CASSAZIONE

E’ riciclaggio anche quando si effettua la sostituzione del microchip a un cane

Reato a forma libera – Riciclaggio – Delitto non colposo ex art. 648-bis c. p. – Frode – Appropriazione di animale – Caso fortuito – Ex art. 647 cod. pen. – Insussistenza

Con la sentenza n. 9533 del 21 marzo 2022 la Corte di Cassazione ha offerto alcune importanti precisazioni in ordine alla configurabilità del delitto di riciclaggio, affermando che tale reato, di cui all’art. 648-bis c.p., è integrato non soltanto dalle condotte tipiche di sostituzione o trasformazione del bene di origine illecita ma, anche, secondo la testuale dizione contenuta nella norma, “… da ogni altra operazione diretta ad ostacolare l’identificazione dell’origine delittuosa del bene”.

In buona sostanza gli Ermellini con questa sentenza, che seppur non è strettamente collegata alla sfera tributaria, hanno l’indubbio pregio di cogliere esattamente il momento in cui l’illecito si trasforma in reato, stabilendo che quando ci si appropria di un cane smarrito sostituendone il microchip al fine di non renderlo identificabile, l’imputato ha integrato il delitto di riciclaggio. Come sottolineano i Supremi Giudici, è proprio attraverso questa attività che si tenta di far perdere le tracce della provenienza dell’animale e di tutte quelle informazioni che lo definiscono e riguardano.

L’odierna pronuncia anticipa di poche ore una sentenza gemella, la n. 9646 – emessa nella stessa giornata del 21 marzo e a cui rimandiamo la lettura completa nella sezione “News” della corrente pubblicazione – con la quale la Suprema Corte ha ammesso che anche dei semplici prelievi o bonifici bancari possono configurare una condotta di riciclaggio. Entrambe hanno voluto ricordare alcuni validi principi già enunciati dalla giurisprudenza di legittimità. 

Uno sguardo alla recente giurisprudenza della Suprema Corte ci porta alla sentenza n. 1750/2021, che si era soffermata in particolar modo sugli aspetti legati alla struttura oggettiva della fattispecie di cui all’art. 648-bis del codice penale, che punisce chi, “… fuori dei casi di concorso nel reato, sostituisce o trasferisce denaro, beni o altre utilità provenienti da delitto non colposo, ovvero compie in relazione ad essi altre operazioni, in modo da ostacolare l’identificazione della loro provenienza delittuosa”.

A ben guardare, come peraltro ampiamente sostenuto dalla giurisprudenza, gli Ermellini hanno ritenuto che questo reato richiede, pur essendo a forma libera, che le attività poste in essere sul denaro, bene o utilità di provenienza delittuosa, siano specificamente dirette alla sua trasformazione parziale o totale, ovvero siano dirette a ostacolare l’accertamento sull’origine delittuosa della res, anche senza incidere direttamente, mediante alterazione dei dati esteriori, sulla cosa in quanto tale.

La decisione in esame è assai interessante nella parte in cui, citando precedenti conformi, la S.C. nell’interpretare detta seconda parte del primo comma dell’art. 648-bis cod. pen. nel caso di appropriazione di animali e trattandosi di reato a forma libera, ha correttamente riconosciuto a carico del ricorrente il delitto di riciclaggio, dopo che i giudici di merito hanno debitamente ricostruito le modalità di sostituzione da parte del medesimo del microchip – che è indubbiamente elemento identificativo dell’animale e del suo proprietario – al fine di non rendere individuabile la provenienza delittuosa dell’animale.

In effetti anche la Corte d’Appello aveva fatto propria la prospettazione accusatoria secondo la quale l’imputato, al fine di ostacolare l’individuazione della provenienza delittuosa del cane (un pastore tedesco a pelo lungo) aveva sostituito il microchip all’animale apponendovi altro chip con numero corrispondente a un pastore tedesco a pelo corto di sua proprietà.

Quello che appare necessario, invece, ai fini dell’affermazione della responsabilità per il reato di riciclaggio ma anche per i delitti di ricettazione e autoriciclaggio, è che il reato presupposto risulti, alla stregua degli elementi di fatto acquisiti, almeno astrattamente configurabile e questo non si verifica se il giudice si limita a supporne l’esistenza sulla base del carattere sospetto delle operazioni relative ai beni e ai valori oggetto del delitto.

