CASSAZIONE

Diritto al rimborso e maggior danno per pagamento in ritardo del Fisco

Tributi – IVA – Istanza di rimborso credito infrannuale – Tardiva esecuzione del rimborso – Riconoscimento degli interessi semplici, degli interessi anatocistici e del maggior danno da svalutazione monetaria – Condizioni – Fermo amministrativo del credito per contestuale debito erariale – Nuova decorrenza dei termini

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 8540 del 29 aprile 2016 in tema di rimborsi IVA sospesi, ha ricordato che l’argomento in base al quale la CTR aveva negato al contribuente il danno da svalutazione monetaria non è fondato e costituisce invero una discutibile interpretazione dell’art. 1224 c.c., che peraltro non richiede altro che la dimostrazione del danno subito, mentre non è richiesto nell’accertamento di tale danno che si valuti se il creditore ha iscritto a bilancio quale misura compensativa crediti affermati verso l’Erario.

La Corte di Cassazione ha accolto il ricorso presentato dalla società contribuente. La vicenda trae origine da una richiesta di rimborso IVA eseguita molti anni dopo, quando ormai l’ingente somma si era svalutata del 68%, come dimostrato dalla stessa società ricorrente. I Giudici di merito avevano negato il riconoscimento del maggior danno in considerazione del fatto che “… la società aveva fatto ricorso al rimedio di iscrivere in bilancio crediti verso l’Erario”, compensando così la svalutazione monetaria”. Tuttavia, la Suprema Corte ha affermato che ai fini del riconoscimento del maggior danno non è necessaria alcuna valutazione delle eventuali misure compensative utilizzate dal contribuente, essendo sufficiente la dimostrazione della sussistenza del danno in oggetto.

La pronuncia in commento si innesta nel solco tracciato dalla Corte di Cassazione, che si era già pronunciata sull’argomento con la sentenza n. 2087/2004 e con l’Ordinanza 18 dicembre 2013, n. 28332 (allegata), applicando il seguente principio di diritto: “… Ove la pubblica amministrazione che si sia avvalsa del fermo amministrativo ometta, una volta convenuta in giudizio per l’adempimento del proprio debito, di chiedere l’accertamento e la liquidazione del credito da essa vantato al fine di effettuarne la compensazione con il credito fatto valere dalla controparte, gli effetti del fermo, destinati ad esplicarsi sul piano della compensazione, devono ritenersi definitivamente elisi sin dall’origine; ne deriva che il credito oggetto di fermo amministrativo, in conseguenza della inefficacia del provvedimento cautelare esercitato dalla P.A., è suscettibile di produrre interessi anche nei periodo di vigenza del fermo stesso, con decorrenza dal momento della costituzione in mora dell’Amministrazione”.

La ratio di questo precedente è, per l’appunto, quella della addebitabilità della mora alla amministrazione che doveva procedere al rimborso, addebitabilità affermata dalla riconosciuta inefficacia ex tunc del provvedimento che aveva già riconosciuto l’ammissibilità della richiesta del maggior danno ex art. 1224 c.c. anche ai crediti tributari, consentendo quindi al creditore di poter domandare, nel caso in cui la lentezza del procedimento di rimborso pregiudicasse l’entità del credito vantato, oltre agli interessi moratori, anche il risarcimento per il maggior danno subito. Nella fattispecie, però, il fatto che il fermo sia stato ritenuto legittimo, al di là della retroattività del suo venir meno, rende non addebitabile alla amministrazione il mancato rimborso per il periodo in cui il fermo è stato mantenuto.

Come chiarito dalla Suprema Corte, la liquidazione del danno da svalutazione monetaria non è però automatica. Quindi, se l’Amministrazione finanziaria ritarda l’esecuzione del rimborso spettante al contribuente questi può avanzare domanda di ulteriore risarcimento da svalutazione monetaria, che deve essere accordata laddove il medesimo dimostri il danno subito. A tal fine non può opporsi l’impiego della misura compensativa dell’iscrizione in bilancio degli interessi passivi corrisposti alla banca alla quale si è fatto ricorso per reperire quella liquidità che il Fisco ha mantenuto indisponibile con il ritardo. Di conseguenza, al contribuente deve essere riconosciuto il maggior danno da svalutazione monetaria se l’Erario restituisce in ritardo il credito IVA.

