CASSAZIONE

Dichiarazione infedele: c’è l’affermazione della responsabilità penale dell’imputato

Tributi – IVA – Reati tributari – Evasione di imposte – Superamento della soglia di punibilità – Condizione oggettiva di punibilità – Dichiarazione annuale – Omessa compilazione quadri RG/RF – Recidiva reiterata – Infedele dichiarazione – Responsabilità penale – Confisca

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 18532 del 4 maggio 2023, intervenendo su un particolare aspetto dei reati tributari ha statuito che non integra il delitto di omessa dichiarazione la presentazione, nei termini previsti dalle leggi tributarie, di una dichiarazione dei redditi incompleta: se, però, la stessa dichiarazione risulti incompleta a causa di alcuni spazi volutamente lasciati vuoti ha rilevanza ai sensi dell’art. 4, D.lgs. 74/2000, ove si accerti l’avvenuto superamento della doppia soglia di punibilità. Conseguentemente, continua la disamina degli Ermellini, la mancata compilazione delle singole voci relative al valore del reddito imponibile e dell’IVA è, di fatto, assimilabile a una dichiarazione negativa.

I Supremi Giudici hanno quindi considerato che la mancata compilazione delle voci della dichiarazione riguardanti elementi essenziali ai fini della determinazione complessiva del reddito e dei conseguenti importi dovuti a titolo di imposte non può essere qualificata come una condotta neutra, contribuendo al contrario a delineare la infedeltà della dichiarazione fiscale, essendo di fatto assimilabile a una dichiarazione negativa l’omessa compilazione delle singole voci concernenti il valore del reddito imponibile e dell’IVA.

Né, del resto – si legge in sentenza, “…l’imputato, nel corso del procedimento penale, ha fornito una diversa ricostruzione dei fatti, ad esempio evocando la natura colposa dell’omessa compilazione delle voci più significative della dichiarazione da lui redatta, che invero, attraverso quegli spazi lasciati vuoti, appare maliziosamente diretta a rappresentare un quadro economico difforme da quello reale. Ne consegue che legittimamente i giudici di secondo grado hanno ritenuto che fosse stata superata anche la seconda soglia di punibilità, avuto riguardo al tenore della dichiarazione resa dal titolare della ditta individuale(omissis), apparendo corretta, nella valutazione circa l’entità degli elementi attivi dichiarati, la valorizzazione anche degli spazi vuoti della dichiarazione, spazi volutamente non compilati dal dichiarante al fine di conseguire di non corrispondere l’IVA, obiettivo questo che rivela anche l’esistenza del dolo specifico richiesto dalla norma incriminatrice, essendo evidente che l’omessa compilazione degli spazi essenziali della dichiarazione è stata funzionale proprio al perseguimento dell’evasione dell’imposta, non essendo stata in alcuna modo dedotta la tesi di un’eventuale natura colposa dell’omissione”.

Quindi per il Supremo Collegio, nel caso di specie, non ci si riferisce a una dichiarazione omessa, ma piuttosto a una dichiarazione incompleta, compilata solo in alcuni quadri e indicando un reddito imponibile pari a zero, che si qualifica come infedele e dunque rilevante ai sensi dell’art. 4 del D.lgs. n. 74 del 2000, in ragione dell’avvenuto superamento della doppia soglia di punibilità,  che sono elementi costitutivi del reato, in quanto il loro superamento è il diretto risultato dell’azione posta in essere e voluta dal soggetto attivo. Difatti, l’omessa indicazione delle voci della dichiarazione riguardanti elementi essenziali ai fini della determinazione complessiva del reddito e dei conseguenti importi dovuti a titolo di imposte contribuisce a delineare la infedeltà della dichiarazione fiscale.