I furti e le appropriazioni illecite degli animali da compagnia, in massima parte dei cani, sono certamente in aumento e il fenomeno, con le conseguenze immaginabili, non sfugge all’attenzione della Suprema Corte di legittimità. Inoltre, la distinzione di diverse categorie giuridiche di appartenenza degli animali rileva non tanto da un punto di vista descrittivo, quanto piuttosto al fine di consentire l’esatta individuazione delle norme da applicare agli animali stessi nelle diverse circostanze in cui essi siano coinvolti e resi oggetto del diritto. Sebbene la posizione giuridica classifica gli animali secondo un determinato criterio, è importante ricordare la considerazione degli stessi come esseri senzienti verso la quale si orienta il codice penale. 

Pertanto, come nell’odierna pronunzia, i Giudici hanno voluto specificare le fattispecie interessate e le differenze previste dal codice per l’animale mansuefatto, cioè quell’animale  addomesticato, che è abituato a tornare presso il luogo in cui usualmente vive, ricordando che in base all’art. 925 del Codice civile, l’animale mansuefatto “diventa di appartenenza di chi se ne è impossessato se non reclamato entro venti giorni dal momento in cui il proprietario ha conoscenza del luogo in cui si trova”, con l’animale domestico, come quello in oggetto, che non rientra tra quelli mansuefatti perché dipende totalmente dall’uomo per il sostentamento, il ricovero e le cure e che possono essere acquisiti in proprietà privata.

Nel caso specifico, poi, il padrone aveva cercato l’animale, e una volta trovato questo l’aveva riconosciuto e gli aveva fatto le feste: indizi, questi, di colpevolezza verso l’imputato, ma mai come la prova del DNA che ha comparato il pelo del pastore tedesco con il sangue dei genitori.

Tanto premesso e tornando alla vicenda in dibattimento, la Corte di Appello confermava la condanna alla pena ritenuta di giustizia pronunciata dal Tribunale nei confronti dell’imputato S. P. in relazione al reato di riciclaggio di un cane di provenienza illecita, confermando altresì le statuizioni civili in favore della parte civile P.M. Secondo quanto prospettato in sede di dibattimento l’imputato, al fine di ostacolare l’individuazione della provenienza delittuosa del cane di razza pastore tedesco a pelo lungo chiamato Yago contraddistinto con il microchip 380260041092107 sottratto al M., aveva sostituito il microchip all’animale apponendovi quello con il numero 380260040568778 corrispondente a un pastore tedesco a pelo corto già di proprietà dell’imputato, di nome Hotel.

