Evasione fiscale: attenuante per l’imprenditore che salvaguarda i posti di lavoro
Reati Tributari – IVA – Omesso versamento – Artt. 10-bis e 10-ter del d.lgs. n. 74/2000 – Mancata applicazione dell’attenuante – Art. 62, n. 1 c.p – Dolo generico – Dolo eventuale – Congiuntura economica avversa – Motivi di particolare valore sociale
La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 10084 del 16 marzo 2020, torna a occuparsi dei rapporti tra crisi di liquidità e fattispecie di omesso versamento dei tributi nell’ambito della crisi imprenditoriali, per affermare che ha diritto allo sconto di pena l’imprenditore che non versa le ritenute per salvare posti di lavoro se ha agito per motivi di particolare valore sociale.
della società.
La sentenza è in linea con i più recenti orientamenti della giurisprudenza della Corte di Cassazione, dove è possibile citare, relativamente al reato di omesso versamento dell’IVA, la sentenza n. 38594/2018 depositata il 13 agosto 2018, nella quale sviluppando e riprendendo il tema della crisi di liquidità d’impresa quale fattore in grado di escludere la colpevolezza, la Corte ha ulteriormente precisato che è necessario che siano comunque assolti, sul punto, precisi oneri di allegazione che devono investire non solo l’aspetto della non imputabilità al contribuente della crisi economica che improvvisamente avrebbe investito l’azienda, ma anche la circostanza che detta crisi non potesse essere adeguatamente fronteggiata tramite il ricorso a idonee misure da valutarsi in concreto. Occorre, cioè, la prova che non sia stato altrimenti possibile per il contribuente reperire le risorse economiche e finanziarie necessarie a consentirgli il corretto e puntuale adempimento delle obbligazioni tributarie, pur avendo posto in essere tutte le possibili azioni, anche sfavorevoli per il suo patrimonio personale, dirette a consentirgli di recuperare, in presenza di un’improvvisa crisi di liquidità, quelle somme necessarie ad assolvere il debito erariale e senza esservi riuscito per cause indipendenti dalla sua volontà e ad egli non imputabili (Sez. 3, 9 ottobre 2013, n. 5905/2014; Sez. 3, n. 15416 del 08/01/2014; Sez. 3, n. 5467 del 05/12/2013; Sez. 3, n. 20266 del 08/04/2014).
Inoltre, con pronuncia n. 15235 del primo febbraio 2017, la Corte confermava che il reato di omesso versamento IVA, previsto dall’art. 10-ter, D.lgs. n. 74 del 2000 è integrato, sotto il profilo dell’elemento soggettivo, dal dolo generico quale coscienza e volontà di non versare all’erario l’IVA relativa al periodo considerato.
In tale contesto l’agente può invocare l’assoluta impossibilità di adempiere il debito di imposta, quale causa di esclusione della responsabilità penale, a condizione che provveda ad assolvere gli oneri probatori concernenti sia il profilo della non imputabilità a lui medesimo della crisi di
liquidità che ha investito l’azienda, sia l’aspetto della impossibilità di fronteggiare la crisi di liquidità tramite il ricorso a misure anche sfavorevoli per il suo patrimonio personale.
Quanto all’elemento soggettivo e alla punibilità, la Cassazione ha con costanza richiamato il consolidato orientamento nomofilattico secondo cui, ai fini della dimostrazione della assoluta impossibilità di provvedere ai pagamenti omessi, occorre l’allegazione e la prova della non addebitabilità all’imputato della crisi economica che ha investito l’impresa e della impossibilità di fronteggiare la crisi di liquidità che ne sia conseguita tramite il ricorso a misure idonee da valutarsi in concreto (cfr. Sez. 3, n. 20266 del 08/04/2014; Sez. 3, n. 8352 del 24/06/2014; Sez. 3, n. 43599 del 09/09/2015) e, dunque, per escludere la volontarietà della condotta è necessaria la dimostrazione della riconducibilità dell’inadempimento alla obbligazione verso l’Erario a fatti non imputabili all’imprenditore che non abbia potuto tempestivamente porvi rimedio per cause indipendenti dalla sua volontà e che sfuggono al suo dominio finalistico (Sez. 3, n. 8352 del 24/06/2014; conf. Sez. 3, n. 15416 del 08/01/2014; Sez. 3, n. 5467 del 05/12/2013; Sez. 3, 9 ottobre 2013, n. 5905/2014).
Tanto premesso e tornando al caso in esame, un amministratore di società si era visto confermare la sentenza della Corte d’Appello con cui era stato ritenuto responsabile del reato di cui all’art. 10-bis D.lgs. 10 marzo 2000, n. 74 per aver omesso, quale legale rappresentante di una società, il versamento delle ritenute certificate negli anni d’imposta 2011 e 2012.
