ordinanza del Tribunale del riesame di Benevento per violazione degli artt. 322 ter cod. pen. in relazione all’art. 8 I. (recte d.lgs.) 74/2000.

La violazione di legge si è sostanziata secondo la difesa perché neanche in astratto può essere individuato il profitto del delitto contestato nella somma relativa all’Iva riportata nelle fatture ritenute riferibili ad operazioni inesistenti.

La difesa ha riportato passi della motivazione della sentenza n. 6052/2007 della 3 sezione della Corte di Cassazione, condividendo la natura di reato di pericolo presunto del delitto contestato; ha rilevato che all’indagato è contestato di aver solo emesso le fatture e non la loro utilizzazione nella dichiarazione Iva.

Afferma la difesa che il sequestro finalizzato alla confisca può essere emesso solo in relazione al danno per il quale effettivamente sia provato almeno il fumus; nel caso in esame, non risultando che le fatture per le operazioni inesistenti siano state utilizzate in dichiarazione al fine di evadere l’IVA (quindi quando non può ritenersi configurabile la fattispecie di cui all’art. 2) il danno non può essere individuato in quelle somme che astrattamente l’indagato avrebbe potuto lucrare se avesse utilizzato le fatture in dichiarazione perché non costituenti il prezzo o il profitto.

Secondo la difesa, in relazione alla violazione del solo art. 8 sono astrattamente sottoponibili al sequestro finalizzato alla confisca soltanto le somme che costituiscono il prezzo o il profitto dell’emissione (solitamente riferibili all’eventuale compenso “sotterraneo” tra il soggetto emittente e il destinatario delle fatture), fatto questo per altro neanche individuato nel caso in esame.

In ogni caso, secondo la difesa, è l’illegittima la qualificazione e quantificazione come danno della somma riportata in fattura corrispondente quale IVA, posto che il delitto contestato è un reato di pericolo e che, pertanto, non poteva essere neanche astrattamente tale somma essere qualificata quale danno.

La difesa quindi ha limitato il ricorso alla corrispondenza tra il dettato delle norme che consentono il sequestro per equivalente e la sussistenza dei requisiti di legge; in particolare (oltre alla sussistenza del fumus di commissione del reato) la corretta individuazione della somma che può essere individuata quale prezzo o profitto dello stesso.

La difesa ha ribadito l’illegittimità del criterio adoperato per individuare il danno prodotto dal reato e ha chiesto l’annullamento dell’ordinanza impugnata senza rinvio; in subordine, ha chiesto l’annullamento con rinvio, affinché il Tribunale valuti se le fatture di cui al capo b) siano state utilizzate in dichiarazione o se dalle indagini emerga una diversa somma che possa essere individuata quale prezzo o profitto del reato nei rapporti tra il soggetto emittente ed il ricevente le fatture in contestazione.

Considerato in diritto 1. L’art. 8 del d.lsg. 74/2000 è un delitto a dolo specifico, nel quale l’emissione delle fatture per operazioni inesistenti è fatta al fine di consentire a terzi – e non all’emittente – l’evasione dell’Iva o delle imposte sui redditi.

Però, come chiarito dalla costante giurisprudenza di legittimità (cfr. da ultimo Cass. Sez. 3, n. 44449 del 2015 Rv. 265442, Colloca), il fine di favorire l’evasione fiscale di terzi attraverso l’emissione di fatture per operazioni inesistenti può anche non essere esclusivo, nel senso che il reato comunque sussiste qualora sia commesso anche con lo scopo di trarre un profitto personale; in altri termini la finalità di evasione fiscale può concorrere con altre finalità, attesa la natura di pericolo astratto del reato, per la configurabilità del quale è sufficiente il mero compimento dell’atto tipico.

La giurisprudenza ha escluso che il profitto per il soggetto emittente coincida da un lato con il valore complessivo delle fatture emesse per le operazioni inesistenti e dall’altro nel valore corrispondente al profitto conseguito dall’utilizzatore delle stesse fatture, in quanto il regime derogatorio previsto dall’art. 9 D.Lgs. n. 74 del 2000 – escludendo la configurabilità del concorso reciproco tra chi emette le fatture per operazioni inesistenti e chi se ne avvale – impedisce l’applicazione in questo caso del principio solidaristico, valido nei soli casi di illecito plurisoggettivo (cfr. in tal senso Cass. Sez. 3, n. 43952 del 2016 Rv. 267925, Sanna e altro; Cas. Sez. 3, n. 42641 del 2013 Rv. 257419, Alonge).