Contro la sentenza l’imputato propone due ricorsi per Cassazione, nei quali essenzialmente si duole per l’assenza di prova circa il reato presupposto da cui desumere la provenienza illecita del cane, in quanto lo stesso doveva essere ritenuto res nullius posto che il proprietario non ne aveva preventivamente e formalmente richiesto la restituzione, con la conseguenza che avendo l’imputato acquisito la proprietà dell’animale ex art. 925 c.c. difettavano i presupposti del reato di riciclaggio, sia sotto il profilo oggettivo che sotto il profilo soggettivo. I Supremi Giudici non hanno ritenuto valide le osservazioni della difesa, in quanto “… La corte territoriale ha evidenziato come numerosi dati istruttori deponevano nel senso della sostituzione del microchip del cane di proprietà della parte civile, valutando unitariamente una serie di elementi indiziari quali: la condotta dell’ animale che aveva manifestato di riconoscere i padroni signori M., estrinsecando chiari segni di affetto; il fatto che si era avvicinato al recinto allorquando era stato chiamato con il suo nome “Yago”; i comportamenti anomali dell’imputato allorquando il M. aveva mostrato di avere riconosciuto il cane suddetto culminati con l’ affermazione che tale cane era in vendita per un prezzo esorbitante; il fatto che il veterinario, in un primo momento, dopo accurate indagini non aveva rinvenuto alcun microchip sull’ animale trovato presso il canile dell’ imputato; la ricomparsa di un microchip poche ore dopo detta visita la sparizione dell’ animale dopo che l’ imputato era stato edotto dalle forze dell’ordine della necessità di ulteriori accertamenti, cane asseritamente fuggito nonostante si trovasse in un canile con muri alti almeno due metri; gli esiti dell’esame del DNA sul pelo dell’ animale nella disponibilità dell’ imputato effettuati tramite comparazione con il sangue dei genitori del cane lago che avevano confermato trattarsi del pastore tedesco di proprietà del M. In ordine alla configurabilità del reato contestato deve essere ricordato che il delitto di riciclaggio di cui all’art. 648 bis cod. pen. è integrato non soltanto dalle condotte tipiche di sostituzione o trasformazione del bene di origine illecita ma, altresì, secondo la testuale dizione contenuta nella norma, “da ogni altra operazione diretta ad ostacolare l’identificazione” dell’origine delittuosa del bene. Nell’interpretare detta seconda parte del primo comma dell’art. 648 bis cod. pen. la Corte di Cassazione ha già avuto modo di precisare che la disposizione di cui all’art. 648 bis cod.pen. pur configurando un reato a forma libera, richiede che le attività poste in essere sul denaro, bene od utilità di provenienza delittuosa siano specificamente dirette alla sua trasformazione parziale o totale, ovvero siano dirette ad ostacolare l’accertamento sull’origine delittuosa della res, anche senza incidere direttamente, mediante alterazione dei dati esteriori, sulla cosa in quanto tale (Sez. 2, n. 47088 del 14/10/2003, Rv. 227731). Appare, allora, evidente, trattandosi di reato a forma libera, che correttamente è stato riconosciuto a carico del ricorrente il delitto di riciclaggio, dopo che i giudici di merito hanno debitamente ricostruito le modalità di sostituzione da parte del medesimo del microchip – che è indubbiamente elemento identificativo dell’animale e del suo proprietario – al fine di non rendere individuabile la provenienza delittuosa dell’animale. Quanto al reato presupposto pur ipotizzando che il cane si fosse allontanato da solo, nella specie sarebbe comunque ravvisabile la fattispecie di furto, essendo il cane del M., secondo quanto incontroverso, dotato di segni che ne rendevano individuabile il proprietario in ogni caso (vedi Sez. 5, Sentenza n. 1710 del 06/10/2016 Ud. (dep. 13/01/2017) Rv. 268910 ed anche a voler ricondurre il fatto alla fattispecie ex art. 647 c.p., come sottolineato dai giudici di merito, resta il reato presupposto, risultando del tutto ininfluente in tal senso la depenalizzazione, solo sopravvenuta (conf. ex multis Cass. Pen. Sez. 2, 32775, 30/6/2021, Briglia; Cass. Pen. Sez. 2, 18710, 15/12/2016, Giordano). A fronte della ricostruzione della condotta delittuosa in esame, operata in modo conforme da entrambi i giudici di merito con argomentazioni che non appaiono né carenti né illogiche né contraddittorie la tesi del ricorrente (il quale nega sostanzialmente la valenza dei suddetti elementi indiziari, offrendone una lettura parziale e fortemente parcellizzata) non mira a contestare la logicità dell’impianto argomentativo delineato nella motivazione della decisione impugnata, ma si risolve nella contrapposizione, a fronte del giudizio espresso dai giudici di merito, di una alternativa ricostruzione dei fatti, evidentemente sottratta alla delibazione di questa Suprema Corte in ragione dei limiti posti alla cognizione di legittimità dall’art. 606 cod. proc. pen. Né può ritenersi fondata la censura di mancato coordinamento con la normativa specifica di cui all’ art. 925 c.c. che prevede che l’animale diventi di appartenenza di chi se ne è impossessato se non reclamato entro venti giorni dal momento in cui il proprietario ha conoscenza del luogo in cui l’animale si trova. Va premesso che tale censura risulta oggetto di specifica articolazione solo con l’odierno ricorso, con quanto ne consegue in termini di ammissibilità per i profili in fatto che involge .Deve, comunque, rilevarsi che la tesi appare, in ogni caso, priva di fondamento alcuno. Questo Collegio non ignora il precedente orientamento secondo cui l’acquisizione del possesso di un cane che si sia “smarrito” può essere fatta rientrare fra le ipotesi di “caso fortuito” di cui all’art. 647 cod. pen., dovendo tale ultima disposizione essere coordinata con l’art. 925 cod. civ. che prevede l’acquisto della “proprietà” dell’animale mansuefatto da parte di chi se ne sia impossessato qualora l’animale non sia stato reclamato entro venti giorni da quando il proprietario ha avuto conoscenza del luogo ove esso si trova. (Sez. 2, Sentenza n. 18749 del 05/02/2013 Ud. (dep. 29/04/2013) Rv. 255762 – 01. Purtuttavia non può non considerarsi che gli animali “mansuefatti” cui fa riferimento la norma codicistica sono quelli che hanno acquisito una consuetudo revertendi mentre sono esclusi da tale fattispecie gli animali domestici (fra i quali rientra certamente il cane), la cui proprietà non può acquistarsi per occupazione; a quest’ultimo proposito va segnalato che, in passato, con riferimento ai cavalli, la giurisprudenza di legittimità ha affermato che tali animali non appartengono alla categoria degli animali mansuefatti, per la rivendicazione dei quali, da chi li abbia presi, è fissato il termine utile di venti giorni dall’art. 925 cod. civ. (vedi Cass. Civ. 14 dicembre 1950 n. 2723). Deve aggiungersi la considerazione che, come segnalato dalla P.G., in ogni caso la norma concerne la diversa ipotesi di allontanamento spontaneo di animali che, senza interventi di terzi, si inseriscano in fondi altrui permanendovi non reclamati laddove i giudici di merito hanno ampiamente argomentano sui plurimi ed insistenti comportamenti posti in essere, nella immediatezza, dal M., per il ritrovamento e recupero dell’animale, anche con l’ausilio della forza pubblica, recupero non riuscito solo per effetto delle condotte ostruzionistiche e fraudolente del P. Per le considerazioni esposte, dunque, i ricorsi devono essere rigettati con condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali”.