L’imputato ricorreva in sede di legittimità lamentando principalmente l’assenza di dolo, sottolineando che la notifica formale degli omessi versamenti per il 2011 e il 2012 si è realizzata solo alla fine nel 2013 e che la società nel frattempo aveva messo in atto un piano di risanamento che gli avrebbe consentito di provvedere al pagamento del debito tributario. Nel 2012, infatti, una società esterna si era offerta di effettuare un apporto di capitale di 2 milioni di euro, anche se poi era inspiegabilmente sparita: per fronteggiare questo problema la società di famiglia dell’imputato metteva a disposizione tutto il proprio patrimonio e veniva posta in liquidazione. L’imputato, inoltre, rinunciava al proprio compenso come amministratore e rilasciava garanzie per ottenere un nuovo credito.
La crisi, quindi, era da imputarsi a una congiuntura economica avversa, non alla condotta dell’imprenditore.
Orbene, declinando tali criteri ermeneutici rispetto al caso di specie, gli Ermellini accolgono il ricorso dell’amministratore di società. Ad avviso della Suprema Corte i giudici di appello hanno correttamente affermato l’esistenza del reato perché la crisi di impresa, pur se non addebitabile all’imprenditore, non esclude il dolo nel reato tributario specialmente quando, come nel caso esaminato, si protrae per anni senza che le iniziative adottate abbiano effetto. La Corte territoriale ha però sbagliato a non considerare gli argomenti della difesa ai fini dell’applicazione dell’attenuante generica, che stava nell’aver tentato di salvare l’occupazione di 55 dipendenti.
Ad avviso della Cassazione poteva scattare l’articolo 62-bis del Codice penale, che prevede la possibilità di far concorrere le attenuanti generiche con le comuni in quanto: “…
La sentenza
impugnata, dopo aver dato atto che l’appellante aveva richiesto, in via subordinata, l’applicazione della circostanza attenuante dell’aver agito per motivi di particolare valore sociale (vale a dire, in un contesto “difficilissimo”, rinunciando ai propri compensi e orientando il proprio comportamento a garantire diritti costituzionalmente garantiti, in particolare quello al lavoro), non analizza le allegazioni addotte per verificare se le stesse integrino oppure no la circostanza attenuante di cui all’art. 62, n. 1), cod. pen., ma si limita a sostenere che il trattamento sanzionatorio era congruo e che il primo giudice aveva concesso le circostanze attenuanti generiche tenendo già conto di “tutte le motivazioni addotte dalla difesa” e “della particolarità della vicenda e del comportamento dell’imputato”. Rileva il Collegio che l’art. 62 bis, primo comma, cod. pen. individua le circostanze attenuanti generiche che possono essere prese in considerazione dal giudice al fine di diminuire la pena innanzitutto con una definizione in negativo rispetto alle circostanze attenuanti comuni già enucleate dal legislatore: «il giudice, indipendentemente dalle circostanze previste nell’articolo 62, può prendere in considerazione altre circostanze diverse…». Si aggiunge che l’attenuante di cui all’art. 62 bis cod. pen. «può anche
concorrere con una o più delle circostanze indicate nel predetto articolo 62». Dalla disposizione, dunque, si ricava l’ontologica differenza e l’autonomia concettuale tra le circostanze attenuanti comuni (o speciali) e quelle generiche di cui all’art. 62 bis cod. pen., con l’inevitabile conseguenza che laddove sussistano elementi che integrano le diverse ipotesi circostanziate le stesse concorrono, mentre se i fattori considerati sono idonei ad integrare una circostanza attenuante comune o speciale si deve comunque ritenere la sussistenza di quest’ultima, quand’anche – secondo una tesi non incontroversa – i medesimi elementi possano magari essere valutati pure al fine di concedere le circostanze attenuanti generiche (in quest’ultimo senso, con precisazione dei relativi limiti, Sez. 1, n. 9950 del 06/05/1994, Licata, Rv, 199739; più di recente, Sez. 3, n. 31832 del 04/05/2018, Ozzimo, Rv. 273763; contra, Sez. 6, n. 10376 del 02/07/1992, Castiglia e a., Rv. 192109; più di recente, Sez. 6, n. 49820 del 05/12/2013, Billizzi e aa., Rv. 258136; Sez. 6, n. 43890
del 21/06/2017, Aruta e aa., Rv. 271099).
