Evasione e carico fiscale sulle imprese: due record indesiderati per l’Italia
Secondo il rapporto “Paying Taxes” di PwC, diffuso di recente a Varsavia con la Banca Mondiale e presentato anche a Roma al Ministero Economia e Finanze, nel nostro Paese il carico fiscale per le imprese è pari al 64,8% dei profitti commerciali nel 2014 (in miglioramento sul 2013), con le ultime iniziative che rappresentano un buon segnale di miglioramento.
Riguardo al risultato mondiale, se si misura il peso fiscale in termini costi e di obblighi e adempimenti amministrativi, l’Italia si piazza al posto n. 137 (nel mondo), mentre per il total tax rate – il carico fiscale per le imprese – siamo i primi in Europa.
Oggetto del rapporto PwC sono state 189 economie e 3 indicatori: Tax rate, Time to comply (tempo dedicato al Fisco) e Number of payments (numero di pagamenti). Il primo indicatore ci vede in pole position, nel secondo abbiamo 269 ore l’anno contro una media mondiale di 261 ore e una Ue ed Efta (European Free Trade Association) di 173, per il terzo ci sono 14 pagamenti rispetto ai 25,6 nel mondo e gli 11,5 europei.
La Direttrice del Dipartimento Politiche Fiscali del Mef, Fabrizia Lapecorella, ha osservato che il rapporto “non riflette le riforme degli ultimi due anni, che avranno sicuramente un effetto”, segnalando inoltre che “negli ultimi 10 anni l’Italia ha mostrato un costante miglioramento dal 76,9% al 64,8%”. Su questa percentuale il costo del lavoro vale circa 40 punti, mentre la media mondiale del tax rate è 40,8%; in questa classifica siamo all’ultimo posto in Europa.
Lapecorella ha poi evidenziato le riforme che potranno migliorare la nostra posizione nei prossimi rapporti della Banca Mondiale, visto che produrranno i loro effetti a partire dal 2015: per il Mef incideranno sul peso fiscale complessivo le misure introdotte con la legge di Stabilità, il taglio dell’Ires e i maxi ammortamenti, oltre a quelle della manovra precedente, come il credito d’imposta, l’eliminazione della componente Irap dal costo del lavoro e il patent box. Al riguardo, secondo PwC il contributo più importante è quello che si aspetta dagli sgravi sui contributi per i neoassunti a tempo indeterminato e inoltre “ci sono misure che avranno un impatto sul ranking italiano e altre che contribuiranno a dare una spinta agli investimenti esteri in Italia. Le aliquote non sono il principale driver per gli investimenti in un Paese. Contano di più alcuni incentivi specifici, e il patent box va ad esempio in questa direzione. Ma quello che conta è anche la stabilità delle norme, la certezza della loro interpretazione e una interlocuzione di buona qualità con l’amministrazione. E il gap tra amministrazione e imprese estere in Italia si sta riducendo”. Questi aspetti, ha ricordato Lapecorella, sono stati affrontati con l’attuazione della delega fiscale, “a partire dalla cooperative compliance che per ora riguarda le imprese di grandi dimensioni ma con il tempo riguarderà anche le altre”.
Evasione fa rima anche con “complicazione”
Nel nostro Paese le cifre dell’evasione – secondo la Confindustria, ma non solo – parlano di 122 miliardi l’anno e costituiscono un problema molto serio, tanto che nel primo discorso di fine anno il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha definito la situazione “inaccettabile”.
Non che il fenomeno sia ascrivibile esclusivamente alla complessità delle norme e del linguaggio fiscale, ma questa, aggiunta ad altrettanto significativi elementi quali – tra gli altri – l’insopportabile peso delle imposte, la mancanza di una cultura della partecipazione alla spesa pubblica, la spesso inefficace lotta condotta dagli organi preposti e le infiltrazioni della criminalità, fa sì che un fenomeno fisiologico in tutte le economie progredite, da noi diventi patologico.
In occasione di un’audizione al Senato del 2015, uno studio di Confartigianato ha approfondito il tema della quantità di leggi e circolari emanate in materia fiscale e di quanto possano complicare la vita di cittadini e imprese, il che la dice lunga sull’attualità del problema.
Ma facciamo un passo indietro e torniamo a poco meno di trent’anni fa, spettatori di un’altra audizione parlamentare, nel corso della quale l’allora Ministro delle Finanze, Antonio Gava, accendeva i riflettori su una grande realtà, affermando: “La prima cosa, urgentissima, per potenziare la lotta all’evasione fiscale, è la semplificazione del sistema tributario”: eravamo nel 1987. Per il passaggio successivo dovevano passare sei anni, e nel 1993 il suo successore, Franco Reviglio, firmava il decreto che istituiva una “Commissione per la semplificazione della normativa fiscale”. Sembrava essere l’alba di una stagione finalmente diversa, per i contribuenti italiani: dal 740, definito “lunare” per la complessità e l’astrusità del linguaggio delle relative istruzioni, si passava al modello semplificato, il 730, ma non era l’unica novità. Nell’allora Ministero delle Finanze veniva istituito il Segretariato Generale, guidato inizialmente da Giorgio Benvenuto: una nuova struttura con grandi ambizioni e obiettivi in termini di cambiamento epocale nel rapporto fisco-contribuente. Basti pensare che tra quelli che lo componevano c’era un “Ufficio per lo sviluppo della coscienza civica e per l’informazione del contribuente”, nel tempo diventato Ufficio per l’informazione del contribuente, con un Direttore da molti considerato “rivoluzionario”, Giancarlo Fornari. I funzionari di questo ufficio pubblicavano opuscoli informativi, partecipavano a trasmissioni radio e tv nelle quali si chiarivano i dubbi e si rispondeva alle domande della gente, si allestivano stand nelle piazze delle nostre città, dove gli stessi (motivati) funzionari fornivano spiegazioni, aiutavano a compilare la dichiarazione dei redditi, distribuivano materiale informativo e fornivano assistenza “sul campo” ai cittadini, dapprima un po’ stupiti e incuriositi, poi sempre più interessati e grati.
Passano gli anni… e la Commissione del Ministro Reviglio? … Non rimane traccia di qualcosa di significativo, scomparsa nel nulla…
Gli introiti illeciti della criminalità
E’ evidente che chi commette reati che fruttano miliardi di euro dovrebbe “pagare” sia in termini penali che fiscali, perché la sola confisca dei beni appare insufficiente, considerato che attualmente le cifre parlano di proventi illeciti confiscati per 800 milioni di euro su 150 miliardi, circa il 2% del totale. Dal punto di vista normativo è in vigore la legge n. 537/93, che al comma 4 dell’art. 14 sancisce che devono essere soggetti a tassazione i proventi derivanti da fatti, atti o attività qualificabili come illecito civile, penale o amministrativo, se non già sottoposti a sequestro o confisca penale: da più parti si auspica un intervento legislativo che introduca una norma ad hoc ed esplicita che metta ordine in tema di proventi illeciti, armonizzata con quelle in materia di sequestro e confisca. In tal senso viene considerato un passo importante il varo della legge n. 136/2010, che prevede che le indagini fiscali, economiche e patrimoniali, per procedere ad accertamenti fiscali ai fini delle imposte sui redditi e dell’IVA, possono essere avviate nei confronti di indiziati di appartenere ad associazioni di stampo mafioso, ma anche di sospettati di crimini compiuti in forma organizzata – con la partecipazione di tre o più componenti – come l’introduzione e il commercio di prodotti falsi, lo sfruttamento della prostituzione, i sequestri di persona, ecc.