In particolare, gli Ermellini rammentano che: “… L’argomento in base al quale la CTR ha negato il danno da svalutazione monetaria non è fondato e costituisce invero una discutibile interpretazione dell’art. 1224 c.c. Non ricorre infatti un’ipotesi di “compensatio lucri cum danno” tra il danno subito per il ritardato pagamento e il vantaggio fiscale legato alla iscrizione in bilancio degli interessi passivi. Va comunque osservato che l’Agenzia non ha affatto addotto quale eccezione per paralizzare la richiesta di maggior danno la circostanza che l’impresa ha iscritto a bilancio imposte anticipate o altri crediti verso l’Erario. Cosi che l’esame di tale circostanza non era neanche imposta da una domanda di parte, oltre, come si è detto, a non essere necessaria per l’applicazione della norma. La sentenza va cassata sul punto con rinvio ad altro collegio della CTR, che si dovrà attenere al principio di diritto in base al quale l’art. 1224 c.c, nel riconoscere il risarcimento ulteriore da svalutazione monetaria non richiede altro che la dimostrazione del danno subito, dimostrazione da fornire secondo i criteri affermati dalla giurisprudenza dì questa corte, mentre non è richiesto nell’accertamento di tale danno che si valuti se il creditore ha iscritto a bilancio, quale misura compensativa crediti affermati verso l’erario”.

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CORTE DI CASSAZIONE Sentenza 29 aprile 2016, n. 8540

Svolgimento del processo

1 – La società I. vantava nei confronti dell’Agenzia delle Entrate un credito per rimborso IVA relativo al 3° trimestre del 1989 per un ammontare di 530 milioni delle vecchie lire.

Il rimborso veniva sospeso, però, dall’Agenzia sul presupposto che la società aveva debiti verso l’Erario che andavano in compensazione.

Il provvedimento di fermo veniva meno nel 2004, e la società con istanza del 14.7.2004 reiterava la richiesta di rimborso.

Su tale richiesta si formava il silenzio rigetto, e conseguentemente la società faceva ricorso alla CTP di Palermo per ottenere il rimborso della somma, comprensiva di interessi semplici, anatocistici e del maggior danno da svalutazione monetaria.

La CTP accoglieva la domanda di rimborso facendo decorrere gli interessi legali dal 14.7.2004 e quelli composti dal semestre successivo al 14.3.2005, ma rigettava la domanda di riconoscimento del maggior danno da svalutazione.

La società proponeva appello alla CTR, relativamente alla decorrenza degli interessi ed al mancato riconoscimento del maggior danno, ottenendo l’accoglimento quanto alla prima doglianza, ed il rigetto quanto al maggior danno.

Avverso la decisione di appello propone ricorso per cassazione l’Agenzia. Resiste con controricorso la società, che propone altresì ricorso incidentale relativamente al capo relativo al maggior danno.

Motivi della decisione

  1. – Con il primo motivo l’Agenzia denuncia violazione dell’art. 112 c.p.c. assumendo che la CTR avrebbe riconosciuto gli interessi composti a partire dal 1989 (data di scadenza del rimborso) nonostante la società non avesse fatto appello su questo punto, ma solo sulla decorrenza degli interessi semplici (legali) e sul maggior danno.
  2. – Con il secondo motivo si denuncia violazione di legge per avere il giudice di appello riconosciuto gli interessi anatocistici a partire dalla istanza di rimborso (1989) anziché dalla domanda giudiziale, contrariamente alla regola per cui, invece, gli interessi ne producono altri solo a partire dalla richiesta fattane in giudizio. Regola che per l’amministrazione finanziaria si specifica ulteriormente nel divieto di corrispondere comunque gli interessi anatocitstici (L. n. 248 del 2006).

Violazione di legge dovuta dunque al fatto che la richiesta giudiziale degli interessi composti era avvenuta soltanto con domanda del 17.3.2005.

3.1. – Come specificazione del secondo motivo, l’Agenzia ne adduce uno ulteriore, relativo alla contraddittorietà della motivazione, la sentenza impugnata, infatti, dà atto che gli interessi anatocistici decorrono dalla domanda giudiziale, ma li liquida a partire dalla istanza di rimborso.

Come ulteriore motivo, su questo punto, la ricorrente denuncia difetto di motivazione per non avere il giudice di appello chiarito perché, pur affermando che la decorrenza degli interessi anatocistici è dalla domanda giudiziale, li ha poi liquidati a partire dalla istanza di rimborso.