Quindi, a parere della S.C., il caso deve essere inquadrato come dichiarazione incompleta e non omessa e infedele, in virtù degli spazi lasciati vuoti (quindi, rilevante ai sensi dell’art. 4, D.lgs. 74/2000), ove si accerti l’avvenuto superamento della doppia soglia di punibilità. Infatti, l’articolo 4 della legge sui reati tributari, previsto dal D.lgs. 74/2000, nella versione scaturita dalle modifiche operate dal D.L. 124/2019, convertito dalla L. 157/2019, recita: “…”È punito con la reclusione da due anni a quattro anni e sei mesi chiunque, al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, indica in una delle dichiarazioni annuali relative a dette imposte elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo od elementi passivi inesistenti, quando, congiuntamente: a) l’imposta evasa è superiore, con riferimento a taluna delle singole imposte, a Euro 100.000; b) l’ammontare complessivo degli elementi attivi sottratti all’imposizione, anche mediante indicazione di elementi passivi inesistenti, è superiore al dieci per cento dell’ammontare complessivo degli elementi attivi indicati in dichiarazione o, comunque, è superiore a Euro due milioni”.

A riprova di tali generali considerazioni, i giudici di Piazza Cavour hanno richiamato altra decisione di legittimità, pronunciata in una vicenda del tutto assimilabile di dichiarazione esistente, ma non compilata nel quadro RG/RF: in tale contesto si sottolineava che l’integrazione del reato di dichiarazione infedele non era stata posta in alcun modo in discussione.  

Si tratta dell’importante sentenza n. 5141/2022, che ha anche affermato che, in tema di reati tributari, non integra il delitto di omessa dichiarazione la presentazione, nei termini previsti dalle leggi tributarie e nel rispetto delle soglie individuate, di una dichiarazione dei redditi incompleta, in quanto l’esaustiva individuazione normativa della condotta incriminata, consistente nella mancata presentazione della dichiarazione agli uffici competenti non è suscettibile di lettura analogica, che si porrebbe in contrasto con il principio di legalità. La sentenza risulta di grande interesse per l’accurata disamina dei precedenti arresti della giurisprudenza di legittimità, Sezioni penale e tributaria, sedimentata intorno alla questione della qualificazione giuridica della condotta di incompleta redazione del modello fiscale, mai prima d’ora affrontata dalla Cassazione.