Se per il riconoscimento dell’attenuante di cui all’art. 62 bis cod. pen. possono essere utilizzate anche ragioni che, pur non bastevoli a determinare l’integrazione di un’ipotesi circostanziata altrimenti codificata per difetto di tutti i suoi elementi costitutivi, sono comunque valorizzabili sul piano delle circostanze generiche (v., ad es., quanto al parziale risarcimento del danno, Sez. 6, n. 34522 del 27/06/2013, Vinetti, Rv. 256134), l’ipotesi residuale – in quanto sussidiaria – non potrà mai valere ad escludere l’applicazione di una fattispecie circostanziale di cui sussistano tutti i presupposti. Calando questi principi nella valutazione del caso di specie, deve allora ritenersi che la sentenza impugnata sarebbe conforme a diritto se gli elementi addotti dalla difesa non fossero sufficienti ad integrare la circostanza dell’aver agito per motivi di particolare valore sociale. Laddove, invece, lo fossero, occorrerebbe riconoscere la sussistenza della circostanza attenuante di cui all’art. 62, n. 1), cod. pen., indipendentemente dal fatto che gli stessi elementi siano stati considerati anche nel più ampio giudizio relativo alla ritenuta sussistenza delle circostanze attenuanti generiche, non essendovi peraltro stato, sul punto, appello del pubblico ministero, neppure incidentale (in allora proponibile, alla luce degli artt. 593, comma 1, e 595, comma 1, cod. proc. pen., prima delle modifiche apportate con d.lgs. 6 febbraio 2018, n. 11). L’accertamento di cui sopra necessita di una valutazione di merito che nella specie è mancata e rispetto alla quale la sentenza impugnata non reca motivazione. Non essendo i reati prescritti, deve dunque procedersi all’annullamento della sentenza limitatamente al punto in esame, con rinvio ad altra sezione della Corte d’appello di Trieste. Dovendosi nel resto rigettato il ricorso, ai sensi dell’art. 624, comma 2,
cod. proc. pen., va dichiarata l’irrevocabilità dell’accertamento di responsabilità”. Nessun blocco selezionato.Cerca un blocco
In buona sostanza gli Ermellini, che rigettano i primi due motivi del ricorso del contribuente accogliendone però il terzo, che porta al rinvio ad altra sezione della Corte d’Appello, hanno ritenuto nello specifico che il giudice non può escludere a priori uno sconto ulteriore di pena per l’imprenditore che, a causa della crisi economica, non versa le ritenute certificate per salvare posti di lavoro, ma deve valutare anche la possibilità di applicare l’attenuante per aver agito per ragioni di particolare valore sociale ex art. 62, n. 1 c.p. per aver tentato, senza incorrere in reati fallimentari, di proseguire l’attività d’impresa per mantenere l’occupazione dei dipendenti della società.
La sentenza è in linea con i più recenti orientamenti della giurisprudenza della Corte di Cassazione, dove è possibile citare, relativamente al reato di omesso versamento dell’IVA, la sentenza n. 38594/2018 depositata il 13 agosto 2018, nella quale sviluppando e riprendendo il tema della crisi di liquidità d’impresa quale fattore in grado di escludere la colpevolezza, la Corte ha ulteriormente precisato che è necessario che siano comunque assolti, sul punto, precisi oneri di allegazione che devono investire non solo l’aspetto della non imputabilità al contribuente della crisi economica che improvvisamente avrebbe investito l’azienda, ma anche la circostanza che detta crisi non potesse essere adeguatamente fronteggiata tramite il ricorso a idonee misure da valutarsi in concreto. Occorre, cioè, la prova che non sia stato altrimenti possibile per il contribuente reperire le risorse economiche e finanziarie necessarie a consentirgli il corretto e puntuale adempimento delle obbligazioni tributarie, pur avendo posto in essere tutte le possibili azioni, anche sfavorevoli per il suo patrimonio personale, dirette a consentirgli di recuperare, in presenza di un’improvvisa crisi di liquidità, quelle somme necessarie ad assolvere il debito erariale e senza esservi riuscito per cause indipendenti dalla sua volontà e ad egli non imputabili (Sez. 3, 9 ottobre 2013, n. 5905/2014; Sez. 3, n. 15416 del 08/01/2014; Sez. 3, n. 5467 del 05/12/2013; Sez. 3, n. 20266 del 08/04/2014).
Inoltre, con pronuncia n. 15235 del primo febbraio 2017, la Corte confermava che il reato di omesso versamento IVA, previsto dall’art. 10-ter, D.lgs. n. 74 del 2000 è integrato, sotto il profilo dell’elemento soggettivo, dal dolo generico quale coscienza e volontà di non versare all’erario l’IVA relativa al periodo considerato.
In tale contesto l’agente può invocare l’assoluta impossibilità di adempiere il debito di imposta, quale causa di esclusione della responsabilità penale, a condizione che provveda ad assolvere gli oneri probatori concernenti sia il profilo della non imputabilità a lui medesimo della crisi di
liquidità che ha investito l’azienda, sia l’aspetto della impossibilità di fronteggiare la crisi di liquidità tramite il ricorso a misure anche sfavorevoli per il suo patrimonio personale.