  1. – Con il quarto motivo l’Agenzia lamenta violazione di legge quanto alla liquidazione e decorrenza degli interessi legali (semplici, non anatocistici, in questo caso). La sentenza impugnata lì fa decorrere dal giorno della istanza di rimborso, giusta la regola per la quale i crediti pecuniari producono interessi di pieno diritto a partire, per quanto riguarda l’IVA, dal 90° giorno successivo a quello di presentazione della dichiarazione.

Secondo la ricorrente il giudice di appello non avrebbe tenuto conto del fatto che, prima che scadesse tale termine è intervenuto fermo amministrativo delle somme, che, quale provvedimento cautelare, ha interrotto l’obbligazione di corrispondere gli interessi. Il fermo è venuto meno il 5.3.2004, ed a seguito di tale decadenza, la società ha fatto nuova istanza di rimborso il 14.7.2004. Secondo la ricorrente dunque gli interessi semplici decorrerebbero da quest’ultima data e non dalla prima, ciò perché l’istanza di rimborso non era una mera reiterazione di quella inizialmente fatta, ma era basata sul fatto nuovo del venire meno del fermo amministrativo. Inoltre, e ciò è oggetto del quinto motivo, la CTR non avrebbe motivato adeguatamente sul perché ha fatto decorrere gli interessi dalla prima domanda di rimborso anziché dalla seconda, come avrebbe dovuto essere in base alle ragioni sopra evidenziate.

  1. – La società resistente propone ricorso incidentale relativamente al mancato riconoscimento del maggior danno da svalutazione monetaria. La resistente adduce diversi vizi della decisione, riassumibili in quello di falsa applicazione dell’art. 1224 c.c. e di difetto di motivazione. In sintesi, la CTR ha negato il maggior danno dicendo che l’impresa, non ricevendo il rimborso, ha provveduto a iscrivere a bilancio crediti verso l’erario che compenserebbero il danno da svalutazione. Cosi facendo, la CTR avrebbe non solo violato il disposto dell’art. 1224 c.c. che non prevede come condizione ostativa al risarcimento del maggior danno una iscrizione di crediti verso l’erario, e ciò tenendo anche conto della dimostrazione fornita dalla società circa il danno da svalutazione subito, ma avrebbe anche fatto ricorso ad una contraddittoria motivazione per supportare la decisione presa. In particolare, la sentenza, pur prendendo atto della svalutazione subita dalla somma oggetto di rimborso, per il ritardo in cui è avvenuto, avrebbe concluso per escludere il maggior danno.
  2. – I motivi di ricorso relativi agli interessi anatocistici sono fondati, mentre non lo sono quelli relativi alla decorrenza degli interessi semplici.

Fondato risulta altresì il motivo oggetto di ricorso incidentale.

6.1 – Quanto ai motivi relativi agli interessi anatocistici, come si è detto, la ricorrente lamenta sia la violazione di legge che la motivazione contraddittoria. I motivi possono essere valutati congiuntamente, e quelli relativi alla decorrenza assorbono gli altri.

Risulta pacifico che la decisione impugnata ha fatto decorrere gli interessi anatocistici dalla istanza di rimborso 20.11.1989, come chiaramente si ricava dal dispositivo in atti.

Non va pertanto condivisa la tesi della società resistente per cui quella data si riferirebbe ai soli interessi semplici. Il dispositivo infatti recita ” riconoscendole., la spettanza agli interessi, e degli interessi anatocistici, a decorrere dal 20.11.1989″. Ciò contrariamente alla regola legale (art. 1283 c.c.) per la quale gli interessi anatocistici decorrono, sempre in presenza delle condizioni che li rendono liquidabili, dalla domanda giudiziale. La norma non ha eccezioni nel rapporto tributario, dove pure è regola che in caso di diritto al rimborso al contribuente spettino, sempre che ne ricorrano le condizioni, gli interessi anatocistici, ma a far data dalla domanda giudiziale di rimborso in quanto tali interessi non sono accessori del credito principale, come tali conseguenti alla domanda di rimborso (V. anche Cass. n. 11171 del 2013). Sul punto va ribadito l’orientamento di questa Corte, secondo il quale; “in tema di rimborsi d’imposta (nella specie relativi ad IRPEG), gli interessi anatocistici sulle somme dovute a titolo di ritardato rimborso di imposta al contribuente non sono dovuti a decorrere dal 4 luglio 2006, data di entrata in vigore dell’art. 37, comma 50, del d.l. 4 luglio 2006, n. 223, convertito in legge 4 agosto 2006, n. 248, mentre il principio dettato dall’art. 1283 cod. civ. continua ad applicarsi per il periodo anteriore, attesa la portata innovativa e non interpretativa dell’art. 37, comma 50, citato.” (Cass. n. 17993 del 2012; Cass. n. 2823 del 2012). Va dunque cassata la sentenza impugnata nella parte in cui, riconoscendo il diritto agli interessi anatocistici, lo fa decorrere dal 20.11.1989 anziché dal 17.3.2005, e va affermato il principio per cui gli interessi anatocistici, anche per i crediti tributari, decorrono dalla data della domanda giudiziale, sino alla data di entrata in vigore dell’art. 37 d.l. 223 del 2006, convertito in legge n. 248 del 2006.