Gli Ermellini hanno statuito che: … si è ritenuto integrato il reato di cui all’art. 5 cit. pur a fronte di presentazione della dichiarazione intervenuta nei termini, per il fatto che la stessa fosse «sostanzialmente “in bianco”, dato che il quadro RS non era stato compilato», giacché la norma penale de qua riposerebbe sull’obbligo di «mettere l’amministrazione finanziaria al corrente delle informazioni necessarie per accertare la consistenza dell’obbligazione tributaria”. L’equiparazione in tal modo operata dalla sentenza tra omessa presentazione di dichiarazione e presentazione di dichiarazione incompleta, non può, tuttavia, essere condivisa, giacché fondata, a fronte di una condotta esaustivamente e rigorosamente individuata dalla norma e come tale non suscettibile di alcuna -estensione, su una lettura analogica della norma contrastante con il principio di legalità. Ed anzi, in senso contrario alla lettura data, in conformità a quella di primo grado, dalla sentenza impugnata, appaiono deporre inequivoci dati normativi del resto valorizzati dalla giurisprudenza tributaria nonché dalla giurisprudenza di legittimità civile, che, sul medesimo punto, è, sulla base di essi, costantemente pervenuta a ritenere improponibile, quanto alla parallela condotta di omessa presentazione considerata dalla legislazione tributaria, una siffatta equipollenza. Si è infatti valorizzato, a conforto della necessaria distinzione tra “assoluta omessa presentazione” e “mancata dichiarazione di redditi imponibili”, il tenore letterale dell’art.1, comma 2, del d.P.R. n. 600 del 1973, che, nel disciplinare il contenuto della dichiarazione dei redditi, prevede espressamente che la stessa debba «contenere l’indicazione degli elementi attivi e passivi necessari per la determinazione degli imponibili …» e che «i redditi per i quali manca tale indicazione si considerano non dichiarati ai fini dell’accertamento e delle sanzioni», in tal modo deducendosi che, nell’ipotesi in cui non siano indicati gli elementi attivi e passivi necessari per la determinazione degli imponibili (tanto più se, come nel caso di specie, la mancata indicazione sia stata solo parziale, riguardando un solo quadro), la dichiarazione si deve ritenere presentata e solo i singoli redditi (fondiario, di impresa, di lavoro autonomo), si devono considerare non dichiarati (così Sez. 5 civ., n. 24107/13 del 17/12/2012, non mass.).E tale linea interpretativa è proseguita sino all’attualità: mentre Sez. 5 civ. n. 1879 del 10/09/2020, non mass., ha affermato che la fattispecie di omessa dichiarazione deve essere riservata solo alle ipotesi più radicali, quali l’assoluta inesistenza del documento o la mancata trasmissione all’Ufficio giacché lo stesso tenore letterale dell’art. 1 cit. consente di reputare esistente la dichiarazione pur se priva dei dati necessari per la ricostruzione del reddito, laddove contempla che i redditi non indicati si considerano non dichiarati (evenienza che ben può verificarsi non solo relativamente all’omessa indicazione solo di alcuni redditi, ma anche in relazione, addirittura, a tutti i redditi percepiti dal soggetto), Sez.5 civ., n. 10668 del 12/01/2021, Rv.660973, ha specificato che nell’ipotesi in cui il contribuente non ometta la dichiarazione, ma provveda invece ad effettuarla, qualora indichi un valore diverso rispetto a quanto dovuto, incorre in errore, oppure nella dichiarazione infedele, qualora l’errore sia voluto, ma non nell’omessa dichiarazione, esprimendo poi il principio di diritto secondo cui «la dichiarazione infedele presentata dal contribuente …, anche quando indichi un valore non verosimile, non è equiparabile alla omessa dichiarazione» da qui poi desumendone la mancanza di ostacoli all’accesso del contribuente al condono e alla necessità, per l’Amministrazione finanziaria di provvedere, a pena di decadenza, alla notifica dell’avviso di accertamento nei termini ordinari, non potendo avvalersi della proroga biennale dei termini di notifica, prevista, appunto, solo per la diversa ipotesi in cui la dichiarazione sia stata omessa. La persistenza di un tale quadro esegetico, oltre a corroborare senza possibilità di incertezze la conclusione in ordine alla non equiparabilità di una dichiarazione semplicemente incompleta ad una dichiarazione non presentata, giustifica allo stesso tempo che la pronuncia di Sez. 5 civ., n. 10759 del 22/02/2006, Rv.590594, menzionata dalla sentenza qui impugnata nel senso della conferma dell’integrazione del reato di cui all’art.5 cit., non possa comunque condurre ad un differente esito; e ciò non solo perché inequivocabilmente superata dalle successive ed attuali decisioni più sopra ricordate, ma soprattutto perché riferita ad una ipotesi, ovvero quella della presentazione di “una dichiarazione compilata nel solo frontespizio, e per il resto priva di ogni contenuto e non sottoscritta” certamente non equiparabile a quella oggetto del presente giudizio oltre che indubitabilmente legata ad un contesto normativo che, a differenza di quello attuale, non prevedeva la trasmissione telematica della dichiarazione (solo alla luce di un tale elemento storico potendosi comprendere il senso del riferimento ad una mancata sottoscrizione). Neppure il riferimento della sentenza impugnata alla ratio della norma, individuata nell’esigenza di consentire all’amministrazione finanziaria di disporre delle informazioni necessarie per accertare il quantum dell’obbligazione tributaria può giustificare la lettura analogica svolta, essendo una tale ragione ancor più ricorrente nell’ipotesi del reato di dichiarazione infedele. Deve solo aggiungersi che, seppure manchino pronunce di questa Corte penale sul tema in oggetto, è tuttavia significativo che in ipotesi, certamente assimilabile alla presente, di dichiarazione non compilata nel quadro RG/RF, l’imputazione, nonché l’integrazione del reato di dichiarazione infedele di cui all’art. 4 del d.lgs. n. 74 del 2000, non siano state poste in alcun modo in discussione dalla decisione di Sez. 3, n. 32490/19 del 24/04/2018, Cavallo, non mass., pur spettando anche al giudice di legittimità i poteri di necessaria ravvisabilità della diversità del fatto per cui è condanna rispetto a quello contestato”.