Corte di Cassazione – Sentenza 21 marzo 2022, n. 9533

sul ricorso proposto da:

P. S. nato a VILLANOVA MONTELEONE il 19/02/1959 avverso la sentenza del 10/07/2019 della CORTE APPELLO di CAGLIARI

visti gli atti, il provvedimento impugnato ed il ricorso;

udita la relazione svolta dal Consigliere FABIO DI PISA; lette le conclusioni scritte ai sensi dell’art. 23 co.8 D.L. n. 137/2020 formulate dal Sostituto Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione, nella persona di MARIA GIUSEPPINA FODARONI, che ha concluso per la declaratoria di inammissibilità del ricorso

RITENUTO IN FATTO

1. La Corte di appello di Cagliari, con sentenza in data 10/07/2019, confermava la condanna alla pena ritenuta di giustizia pronunciata dal Tribunale di Oristano 23/11/2018 nei confronti di S. P. in relazione al reato di riciclaggio di un cane di provenienza illecita, confermando, altresì, le statuizioni civili in favore della parte civile P. M.

Seconda prospettazione accusatoria, fatta propria dai giudici di merito, l’imputato al fine di ostacolare la individuazione della provenienza delittuosa del cane di razza pastore tedesco a pelo lungo chiamato Yago contraddistinto con il microchip 380260041092107 sottratto al M. aveva sostituito il microchip all’ animale apponendovi quello con il numero 380260040568778 corrispondente ad un pastore tedesco a pelo corto già di proprietà dell’imputato di nome Hotel.

2. Contro detta sentenza l’imputato propone due ricorsi per cassazione.

2.1 Con un primo ricorso a firma dell’Avv. Angelo Battista Mario Marras formula quattro motivi.

Con il primo motivo deduce, ai sensi dell’art. 606 lett. c) c.p.p., violazione dell’art. 97 comma 4 c.p.p. Assume che erroneamente la corte di appello aveva rigettato l’eccezione di nullità della sentenza di primo grado, già tempestivamente formulata, in ragione della mancata comunicazione dell’ordinanza di rinvio a seguito del disposto differimento dell’udienza per legittimo impedimento del difensore dell’imputato.