Quanto all’elemento soggettivo e alla punibilità, la Cassazione ha con costanza richiamato il consolidato orientamento nomofilattico secondo cui, ai fini della dimostrazione della assoluta impossibilità di provvedere ai pagamenti omessi, occorre l’allegazione e la prova della non addebitabilità all’imputato della crisi economica che ha investito l’impresa e della impossibilità di fronteggiare la crisi di liquidità che ne sia conseguita tramite il ricorso a misure idonee da valutarsi in concreto (cfr. Sez. 3, n. 20266 del 08/04/2014; Sez. 3, n. 8352 del 24/06/2014; Sez. 3, n. 43599 del 09/09/2015) e, dunque, per escludere la volontarietà della condotta è necessaria la dimostrazione della riconducibilità dell’inadempimento alla obbligazione verso l’Erario a fatti non imputabili all’imprenditore che non abbia potuto tempestivamente porvi rimedio per cause indipendenti dalla sua volontà e che sfuggono al suo dominio finalistico (Sez. 3, n. 8352 del 24/06/2014; conf. Sez. 3, n. 15416 del 08/01/2014; Sez. 3, n. 5467 del 05/12/2013; Sez. 3, 9 ottobre 2013, n. 5905/2014).
Tanto premesso e tornando al caso in esame, un amministratore di società si era visto confermare la sentenza della Corte d’Appello con cui era stato ritenuto responsabile del reato di cui all’art. 10-bis D.lgs. 10 marzo 2000, n. 74 per aver omesso, quale legale rappresentante di una società, il versamento delle ritenute certificate negli anni d’imposta 2011 e 2012.
L’imputato ricorreva in sede di legittimità lamentando principalmente l’assenza di dolo, sottolineando che la notifica formale degli omessi versamenti per il 2011 e il 2012 si è realizzata solo alla fine nel 2013 e che la società nel frattempo aveva messo in atto un piano di risanamento che gli avrebbe consentito di provvedere al pagamento del debito tributario. Nel 2012, infatti, una società esterna si era offerta di effettuare un apporto di capitale di 2 milioni di euro, anche se poi era inspiegabilmente sparita: per fronteggiare questo problema la società di famiglia dell’imputato metteva a disposizione tutto il proprio patrimonio e veniva posta in liquidazione. L’imputato, inoltre, rinunciava al proprio compenso come amministratore e rilasciava garanzie per ottenere un nuovo credito.
La crisi, quindi, era da imputarsi a una congiuntura economica avversa, non alla condotta
dell’imprenditore.
Orbene, declinando tali criteri ermeneutici rispetto al caso di specie, gli Ermellini accolgono il
ricorso dell’amministratore di società. Ad avviso della Suprema Corte i giudici di appello hanno
correttamente affermato l’esistenza del reato perché la crisi di impresa, pur se non addebitabile
all’imprenditore, non esclude il dolo nel reato tributario specialmente quando, come nel caso
esaminato, si protrae per anni senza che le iniziative adottate abbiano effetto. La Corte territoriale
ha però sbagliato a non considerare gli argomenti della difesa ai fini dell’applicazione
dell’attenuante generica, che stava nell’aver tentato di salvare l’occupazione di 55 dipendenti.
Ad avviso della Cassazione poteva scattare l’articolo 62-bis del Codice penale, che prevede la possibilità di far concorrere le attenuanti generiche con le comuni in quanto: “…
La sentenza
impugnata, dopo aver dato atto che l’appellante aveva richiesto, in via subordinata, l’applicazione della circostanza attenuante dell’aver agito per motivi di particolare valore sociale (vale a dire, in un contesto “difficilissimo”, rinunciando ai propri compensi e orientando il proprio comportamento a garantire diritti costituzionalmente garantiti, in particolare quello al lavoro), non analizza le allegazioni addotte per verificare se le stesse integrino oppure no la circostanza attenuante di cui all’art. 62, n. 1), cod. pen., ma si limita a sostenere che il trattamento sanzionatorio era congruo e che il primo giudice aveva concesso le circostanze attenuanti generiche tenendo già conto di “tutte le motivazioni addotte dalla difesa” e “della particolarità della vicenda e del comportamento dell’imputato”. Rileva il Collegio che l’art. 62 bis, primo comma, cod. pen. individua le circostanze attenuanti generiche che possono essere prese in considerazione dal giudice al fine di diminuire la pena innanzitutto con una definizione in negativo rispetto alle circostanze attenuanti comuni già enucleate dal legislatore: «il giudice, indipendentemente dalle circostanze previste nell’articolo 62, può prendere in considerazione altre circostanze diverse…». Si aggiunge che l’attenuante di cui all’art. 62 bis cod. pen. «può anche
concorrere con una o più delle circostanze indicate nel predetto articolo 62». Dalla disposizione, dunque, si ricava l’ontologica differenza e l’autonomia concettuale tra le circostanze attenuanti comuni (o speciali) e quelle generiche di cui all’art. 62 bis cod. pen., con l’inevitabile conseguenza che laddove sussistano elementi che integrano le diverse ipotesi circostanziate le stesse concorrono, mentre se i fattori considerati sono idonei ad integrare una circostanza attenuante comune o speciale si deve comunque ritenere la sussistenza di quest’ultima, quand’anche – secondo una tesi non incontroversa – i medesimi elementi possano magari essere valutati pure al fine di concedere le circostanze attenuanti generiche (in quest’ultimo senso, con precisazione dei relativi limiti, Sez. 1, n. 9950 del 06/05/1994, Licata, Rv, 199739; più di recente, Sez. 3, n. 31832 del 04/05/2018, Ozzimo, Rv. 273763; contra, Sez. 6, n. 10376 del 02/07/1992, Castiglia e a., Rv. 192109; più di recente, Sez. 6, n. 49820 del 05/12/2013, Billizzi e aa., Rv. 258136; Sez. 6, n. 43890
del 21/06/2017, Aruta e aa., Rv. 271099).