Tanto premesso e tornando al caso in esame, al titolare di una ditta contribuente era stato contestato di aver indicato, nella dichiarazione relativa all’IVA, elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo. Adito alla giustizia tributaria in primo grado, era stato assolto con la motivazione che il fatto non sussiste, ma in sede di appello era stato ritenuto colpevole e condannato a due anni di reclusione, con applicazione delle pene accessorie e della confisca dei beni immobili e mobili di sua disponibilità. In realtà, ai fini della configurabilità del reato, era necessaria la definizione corretta di una doppia soglia di punibilità: una, quantitativa, relativa all’imposta evasa per taluna delle singole imposte e l’altra, proporzionale, riferita all’ammontare complessivo degli elementi attivi sottratti all’imposizione. Tuttavia, mentre il superamento della prima soglia non era controverso, le considerazioni sulla seconda soglia di punibilità erano diverse. Su questo punto la parte contribuente ha insistito nella formulazione dei motivi di ricorso presentati alla Suprema Corte. Gli Ermellini, hanno ritenuto che il giudizio era stato adeguatamente argomentato dalla Corte di appello e immune da censure, confermando il giudizio sulla penale responsabilità dell’imputato, ribadendo che “ … Premesso che è corretto il riferimento delle sentenze di merito alla necessità del superamento della doppia soglia di punibilità e premesso altresì che il superamento della prima soglia di punibilità non è controverso, deve altresì osservarsi che il superamento della seconda soglia di punibilità è stato adeguatamente argomentato dalla Corte di appello, dovendosi evidenziare che la mancata compilazione delle voci della dichiarazione riguardanti elementi essenziali ai fini della determinazione complessiva del reddito e dei conseguenti importi dovuti a titolo di imposte non può essere qualificata come una condotta neutra, contribuendo al contrario a delineare la infedeltà della dichiarazione fiscale, essendo di fatto assimilabile a una dichiarazione negativa l’omessa compilazione delle singole voci concernenti il valore del reddito imponibile e dell’Iva. Del resto, il verbo utilizzato dalla fattispecie incriminatrice, “indica”, lascia aperta la possibilità che la dichiarazione contenga sia elementi numerici positivi, sia attestazioni incomplete, che siano cioè contraddistinte da omesse specificazioni di elementi determinanti ai fini della determinazione dell’imposta, per cui in tal senso anche non inserire alcun dato numerico in corrispondenza di una voce essenziale equivale a “indicare” un elemento, sia pure in negativo. Deve peraltro evidenziarsi al riguardo che, pur in assenza di specifiche massime giurisprudenziali sul punto, anche in altra pronuncia di questa Corte (Sez. 3, n. 32490 del 24/04/2018, ricorrente Cavallo, non massimata), l’integrazione del reato di dichiarazione infedele ex art. 4 del d.lgs. n. 74 del 2000 non è stata posta in alcun modo in discussione, ciò in una vicenda, assimilabile alla presente, di dichiarazione esistente, ma non compilata nel quadro RG/RF. Né, del resto, l’imputato, nel corso del procedimento penale, ha fornito una diversa ricostruzione dei fatti, ad esempio evocando la natura colposa dell’omessa compilazione delle voci più significative della dichiarazione da lui redatta, che invero, attraverso quegli spazi lasciati vuoti, appare maliziosamente diretta a rappresentare un quadro economico difforme da quello reale. Ne consegue che legittimamente i giudici di secondo grado hanno ritenuto che fosse stata superata anche la seconda soglia di punibilità, avuto riguardo al tenore della dichiarazione resa dal titolare della ditta individuale apparendo corretta, nella valutazione circa l’entità degli elementi attivi dichiarati, la valorizzazione anche degli spazi vuoti della dichiarazione, spazi volutamente non compilati dal dichiarante al fine di conseguire di non corrispondere l’iva, obiettivo questo che rivela anche l’esistenza del dolo specifico richiesto dalla norma incriminatrice, essendo evidente che l’omessa compilazione degli spazi essenziali della dichiarazione è stata funzionale proprio al perseguimento dell’evasione dell’imposta, non essendo stata in alcuna modo dedotta la tesi di un’eventuale natura colposa dell’omissione. 