Con il secondo motivo deduce, ex art. 606 lett. b) c.p.p., violazione degli artt. 648 bis e 647 c.p., lamenta che i giudici di merito, nel configurare il contestato riciclaggio individuando quale reato presupposto quello di cui all’ art. 647 c.p. non avevano esaminato la specifica censura relativa alla rilevanza del disposto di cui all’ art. 925 c.c., non chiarendo in modo preciso quando il cane era stato smarrito e quanto era stato rivendicato dall’ avente diritto né se la relativa richiesta era stata effettuata nei termini di cui all’ art. 925 c.c.

Con il terzo motivo deduce, ex art. 606 lett. e) c.p.p., vizio di motivazione per mancanza, illogicità e contraddittorietà nella parte in cui era stato ritenuto che il cane smarrito dalla persona offesa fosse quello rinvenuto nella disponibilità dell’imputato.

Osserva che gli elementi probatori indicati dai giudici di merito non erano idonei, sotto detto profilo, a far ritenere provata la responsabilità dell’imputato oltre ogni ragionevole dubbio, risultando il percorso argomentativo contraddittorio e lacunoso quanto alla esatta individuazione del cane.

Con il quarto motivo deduce, ex art. 606 lett. b) ed e) c.p.p., erronea applicazione dell’art.647 c.p. nonché vizio di motivazione dal momento che il cane suddetto doveva essere ritenuto “res nullius”.

Lamenta che i giudici di merito, nel ritenere configurabile, il contestato riciclaggio individuando quale reato presupposto quello di cui all’ art. 647 c.p. non avevano esaminato la specifica censura relativa vizio di motivazione con riferimento alla ritenuta responsabilità per il reato contestato in assenza di prova circa il reato presupposto da cui desumere la provenienza illecita del cane in quanto lo stesso doveva essere ritenuto “res nullius” posto che il proprietario non ne aveva preventivamente e formalmente richiesto la restituzione, con la conseguenza che avendo l’ imputato acquisito la proprietà dell’ animale ex art. 925 c.c. difettavano i presupposti del reato di riciclaggio sia sotto il profilo oggettivo che sotto il profilo soggettivo.

2.2 Con un secondo ricorso a firma dell’Avv. Gianfranco Sollai deduce, con un unico motivo, violazione dell’art. 97 comma 4 c.p.p. formulando una censura sovrapponibile al primo motivo del suindicato ricorso.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. I ricorsi non possono trovare accoglimento.

2. Osserva la Corte che il motivo, comune ai due ricorsi, relativo alla violazione dell’art. 97 comma 4 c.p.p. è manifestamente infondato.  Deve, infatti, in questa sede darsi continuità all’ orientamento secondo cui “Il difensore che abbia ottenuto la sospensione o il rinvio della udienza per legittimo impedimento a comparire ha diritto all’avviso della nuova udienza solo quando non ne sia stabilita la data già nella ordinanza di rinvio, posto che, nel caso contrario, l’avviso è validamente recepito, nella forma orale, dal difensore previamente designato in sostituzione, ai sensi dell’art. 97, comma quarto, cod. proc. pen., il quale esercita i diritti ed assume i doveri del difensore sostituito e nessuna comunicazione è dovuta a quest’ultimo” (Cass. Pen. Sez. Un. 8285, 28/2/2006, Grassia; conf. Cass. Pen. Sez. 3, 30466, 13/5/2015, Calvaruso; Cass. Pen. Sez. 5, 26168, 11/5/2010, Terlizzi).  Nel caso in esame essendo stato designato in udienza un sostituto del legale di fiducia, secondo quanto è dato evincere dal verbale in atti, il quale ha avuto contezza della data di rinvio nessun avviso andava comunicato al difensore dell’imputato.

3. Gli ulteriori motivi del ricorso a firma dell’Avv. Angelo Battista Mario Marras, da esaminare congiuntamente in quanto fra loro connessi, contengono censure in parte prive di fondamento ed in parte manifestamente infondate.