Se per il riconoscimento dell’attenuante di cui all’art. 62 bis cod. pen. possono essere utilizzate anche ragioni che, pur non bastevoli a determinare l’integrazione di un’ipotesi circostanziata altrimenti codificata per difetto di tutti i suoi elementi costitutivi, sono comunque valorizzabili sul piano delle circostanze generiche (v., ad es., quanto al parziale risarcimento del danno, Sez. 6, n. 34522 del 27/06/2013, Vinetti, Rv. 256134), l’ipotesi residuale – in quanto sussidiaria – non potrà mai valere ad escludere l’applicazione di una fattispecie circostanziale di cui sussistano tutti i presupposti. Calando questi principi nella valutazione del caso di specie, deve allora ritenersi che la sentenza impugnata sarebbe conforme a diritto se gli elementi addotti dalla difesa non fossero sufficienti ad integrare la circostanza dell’aver agito per motivi di particolare valore sociale. Laddove, invece, lo fossero, occorrerebbe riconoscere la sussistenza della circostanza attenuante di cui all’art. 62, n. 1), cod. pen., indipendentemente dal fatto che gli stessi elementi siano stati considerati anche nel più ampio giudizio relativo alla ritenuta sussistenza delle circostanze attenuanti generiche, non essendovi peraltro stato, sul punto, appello del pubblico ministero, neppure incidentale (in allora proponibile, alla luce degli artt. 593, comma 1, e 595, comma 1, cod. proc. pen., prima delle modifiche apportate con d.lgs. 6 febbraio 2018, n. 11). L’accertamento di cui sopra necessita di una valutazione di merito che nella specie è mancata e rispetto alla quale la sentenza impugnata non reca motivazione. Non essendo i reati prescritti, deve dunque procedersi all’annullamento della sentenza limitatamente al punto in esame, con rinvio ad altra sezione della Corte d’appello di Trieste. Dovendosi nel resto rigettato il ricorso, ai sensi dell’art. 624, comma 2,
cod. proc. pen., va dichiarata l’irrevocabilità dell’accertamento di responsabilità”.

CORTE DI CASSAZIONE Sentenza 16 marzo 2020, n. 10084
Microsoft Word – Attenuante di omessi versamenti – Cassazione.docx
Sul ricorso proposto da:
S. A. G., nato a Milano il 04/07/1948 avverso la sentenza del 05/03/2019 della Corte di appello di Trieste
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere Gianni Filippo Reynaud;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Paola Filippi, che ha concluso
chiedendo dichiararsi l’inammissibilità del ricorso;
udito per il ricorrente l’avv. Bruno Malattia, che ha chiesto raccoglimento delle conclusioni del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza del 5 marzo 2019, la Corte d’appello di Trieste, decidendo il gravame proposto da A. G. S. e rilevando l’intervenuta prescrizione del reato più risalente (relativo all’omesso versamento delle ritenute certificate per l’anno d’imposta 2010), con conseguente rideterminazione della pena, ha per il resto confermato la sentenza con cui lo stesso è stato ritenuto responsabile del reato di cui all’art. 10-bis ci.lgs. 10 marzo 2000, n. 74 per aver omesso, quale legale rappresentante di una società, il versamento delle ritenute
certificate negli anni d’imposta 2011 e 2012.
2. Avverso la sentenza di appello, ha proposto ricorso il difensore dell’imputato, deducendo, con il primo motivo, il vizio di motivazione per essere stato affermato che non poteva essere escluso il dolo del reato avendo l’imputato un margine di scelta per gestire diversamente la crisi di liquidità che si protraeva da tre
anni, senza tuttavia specificare in cosa tale margine sarebbe consistito.