1.4. Resta solo da precisare, da un lato, che la Corte di appello non ha mancato di confrontarsi con la motivazione della sentenza di primo grado, ribaltando l’esito del giudizio all’esito di un differente e argomentato inquadramento giuridico del fatto e che, per altro verso, alcuna violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza appare ravvisabile nel caso di specie, atteso che il fatto per cui è stato condannato non si pone affatto in termini di eterogeneità rispetto a quello contestato: nel capo di imputazione, infatti, al ricorrente è stato addebitato il reato ex art. 4 del Igs. n. 74 del 2000 per aver indicato nella dichiarazione relativa all’Iva elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo, con superamento di entrambe le soglie di punibilità previste dalle lett. a) e b) del citato art. 4. Ed è proprio a tale fattispecie che si riferisce la condanna dell’imputato, avvenuta in secondo grado attraverso un percorso esegetico che non ha immutato la sostanza del fatto ascritto a a ciò dovendosi solo aggiungere che, nel caso di specie, non di omessa dichiarazione (rilevante ex art. 5 del d. Igs. n. 74 del 2000) può parlarsi, ma di dichiarazione incompleta che, stante l’incidenza degli spazi lasciati vuoti, si qualifica come infedele e dunque rilevante ai sensi dell’art. 4 del d. Igs. n. 74 del 2000, in ragione dell’avvenuto superamento della doppia soglia di punibilità. Non era dunque ipotizzabile una riqualificazione del fatto ai sensi dell’art. 5 del d. Igs. n. 74 del 2000, avendo questa Corte precisato (Sez. 3, n. 5141 del 22/12/2021, dep. 2022, Rv. 282832) che, in tema di reati tributari, non integra il delitto di omessa dichiarazione la presentazione, nei termini previsti dalle leggi tributarie e nel rispetto delle soglie individuate, di una dichiarazione dei redditi incompleta, in quanto l’esaustiva individuazione normativa della condotta incriminata, consistente nella mancata presentazione della dichiarazione agli uffici competenti, non è suscettibile di lettura analogica, che si porrebbe in contrasto con il principio di legalità. Correttamente quindi, nella sussistenza degli altri presupposti di legge, la dichiarazione incompleta presentata da è stata sussunta nell’alveo della previsione ex art. 4 del d. Igs. n. 74 del 2000, e ciò senza che all’imputato sia stata posta alcuna limitazione nell’esercizio del diritto di difesa rispetto al tenore formale e sostanziale della contestazione elevata a suo carico. Di qui l’infondatezza delle censure in punto di responsabilità. 2. E’ invece fondato l’ultimo motivo di ricorso. Premesso che all’imputato è stata contestata la “recidiva reiterata”, la Corte di appello ha ritenuto configurabili i presupposti per l’applicazione della stessa, “tenuto conto che la condotta qui giudicata appare espressiva di maggiore pericolosità raggiunta, alla luce della scaltrezza mostrata nell’azione criminosa: ed infatti il attratto dalla prospettiva di facili guadagni, non ha esitato a porre in essere la dichiarazione infedele, per un importo assai rilevante”. Orbene, tale apparato motivazionale non si sottrae alle censure difensive. Sul punto deve infatti richiamarsi la condivisa affermazione di questa Corte (cfr. Sez. 3, n. 33299 del 16/11/2016, dep. 2017, Rv. 270419 e Sez. 6, n. 43438 del 23/11/2010, Rv. 248960), secondo cui, ai fini della rilevazione della recidiva, intesa quale elemento sintomatico di un’accentuata pericolosità sociale del prevenuto, e non come fattore meramente descrittivo dell’esistenza di precedenti penali per delitto a carico dell’imputato, la valutazione del giudice non può fondarsi esclusivamente sulla gravità dei fatti e sull’arco temporale in cui questi risultano consumati, essendo egli tenuto a esaminare in concreto, in base ai criteri di cui all’art. 133 cod. pen., il rapporto esistente tra il fatto per cui si procede e le precedenti condanne, verificando se e in quale misura la pregressa condotta criminosa sia indicativa di una perdurante inclinazione al delitto che abbia influito quale fattore criminogeno per la commissione del reato “sub iudice”.Nella vicenda in esame, la verifica circa il rapporto tra fatto per cui si procede e precedenti condanne riportata dall’imputato è mancata, essendosi la valutazione della Corte di appello concentrata soprattutto sull’episodio contestato, mentre nulla si dice nella sentenza impugnata circa la natura, l’epoca e il concreto disvalore dei precedenti penali a carico dell’imputato, sia in quanto tali, sia in relazione alla specifica condotta ascritta a in questo giudizio. Ora, se è vero che il giudice della cognizione, a differenza di quello dell’esecuzione, può accertare i presupposti della recidiva reiterata prevista dall’art. 99, comma quarto, cod. pen. anche quando in precedenza non sia stata dichiarata giudizialmente la recidiva semplice (cfr. Sez. 2, n. 21451 del 05/03/2019, Rv. 275816), deve tuttavia ribadirsi che la disamina delle pregresse condanne, in un’ottica non meramente cartolare, è comunque indispensabile nella complessiva valutazione di merito finalizzata ad accertare l’idoneità della nuova condotta criminosa in contestazione a rivelare la maggior capacità a delinquere del reo”.