6.1.1 – Terzo e quarto motivo, denunciando difetto di motivazione sul punto accolto per via del motivo precedente, risultano assorbiti.

6.2 – Vanno poi accolti il quinto ed il sesto motivo, relativi alla decorrenza degli interessi semplici, ed esaminabili congiuntamente. Le doglianze della Agenzia sul punto invero sono fondate. La ricorrente adduce che, pur essendo scaduto l’obbligo di rimborso nel 1989, l’amministrazione ha vincolato le somme con fermo amministrativo, a garanzia di debiti che la società aveva verso l’erario. Solo nel 2004 il fermo è venuto meno, e solo il 14.7 2004 la società ha di conseguenza proposto nuova istanza per la restituzione della somma e per il pagamento degli interessi.

In sostanza, secondo la ricorrente, il fermo amministrativo avrebbe inciso sulla esigibilità del credito, e degli stessi interessi, così che, venuto meno il fermo, occorreva una nuova messa in mora, che la società ha in effetti notificato, chiedendo, il 14.7.2004, nuovamente il rimborso della somma. Solo da tale nuova messa in mora sarebbero dunque decorsi gli interessi semplici.

La tesi, secondo la ricorrente, avrebbe “a contrario” il conforto di questa Corte, che avrebbe affermato il principio per cui in caso di annullamento ex tunc del fermo, ritenuto illegittimo, gli interessi si contano sin dall’inizio, ossia dalla data di scadenza del credito, non occorrendo nuova richiesta del creditore (Cass. 13808 del 2004).

La tesi è fondata.

Va considerato che gli interessi in questione hanno natura moratoria, ossia sono disposti per il ritardo con cui l’IVA è rimborsata, e non sono interessi corrispettivi.

Ne deriva che essi spettano solo se la mora è fondata, e dunque soltanto se il ritardo nella corresponsione della sorte, vale a dire il ritardo nel rimborso IVA, è addebitabile all’ufficio.

Può argomentarsi, a contrario, dalla citata Cass. n. 13808 del 2004: ” Ove la pubblica amministrazione che si sia avvalsa del fermo amministrativo “ex” art. 69 del R.D. 18 novembre 1993, n. 2440, ometta, una volta convenuta in giudizio per l’adempimento del proprio debito, di chiedere l’accertamento e la liquidazione del credito da essa vantato al fine di effettuarne la compensazione con il credito fatto valere dalia controparte, gli effetti del fermo, destinati ad esplicarsi sul piano della compensazione, devono ritenersi definitivamente elisi sin dall’origine; ne deriva che il credito oggetto di fermo amministrativo, in conseguenza della inefficacia del provvedimento cautelare esercitato dalla P.A., è suscettibile di produrre interessi anche nei periodo di vigenza del fermo stesso, con decorrenza dal momento della costituzione in mora dell’Amministrazione.”

La ratio di questo precedente è, per l’appunto, quella della addebitabilità della mora alla amministrazione che doveva procedere al rimborso, addebitabilità affermata in quel caso, come risulta dalla riconosciuta inefficacia ex tunc del provvedimento di fermo.

La circostanza che, nella fattispecie, il fermo sia stato ritenuto legittimo, al di là della retroattività del suo venir meno, rende non addebitabile alla amministrazione il mancato rimborso per II periodo in cui il fermo è stato mantenuto. Cosi che durante la sospensione del pagamento attuata dal fermo l’amministrazione non poteva considerarsi in mora, e conseguentemente non è tenuta al pagamento degli interessi che alla mora si riconducono. La decisione va pertanto cassata sul punto con enunciazione del principio di diritto per cui, in caso in cui il rimborso IVA sia stato legittimamente sospeso con provvedimento di fermo poi venuto meno, ma ritenuto legittimo, non essendo il ritardo nel rimborso addebitabile alla amministrazione, non decorrono gli interessi di mora, che riprendono, una volta venuto meno il fermo, dalla nuova istanza di rimborso.