In secondo luogo si lamenta l’omessa considerazione delle prove dichiarative e documentali allegate nel gravame a sostegno dell’assenza di dolo: la notifica della formale contestazione degli omessi versamenti per gli anni 2011 e 2012 era avvenuta soltanto alla fine del 2013 e la società aveva predisposto un piano di
risanamento che ragionevolmente avrebbe consentito di adempiere l’obbligazione tributaria;
a metà del 2012 una società finanziaria era pronta ad intervenire con un apporto di capitale di due milioni di Euro, ma uscì inopinatamente di scena poco prima che anche l’ultima banca formalizzasse la sua condivisione del piano di risanamento; la società di famiglia dell’imputato aveva messo a disposizione della
società debitrice tutto il proprio patrimonio tanto da essere posta in liquidazione;
lo stesso imputato aveva rinunciato al proprio compenso quale amministratore e aveva rilasciato garanzie personali alle banche per ottenere nuovo credito; la crisi fu dovuta da un’avversa congiuntura economica e si
poteva ragionevolmente confidare in una ripresa.
3. Con il secondo motivo si deducono la violazione dell’art. 581, lett. a), cod. proc. pen. ed il vizio di motivazione per essere stato dichiarato inammissibile il motivo aggiunto proposto con memoria tempestivamente depositata, relativo alla dedotta insussistenza dell’elemento oggettivo del reato – per mancanza di prova che ai dipendenti fossero stati consegnati i certificati fiscali mod. 770 – sull’erroneo rilievo che con l’atto di gravame si era contestata la sola sussistenza dell’elemento soggettivo del reato. Poiché l’impugnazione aveva avuto riguardo all’intero capo della sentenza di primo grado concernente la
penale responsabilità, si dovevano ritenere ricompresi nel gravame tutti i punti relativi a tale capo.
4. Con il terzo motivo di ricorso si lamenta l’erronea applicazione della legge penale con riferimento agli artt. 62 n. 1) e 133 cod. pen., non avendo la Corte territoriale preso in considerazione il motivo di gravame con cui si richiedeva la circostanza attenuante dell’aver agito per motivi di particolare valore sociale – avendo il ricorrente tentato, senza incorrere in reati fallimentari, di proseguire l’attività d’impresa per mantenere l’occupazione dei 55 dipendenti della società – sull’errato rilievo che il trattamento sanzionatorio
era più che benevolo.
In tal modo – si lamenta – era stata negata autonomia alla previsione di cui all’art. 62 n. 1) cod. pen. rispetto a
quella di cui al successivo art. 133.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Sulla base della consolidata giurisprudenza di questa Corte, il primo motivo di ricorso è inammissibile per genericità e manifesta infondatezza, avendo la sentenza impugnata non illogicamente affermato la sussistenza del dolo, richiamando integralmente, peraltro, quella, conforme, di primo grado, che già adeguatamente rispondeva alle doglianze proposte con il gravame e qui nuovamente dedotte senza formulare
rilievi suscettibili di sindacato in sede di legittimità.
1.1. A quest’ultimo proposito, va ricordato che la genericità è causa di inammissibilità che ricorre non solo quando i motivi risultano intrinsecamente indeterminati, ma altresì quando difettino della necessaria correlazione con le ragioni poste a fondamento del provvedimento impugnato (Sez. 5, n. 28011 del 15/02/2013, Sammarco, Rv. 255568). In particolare, i motivi del ricorso per cassazione – che non possono risolversi nella pedissequa reiterazione di quelli già dedotti in appello e puntualmente disattesi dalla corte di merito – si devono considerare non specifici, ma soltanto apparenti, quando omettono di assolvere la tipica funzione di una critica argomentata avverso la sentenza oggetto di ricorso (Sez. 6, n. 20377 del 11/03/2009, Arnone e aa., Rv. 243838), sicché è inammissibile il ricorso per cassazione quando manchi l’indicazione della correlazione tra le ragioni argomentate dalla decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell’atto d’impugnazione, atteso che quest’ultimo non può ignorare le affermazioni del provvedimento censurato
(Sez. 2, n. 11951 del 29/01/2014, Lavorato, Rv. 259425).
1.2. Alle doglianze nuovamente riproposte in ricorso i giudici di merito hanno dato non illogica risposta,
rilevando che:
il ricorrente aveva per ben tre anni sfruttato l’illecito profitto del reato tributario per gestire la crisi di impresa di una società già insolvente, senza interrompere prima l’attività (tale essendo il margine di scelta alternativo alla commissione del reato di cui il ricorrente, omettendo il confronto con quanto chiaramente affermato al
foglio 5 della sentenza, lamenta la mancata indicazione);
la crisi d’impresa, quand’anche non imputabile all’imprenditore, non esclude il dolo del reato tributario, soprattutto quando, come nella specie accertato, la stessa si trascini per alcuni anni senza che le iniziative adottate per il risanamento sortiscano effetto; l’utilizzo di risorse patrimoniali di famiglia e la rinuncia ai compensi spettanti al ricorrente quale amministratore erano marginali rispetto alle necessità finanziarie dell’impresa e, comunque, quelle risorse non erano state utilizzate, neppure parzialmente, per pagare i debiti
fiscali.
Si aggiunga che è del tutto generico il rilievo circa il momento della formale contestazione degli omessi
versamenti, trattandosi di debito ben noto all’imprenditore.