Corte di Cassazione – Sentenza 4 maggio 2023, n. 18532

sul ricorso proposto da:

(Omissis)

nato a (Omissis)

avverso la sentenza del 19-05-2022 della Corte di appello di Brescia;

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;

udita la relazione svolta dal consigliere Fabio Zunica;

lette le conclusioni rassegnate dal Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale dott.ssa Marilia Di Nardo, che ha concluso per l’inammissibilità del ricorso. (omissis) (omissis) (omissis)

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza del 20 settembre 2021, il Tribunale di Brescia, all’esito di rito abbreviato, assolveva perché il fatto non sussiste, dal reato di cui all’art. 4 del d. Igs. n. 74 del 2000, che era stato a lui contestato perché, quale titolare dell’omonima ditta individuale, indicava nella dichiarazione relativa all’iva per l’anno di imposta 2012 elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo, per un importo complessivo pari a euro 1.036.7111, con iva evasa pari a 217.709 euro.

Con sentenza del 19 maggio 2022, la Corte di appello di Brescia, in riforma della decisione di primo grado, appellata dal Procuratore generale, dichiarava colpevole del reato ascrittogli e lo condannava alla pena di anni 2 di reclusione, applicandogli le pene accessorie di cui all’art. 12 del d. Igs. n. 74 del 2000 e ordinando la confisca dei beni immobili e mobili nella disponibilità dell’imputato, sino alla concorrenza della somma di 217.709 euro. 2. Avverso la sentenza della Corte di appello lombarda, tramite il suo difensore di fiducia, ha proposto ricorso per cassazione, sollevando quattro motivi.

Con il primo, la difesa censura la formulazione del giudizio di colpevolezza dell’imputato, sottolineando che l’art. 4 della d. Igs. n. 74 del 2000 contiene una doppia soglia di punibilità, che circoscrive la punibilità solo alle ipotesi più gravi di dichiarazioni infedeli; ora, mentre il Tribunale ha correttamente ritenuto non provata la soglia di punibilità cd. proporzionale, prevista dall’art. 4 lett. b, la sentenza impugnata è andata di contrario avviso, senza motivare adeguatamente le ragioni della diversa determinazione e, soprattutto, senza considerare che, nel caso di specie, la dichiarazione dei redditi relativa al periodo di imposta 2012 non risulta essere stata “compilata a zero”, ma è stata presentata del tutto priva di compilazione in ogni suo campo-numerico. Ciò comporta che, nel caso di specie, difetta il secondo termine di paragone, specificato dall’art. 4 lett. b del d.lgs. n. 74 del 2000, cui occorre fare riferimento al fine di verificare il superamento del limite del 10%, ovvero gli elementi indicati in dichiarazione; ora, l’interpretazione letterale del lemma “elementi attivi indicati” non può estendersi sino a ricomprendere i casi in cui non vi sia stata indicazione di alcun elemento attivo nella dichiarazione dei redditi presentata.