3.1 Osserva la Corte che decisione gravata (la cui struttura motivazionale – concordando nell’analisi e nella valutazione degli elementi di prova posti a fondamento delle rispettive decisioni – si salda con quella con quella dei giudici di primo grado), sfugge a qualsivoglia censura di vizio di motivazione, non palesandosi, in particolare, alcun deficit argomentativo o passaggio ex se contraddittorio o alcun elemento di prova che si presenti slegato o non coordinato rispetto agli altri ovvero disancorato dal contesto complessivo.  I giudici di merito hanno chiarito le ragioni per cui doveva ritenersi dimostrato che l’imputato, al fine di ostacolare la individuazione della provenienza delittuosa del cane di razza pastore tedesco a pelo lungo chiamato Yago contraddistinto con il microchip 380260041092107 sottratto al proprietario P. M., aveva sostituito il microchip apponendovi quello con il numero 380260040568778 corrispondente ad un pastore tedesco a pelo corto già di proprietà dell’imputato di nome Hotel, così risultando integrato il reato di riciclaggio. La corte territoriale ha evidenziato come numerosi dati istruttori deponevano nel senso della sostituzione del microchip del cane di proprietà della parte civile, valutando unitariamente una serie di elementi indiziari quali: la condotta dell’animale che aveva manifestato di riconoscere i padroni signori M., estrinsecando chiari segni di affetto; il fatto che si era avvicinato al recinto allorquando era stato chiamato con il suo nome “Yago”; i comportamenti anomali dell’imputato allorquando il M. aveva mostrato di avere riconosciuto il cane suddetto culminati con l’ affermazione che tale cane era in vendita per un prezzo esorbitante; il fatto che il veterinario, in un primo momento, dopo accurate indagini non aveva rinvenuto alcun microchip sull’animale trovato presso il canile dell’imputato;  la ricomparsa di un microchip poche ore dopo detta visita la sparizione dell’ animale dopo che l’ imputato era stato edotto dalle forze dell’ordine della necessità di ulteriori accertamenti, cane asseritamente fuggito nonostante si trovasse in un canile con muri alti almeno due metri;  gli esiti dell’esame del DNA sul pelo dell’ animale nella disponibilità dell’ imputato effettuati tramite comparazione con il sangue dei genitori del cane lago che avevano confermato trattarsi del pastore tedesco di proprietà del M.

In ordine alla configurabilità del reato contestato deve essere ricordato che il delitto di riciclaggio di cui all’art. 648 bis cod. pen. è integrato non soltanto dalle condotte tipiche di sostituzione o trasformazione del bene di origine illecita ma, altresì, secondo la testuale dizione contenuta nella norma, “da ogni altra operazione diretta ad ostacolare l’identificazione” dell’origine delittuosa del bene.  Nell’interpretare detta seconda parte del primo comma dell’art. 648 bis cod. pen. la Corte di Cassazione ha già avuto modo di precisare che la disposizione di cui all’art. 648 bis cod.pen. pur configurando un reato a forma libera, richiede che le attività poste in essere sul denaro, bene od utilità di provenienza delittuosa siano specificamente dirette alla sua trasformazione parziale o totale, ovvero siano dirette ad ostacolare l’accertamento sull’origine delittuosa della res, anche senza incidere direttamente, mediante alterazione dei dati esteriori, sulla cosa in quanto tale (Sez. 2, n. 47088 del 14/10/2003, Rv. 227731).