  1. – Vanno accolti infine i primi tre motivi oggetto di ricorso incidentale, e risultano per conseguenza assorbiti gli altri. La società aveva chiesto il pagamento del maggior danno da svalutazione monetaria, adducendo, con il deposito sia dei bilanci che di altri documenti, che nel frattempo, la somma inizialmente oggetto di rimborso (540 milioni delle vecchie lire) si era svalutata del 68,1 %.

La decisione di merito ha negato il diritto al maggior danno da svalutazione, pur prendendo atto della intervenuta perdita della disponibilità di denaro e comunque del ricorso al sistema creditizio che il mancato pagamento ha imposto alla società creditrice, in quanto l’impresa avrebbe fatto ricorso al rimedio dì iscrivere a bilancio crediti verso l’erario. I motivi di doglianza investono sia l’errata interpretazione dell’art. 1224 c.c. che la contraddittorietà della motivazione. E possono esaminarsi congiuntamente perché strettamente connessi. L’argomento in base al quale la CTR ha negato il danno da svalutazione monetaria non è fondato e costituisce invero una discutibile interpretazione dell’art. 1224 c.c.

Non ricorre infatti un’ipotesi di “compensatio lucri cum danno” tra il danno subito per il ritardato pagamento e il vantaggio fiscale legato alla iscrizione in bilancio degli interessi passivi.

Va, comunque, osservato che l’Agenzia non ha affatto addotto quale eccezione per paralizzare la richiesta di maggior danno la circostanza che l’impresa ha iscritto a bilancio imposte anticipate o altri crediti verso l’Erario.

Cosi che l’esame di tale circostanza non era neanche imposta da una domanda di parte, oltre, come si è detto, a non essere necessaria per l’applicazione della norma. La sentenza va cassata sul punto con rinvio ad altro collegio della CTR , che si dovrà attenere al principio di diritto in base al quale l’art. 1224 c.c, nel riconoscere il risarcimento ulteriore da svalutazione monetaria non richiede altro che la dimostrazione del danno subito, dimostrazione da fornire secondo i criteri affermati dalla giurisprudenza dì questa corte, mentre non è richiesto nell’accertamento di tale danno che si valuti se il creditore ha iscritto a bilancio, quale misura compensativa crediti affermati verso l’erario.

P.Q.M.

Accoglie il secondo, quarto e sesto motivo di ricorso principale, dichiara assorbiti gli altri.

Accoglie, quanto al ricorso incidentale, il primo, secondo e terzo motivo, assorbiti gli altri.

Cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti, con rinvio alla Commissione Tributaria Regionale di Palermo in diversa composizione, anche per le spese di giudizio di Cassazione.

 

 

Corte di Cassazione – Ordinanza 18 dicembre 2013, n. 28332

CORTE DI CASSAZIONE

Ordinanza 18 dicembre 2013, n. 28332

Tributi – Diritto al rimborso – Ritardi – Maggior danno – Sussiste

Rilevato che, ai sensi dell’art. 380 bis cod. proc. civ., è stata depositata in cancelleria la relazione di seguito integralmente trascritta: « La società Banca della T. Credito cooperativo s.c.p.a. ricorre contro l’Agenzia delle Entrate per la cassazione della sentenza con cui la Commissione Tributaria Regionale del Lazio, confermando la sentenza di primo grado, ha respinto la domanda di risarcimento del maggior danno da svalutazione monetaria ex articolo 1224, secondo comma, c.c. sui ritardati pagamenti delle somme oggetto di rimborso Irpeg risultanti dalle dichiarazioni dei redditi mod. 760 per gli anni d’imposta dal 1988 al 1906 (escluso il 1992).