Il profitto del delitto ex art. 8 d. Igs. 74/2000 è costituito dal prezzo ottenuto per l’emissione delle fatture, cioè dal compenso pattuito o riscosso per eseguire il delitto, che può consistere tanto in un compenso in denaro, come per lo più accade, o in qualsiasi altra utilità, economicamente valutabile ed immediatamente o indirettamente derivante dalla commissione del reato.

Come ha osservato Cass. Sez. 3, n. 50310 del 18/09/2014 Rv. 261517, Scandroglio, “In materia di reati tributari, qualora manchino elementi processuali per determinare esattamente il prezzo del reato di emissione di fatture per operazioni inesistenti (identificabile nel compenso pattuito o riscosso per eseguire il delitto), deve ritenersi legittimo il sequestro preventivo, anche per equivalente, di qualsiasi utilità economicamente valutabile ed immediatamente o indirettamente derivante dalla commissione del reato, quando non sussista una manifesta sproporzione tra il valore dei beni sequestrati e l’importo delle fatture e/o il profitto conseguito dall’utilizzatore”.

  1. Il ricorso è infondato per le seguenti ragioni.

Va preliminarmente rilevato che il ricorso per cassazione è stato presentato da Candido Casanova in proprio e non nella sua qualità di legale rappresentante della R.P. Rappresentanze s.r.l.

A Candido Casanova risulta essere stata sequestrata “per equivalente” la somma di euro 598,73. Orbene, va precisato che il Tribunale del riesame di Benevento ha determinato il profitto ricavato dal reato contestato non con riferimento al valore complessivo dell’Iva riportato nelle fatture emesse per le operazioni inesistenti, bensì con riferimento all’Iva relativa alle fatture emesse dal fornitore nazionale A.E.G. Italia s.r.l. e ricevute dalla R.P. Rappresentanze s.r.l.

Le fatture ricevute da tale ultima società per forniture ammontavano ad € 1.494.011,24 oltre iva pari ad C 331.682,67.

Dunque, il Tribunale del riesame di Benevento non ha adoperato il criterio indicato dalla difesa né ha confuso il concetto di profitto dell’art. 8 con quello dell’art. 2 del d.lgs. 74/2000.

Il Tribunale del riesame di Benevento in realtà ha individuato il profitto non nel prezzo ottenuto per l’emissione delle fatture per e operazioni inesistenti, ma in un’altra utilità e ne ha determinato il valore economico indirettamente derivante dalla commissione del reato.

Il Tribunale del riesame di Benevento ha ritenuto che l’emissione delle fatture per le operazioni inesistenti è stata effettuata, oltre che per favorire l’utilizzatore, anche per conseguire un vantaggio proprio, cioè quello di azzerare un pregresso debito iva; di conseguenza, individuato tale vantaggio economicamente valutabile, ha ridotto il sequestro a tale valore dell’Iva.

Nel far ciò ha preso in esame il materiale investigativo, l’ha esaminato ed ha espresso un giudizio di fatto relativo al profitto che non è suscettibile di valutazione in sede di legittimità.

Va ricordato che avverso le ordinanze emesse nella procedura di riesame delle misure cautelari reali il ricorso per cassazione è ammesso, ai sensi dell’art. 325 cod. proc. pen., soltanto per violazione di legge; è preclusa ogni censura relativa ai vizi della motivazione, salvi i casi della motivazione assolutamente mancante – che si risolve in una violazione di legge per la mancata osservanza dell’obbligo stabilito dall’art. 125 cod. proc. pen. – e della motivazione apparente, tale cioè da rendere l’apparato argomentativo, posto a sostegno del provvedimento, privo dei requisiti minimi di coerenza, completezza e ragionevolezza e quindi, inidonei, a rendere comprensibile l’itinerario logico seguito dal giudice.

Nel caso in esame il Tribunale del riesame di Benevento non è incorso in nessuna violazione di legge ed ha argomentato sull’esistenza del profitto.

Si tratta di una motivazione articolata, che in alcun modo può essere definita apparente. Il ricorso va dunque rigettato. Ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen. si condanna il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento.

P.Q.M

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Così deciso il 05/12/2017.

 

 

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