Appare, allora, evidente, trattandosi di reato a forma libera, che correttamente è stato riconosciuto a carico del ricorrente il delitto di riciclaggio, dopo che i giudici di merito hanno debitamente ricostruito le modalità di sostituzione da parte del medesimo del microchip – che è indubbiamente elemento identificativo dell’animale e del suo proprietario – al fine di non rendere individuabile la provenienza delittuosa dell’animale.  Quanto al reato presupposto pur ipotizzando che il cane si fosse allontanato da solo, nella specie sarebbe comunque ravvisabile la fattispecie di furto, essendo il cane del M., secondo quanto incontroverso, dotato di segni che ne rendevano individuabile il proprietario in ogni caso (vedi Sez. 5, Sentenza n. 1710 del 06/10/2016 Ud. (dep. 13/01/2017) Rv. 268910 ed anche a voler ricondurre il fatto alla fattispecie ex art. 647 c.p., come sottolineato dai giudici di merito, resta il reato presupposto, risultando del tutto ininfluente in tal senso la depenalizzazione, solo sopravvenuta (conf. ex multis Cass. Pen. Sez. 2, 32775, 30/6/2021, Briglia; Cass. Pen. Sez. 2, 18710, 15/12/2016, Giordano).

A fronte della ricostruzione della condotta delittuosa in esame, operata in modo conforme da entrambi i giudici di merito con argomentazioni che non appaiono né carenti né illogiche né contraddittorie la tesi del ricorrente (il quale nega sostanzialmente la valenza dei suddetti elementi indiziari, offrendone una lettura parziale e fortemente parcellizzata) non mira a contestare la logicità dell’impianto argomentativo delineato nella motivazione della decisione impugnata, ma si risolve nella contrapposizione, a fronte del giudizio espresso dai giudici di merito, di una alternativa ricostruzione dei fatti, evidentemente sottratta alla delibazione di questa Suprema Corte in ragione dei limiti posti alla cognizione di legittimità dall’art. 606 cod. proc. pen.

Né può ritenersi fondata la censura di mancato coordinamento con la normativa specifica di cui all’ art. 925 c.c. che prevede che l’animale diventi di appartenenza di chi se ne è impossessato se non reclamato entro venti giorni dal momento in cui il proprietario ha conoscenza del luogo in cui l’animale si trova. Va premesso che tale censura risulta oggetto di specifica articolazione solo con l’odierno ricorso, con quanto ne consegue in termini di ammissibilità per i profili in fatto che involge.

Deve, comunque, rilevarsi che la tesi appare, in ogni caso, priva di fondamento alcuno. Questo Collegio non ignora- il precedente orientamento secondo cui l’acquisizione del possesso di un cane che si sia “smarrito” può essere fatta rientrare fra le ipotesi di “caso fortuito” di cui all’art. 647 cod. pen., dovendo tale ultima disposizione essere coordinata con l’art. 925 cod. civ. che prevede l’acquisto della “proprietà” dell’animale mansuefatto da parte di chi se ne sia impossessato qualora l’animale non sia stato reclamato entro venti giorni da quando il proprietario ha avuto conoscenza del luogo ove esso si trova. (Sez. 2, Sentenza n. 18749 del 05/02/2013 Ud. (dep. 29/04/2013) Rv. 255762 – 01.

 Purtuttavia non può non considerarsi che gli animali “mansuefatti” cui fa riferimento la norma codicistica sono quelli che hanno acquisito una consuetudo revertendi mentre sono esclusi da tale fattispecie gli animali domestici (fra i quali rientra certamente il cane), la cui proprietà non può acquistarsi per occupazione;  a quest’ultimo proposito va segnalato che, in passato, con riferimento ai cavalli, la giurisprudenza di legittimità ha affermato che tali animali non appartengono alla categoria degli animali mansuefatti, per la rivendicazione dei quali, da chi li abbia presi, è fissato il termine utile di venti giorni dall’art. 925 cod. civ. (Cass. Civ. 14 dicembre 1950 n. 2723).

Deve aggiungersi la considerazione che, come segnalato dalla P.G., in ogni caso la norma concerne la diversa ipotesi di allontanamento spontaneo di animali che, senza interventi di terzi, si inseriscano in fondi altrui permanendovi non reclamati laddove i giudici di merito hanno ampiamente argomentano sui plurimi ed insistenti comportamenti posti in essere, nella immediatezza, dal M., per il ritrovamento e recupero dell’animale, anche con l’ausilio della forza pubblica, recupero non riuscito solo per effetto delle condotte ostruzionistiche e fraudolente del P.

6. Per le considerazioni esposte, dunque, i ricorsi devono essere rigettati con condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Così deciso in Roma, in data 11 Febbraio 2022

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