La Commissione Tributaria Regionale – dopo una serie di astratte affermazioni in diritto (concernenti gli elementi costitutivi del fatto illecito, la non configurabilità del danno esistenziale, la non risarcibilità della lesione del “diritto alla tranquillità”), del tutto scollegate dalla fattispecie concretamente sottoposta sul giudizio – ha motivato la propria decisione affermando che “in materia di Irpeg le regole riguardanti l’esecuzione dei rimborsi sono espresse dagli articoli 37 e seguenti del d.p.r. 602/73, i quali nulla stabiliscono a proposito del risarcimento del danno. In particolare il pagamento degli interessi per rimborso di imposte è regolamentato, come già detto, dagli articoli 44 e 44 bis del d.p.r. 602/73, che, appunto, non prevedono la corresponsione dì altri interessi per danni.” Il ricorso si articola su tre motivi riferiti, i primi due, alla violazione dell’articolo 1224, secondo comma, c.c. in cui la sentenza gravata sarebbe incorsa escludendo l’applicabilità di tale disposizione alle obbligazioni pecuniarie del Fisco (primo motivo) ed equiparando la domanda della contribuente di risarcimento del maggior danno ex art. 1224, secondo comma, c.c. ad una domanda di risarcimento del danno esistenziale (secondo motivo); con il terzo motivo, infine, la ricorrente deduce la nullità della statuizione sulle spese della sentenza impugnata per assoluta assenza di motivazione, in violazione dell’ articolo 36, secondo comma, n. 4, D.Lgs. n. 546/1992.

Il primo motivo appare fondato.

L’affermazione della Commissione Tributaria Regionale secondo cui la domanda della contribuente di risarcimento del maggior danno ex art. 1224. secondo comma, cc andrebbe respinta perché la disciplina dettata in materia di rimborsi IRPEG dagli articoli 44 e 44 bis del d.p.r. 602/73 non prevede la “corresponsione di altri interessi per danni” contrasta con l’insegnamento delle Sezioni Unite di questa Corte secondo cui anche con riferimento alle pretese restitutorie vantate dal contribuente nei confronti dell’Erario opera il principio che, nel caso di ritardato adempimento di una obbligazione pecuniaria, può liquidarsi il danno da svalutazione monetaria, sempre che il creditore deduca e dimostri che un tempestivo adempimento gli avrebbe consentito di impiegare il denaro in modo tale da elidere gli effetti dell’inflazione e salva l’applicazione, imposta dalla specificità della disciplina dell’obbligazione tributaria, di un particolare rigore nella valutazione del materiale probatorio (sent. SS.UU. n. 16871/07; conforme. Sez. Trib. un. 26403/10).

La Commissione Tributaria Regionale ha dunque errato nel ritenere non applicabile nel caso dell’obbligazione di rimborso IRPEG il disposto del secondo comma dell’articolo 1224 cc. in quanto non si può negare in astratto il diritto del contribuente al risarcimento del maggior danno da ritardo nel rimborso IRPEG; salvo adottare particolare rigore nella valutazione della prova di tale danno, proprio in ragione della specialità della fattispecie tributaria.

Si propone quindi l’accoglimento del primo motivo di ricorso, assorbiti il secondo e il terzo, e la cassazione della sentenza gravata con rinvio alla Commissione Tributaria Regionale della Toscana, in altra composizione, perché questa si attenga al principio di diritto sopra enunciato e pertanto – ritenuta l’astratta risarcibilità del maggior danno ex art. 1224, secondo comma, cc, da ritardo nel pagamento dei rimborsi IRPEG – proceda alla concreta e rigorosa disamina delle prove al riguardo offerte dalla contribuente, verificando che la domanda della stessa risulti sorretta non dalla mera allegazione della sua qualità di imprenditore e dalla mera deduzione del fenomeno inflattivo come fatto notorio, bensì da specifiche indicazioni in ordine al danno derivatole dalla indisponibilità del denaro determinata dall’inadempimento dell’Erario; che l’Agenzia delle entrate si è costituita ai soli fini della partecipazione all’adunanza della camera di consiglio, ove peraltro non è intervenuta; che parte ricorrente ha depositato una memoria difensiva; che la relazione è stata comunicata al Pubblico Ministero e notificata alle parti;

che il Collegio condivide gli argomenti esposti nella relazione;

che pertanto si deve accogliere ¡I ricorso e cassare la sentenza gravata, con rinvio alla Commissione Tributaria Regionale del Lazio, che regolerà anche le spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

Accoglie il ricorso, cassa la sentenza gravata e rinvia alla Commissione Tributaria Regionale del Lazio, che si atterrà al principio di diritto richiamato nella relazione trascritta in motivazione e regolerà anche le spese del giudizio di cassazione.

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