1.3. La sentenza, rispondendo logicamente alle censure dedotte con il gravame, ha fatto dunque corretta applicazione della consolidata giurisprudenza di questa Corte in tema di reati di omesso versamento di ritenute certificate ed IVA, previsti dagli artt. 10-bis e 10-ter del d.lgs. n. 74 del 2000, secondo cui l’elemento soggettivo richiesto per l’integrazione del delitto è il dolo generico (Sez. 3, n. 3098 del 05/11/2015, dep. 2016, Vanni, Rv. 265939), configurabile anche nella forma del dolo eventuale (Sez. 3, n. 34927 del 24/06/2015, Alfieri, Rv. 264882), integrato dalla condotta omissiva posta in essere nella consapevolezza della sua illiceità, a nulla rilevando i motivi della scelta dell’agente di non versare il tributo
(Sez. 3, n. 8352 del 24/06/2014, dep. 2015, Schirosi, Rv. 263127).
L’inadempimento della obbligazione tributaria può escludere la punibilità ed essere attribuito a forza maggiore solo quando derivi da fatti non imputabili all’imprenditore che non abbia potuto tempestivamente porvi rimedio per cause indipendenti dalla sua volontà e che sfuggono al suo dominio finalistico (Sez. 3, n. 8352/2015 del 24/06/2014, Schirosi, Rv. 263128), ciò che la sentenza impugnata ha convincentemente escluso, anche in relazione alla pluriennale protrazione dell’inadempimento, osservando che se l’irrimediabilità si sarebbe potuta semmai prospettare per il reato relativo all’anno d’imposta 2010 (dichiarato prescritto) essa certamente non era predicabile per le due annualità successive oggetto della
conferma della sentenza di condanna.
2. Il secondo motivo di ricorso è manifestamente infondato.
Correttamente la sentenza impugnata ha richiamato il consolidato orientamento di questa Corte secondo cui i motivi nuovi proposti a sostegno dell’impugnazione devono avere ad oggetto a pena di inammissibilità, i capi o i punti della decisione impugnata già investiti dall’atto di impugnazione originario (Sez. 2, n. 17693 del 17/01/2018, Corbelli, Rv. 27282, ove si è affermato che costituisce motivo nuovo non ammissibile la doglianza riguardante l’affermazione dell’elemento oggettivo nel caso in cui con il ricorso originario era stata contestata la sola sussistenza dell’elemento soggettivo; Sez. 2, n. 53630 del 17/11/2016, Braidic, Rv.
268980; Sez. 6, n. 27325 del 20/05/2008, D’Antino, Rv. 240367).
Contrariamente a quanto allega il ricorrente, quando – come nel caso di specie – l’impugnazione riguardi, nell’ambito dell’affermazione della penale responsabilità per il capo della sentenza avente ad oggetto il reato continuato oggetto di addebito, il solo punto concernente l’elemento soggettivo (oltre che, come di seguito si dirà, il subordinato profilo del trattamento sanzionatorio con particolare riguardo all’applicazione di una circostanza attenuante), i motivi nuovi proponibili a norma dell’art. 585, comma 4, cod. proc. pen. possono
riguardare esclusivamente il punto fatto oggetto dell’originario gravame.
Non essendo stata contestata, nel termine previsto per la proposizione dell’appello, la sussistenza dell’elemento oggettivo del reato ritenuto, è dunque stata correttamente ritenuta inammissibile la tardiva devoluzione di tale nuovo, e diverso, punto della decisione, essendo necessaria la sussistenza di una connessione funzionale tra i motivi nuovi e quelli originari (Sez. 6, n. 6075 del 13/01/2015, Comitini, Rv. 262343; Sez. 6, n. 45075 del 02/10/2014, Sabbatini, Rv. 260666; Sez. 1, n. 5182 del 15/01/2013, Vatavu, Rv.
254485).
Ed invero, proprio al fine del rispetto dei tassativi termini per l’impugnazione, la facoltà dell’impugnante di presentare motivi nuovi incontra il limite del necessario riferimento ai motivi principali dei quali i motivi ulteriori devono rappresentare mero sviluppo o migliore esposizione, anche per ragioni eventualmente non evidenziate, ma sempre ricollegabili ai capi e ai punti già dedotti, con la conseguenza che sono ammissibili soltanto motivi aggiunti con i quali, a fondamento del petitum dei motivi principali, si alleghino ragioni di carattere giuridico diverse o ulteriori, ma non anche motivi con i quali si intenda allargare l’ambito del predetto petitum, introducendo censure non tempestivamente formalizzate entro i termini per l’impugnazione
(Sez. 2, n. 1417 del 11/10/2012, dep. 2013, Platamone e a., Rv. 254301).
3. Il terzo motivo di ricorso è invece fondato.
La sentenza impugnata, dopo aver dato atto che l’appellante aveva richiesto, in via subordinata, l’applicazione della circostanza attenuante dell’aver agito per motivi di particolare valore sociale (vale a dire, in un contesto “difficilissimo”, rinunciando ai propri compensi e orientando il proprio comportamento a garantire diritti costituzionalmente garantiti, in particolare quello al lavoro), non analizza le allegazioni addotte per verificare se le stesse integrino oppure no la circostanza attenuante di cui all’art. 62, n. 1), cod. pen., ma si limita a sostenere che il trattamento sanzionatorio era congruo e che il primo giudice aveva concesso le circostanze attenuanti generiche tenendo già conto di “tutte le motivazioni addotte dalla difesa” e
“della particolarità della vicenda e del comportamento dell’imputato”.
3.1. Rileva il Collegio che l’art. 62 bis, primo comma, cod. pen. individua le circostanze attenuanti generiche che possono essere prese in considerazione dal giudice al fine di diminuire la pena innanzitutto con una definizione in negativo rispetto alle circostanze attenuanti comuni già enucleate dal legislatore: «il giudice, indipendentemente dalle circostanze previste nell’articolo 62, può prendere in considerazione altre circostanze diverse…». Si aggiunge che l’attenuante di cui all’art. 62 bis cod. pen. «può anche concorrere con una o più delle circostanze indicate nel predetto articolo 62». Dalla disposizione, dunque, si ricava l’ontologica differenza e l’autonomia concettuale tra le circostanze attenuanti comuni (o speciali) e quelle generiche di cui all’art. 62 bis cod. pen., con l’inevitabile conseguenza che laddove sussistano elementi che integrano le diverse ipotesi circostanziate le stesse concorrono, mentre se i fattori considerati sono idonei ad integrare una circostanza attenuante comune o speciale si deve comunque ritenere la sussistenza di quest’ultima, quand’anche – secondo una tesi non incontroversa – i medesimi elementi possano magari essere valutati pure al fine di concedere le circostanze attenuanti generiche (in quest’ultimo senso, con precisazione dei relativi limiti, Sez. 1, n. 9950 del 06/05/1994, Licata, Rv, 199739; più di recente, Sez. 3, n. 31832 del 04/05/2018, Ozzimo, Rv. 273763; contra, Sez. 6, n. 10376 del 02/07/1992, Castiglia e a., Rv. 192109; più di recente, Sez. 6, n. 49820 del 05/12/2013, Billizzi e aa., Rv. 258136; Sez. 6, n. 43890 del 21/06/2017, Aruta e
aa., Rv. 271099).
Se per il riconoscimento dell’attenuante di cui all’art. 62 bis cod. pen. possono essere utilizzate anche ragioni che, pur non bastevoli a determinare l’integrazione di un’ipotesi circostanziata altrimenti codificata per difetto di tutti i suoi elementi costitutivi, sono comunque valorizzabili sul piano delle circostanze generiche (v., ad es., quanto al parziale risarcimento del danno, Sez. 6, n. 34522 del 27/06/2013, Vinetti, Rv. 256134), l’ipotesi residuale – in quanto sussidiaria – non potrà mai valere ad escludere l’applicazione di una fattispecie
circostanziale di cui sussistano tutti i presupposti.
3.2. Calando questi principi nella valutazione del caso di specie, deve allora ritenersi che la sentenza impugnata sarebbe conforme a diritto se gli elementi addotti dalla difesa non fossero sufficienti ad integrare
la circostanza dell’aver agito per motivi di particolare valore sociale.
Laddove, invece, lo fossero, occorrerebbe riconoscere la sussistenza della circostanza attenuante di cui all’art. 62, n. 1), cod. pen., indipendentemente dal fatto che gli stessi elementi siano stati considerati anche nel più ampio giudizio relativo alla ritenuta sussistenza delle circostanze attenuanti generiche, non essendovi peraltro stato, sul punto, appello del pubblico ministero, neppure incidentale (in allora proponibile, alla luce degli artt. 593, comma 1, e 595, comma 1, cod. proc. pen., prima delle modifiche apportate con d.lgs. 6 febbraio 2018, n. 11). L’accertamento di cui sopra necessita di una valutazione di merito che nella specie è
mancata e rispetto alla quale la sentenza impugnata non reca motivazione.
Non essendo i reati prescritti, deve dunque procedersi all’annullamento della sentenza limitatamente al punto in esame, con rinvio ad altra sezione della Corte d’appello di Trieste. Dovendosi nel resto rigettato il ricorso, ai sensi dell’art. 624, comma 2, cod. proc. pen., va dichiarata l’irrevocabilità dell’accertamento di
responsabilità.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata limitatamente al punto concernente l’attenuante di cui all’art. 62 n. 1 cod.
Visto l’art. 624 cod. proc. pen. dichiara la irrevocabilità della sentenza in ordine alla affermazione della penale responsabilità
dell’imputato.
Così deciso il 21 novembre 2019.