La Corte di appello avrebbe inoltre eluso l’onere di motivazione rinforzata richiesto in caso di riforma di un verdetto assolutorio, senza specificare se aveva compilato parti della dichiarazione e senza spiegare perché la dizione “elementi attivi indicati in dichiarazione” possa essere interpretata sino a comprendere il caso in cui non risulti indicato alcun elemento attivo.

Di qui la richiesta di annullare la sentenza impugnata o perché il fatto non è previsto dalla legge come reato, o perché il fatto non sussiste, ove si intenda il mancato superamento della soglia di punibilità ex art. 4 lett. b) del d.lgs. n. 74 del 2000 come elemento essenziale della fattispecie.

Con il secondo motivo, è stata eccepita la violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza, rilevandosi che il fatto per cui vi è stata condanna è diverso da quello indicato nel capo di imputazione, dovendosi ritenere che l’invio di una dichiarazione completamente in bianco, unitamente alla mancata presentazione della comunicazione annuale dei dati Iva, possa essere maggiormente assimilata alla fattispecie di cui all’art. 5, che ha natura omissiva, che a quella di cui all’art. 4 del d.lgs. n. 74 del 2000, avente natura commissiva, posto che quando il contribuente trasmette una dichiarazione dei redditi priva totalmente delle indicazioni numeriche necessarie per la quantificazione della base imponibile cui fare riferimento per la determinazione dei tributi, la stessa risulta inidonea a ledere il bene giuridico protetto dall’art. 4, ovvero la trasparenza fiscale e l’interesse patrimoniale dell’Erario alla corretta percezione dei tributi.

Con il terzo motivo, la difesa contesta il difetto di motivazione della sentenza impugnata rispetto alla sussistenza dell’elemento soggettivo del reato contestato, costituito dal dolo specifico della finalità di evasione, non ravvisabile nel caso di specie, atteso che non si è mai interfacciato con l’Agenzia delle Entrate, non avendo mai fisicamente ritirato il piego raccomandato contenente l’avviso di accertamento spedito all’indirizzo di Reggio Calabria, non potendo quindi spiegare le proprie ragioni dinanzi all’Amministrazione tributaria, avendo egli trasferito la residenza e il luogo di esercizio dell’attività in (omissis), in (omissis).

Con il quarto motivo, infine, oggetto di doglianza è l’applicazione della recidiva, sotto il profilo dell’inosservanza dell’art. 99 comma 4 cod. pen. e del vizio di motivazione, evidenziandosi che dal certificato del casellario giudiziale dell’imputato si evince l’esistenza di 4 condanne, la prima per un una fattispecie depenalizzata e tutte per fatti commessi tra il 1995 e il febbraio 2004, per cui, all’epoca dei fatti di causa, risalenti al 23 dicembre 2013, era da circa 10 anni che non si rendeva autore di reati, senza considerare, peraltro, che le precedenti fattispecie risultano disomogenee rispetto al delitto di dichiarazione infedele per cui si procede, fermo restando che in nessuna delle precedenti sentenze gli era stata contestata o riconosciuta la recidiva semplice, il che avrebbe impedito l’applicazione dell’aumento per la recidiva ex art. 99 comma 4 cod. pen. Peraltro, per la condanna sub 4, relativa a fatti commessi in epoca anteriore alla definitività della sentenza sub. 3, dovevano ritenersi estinti gli effetti penali, essendo trascorsi oltre cinque anni dalla sua irrevocabilità senza che venissero commessi altri reati della stessa indole.

CONSIDERATO IN DIRITTO

È fondato unicamente il quarto motivo di ricorso sull’applicazione della recidiva, mentre nel resto il ricorso deve essere disatteso.

1. Iniziando dai primi tre motivi, suscettibili di trattazione unitaria perché tra loro sostanzialmente sovrapponibili, deve evidenziarsi che l’affermazione della penale responsabilità dell’imputato rispetto al reato a lui ascritto non presta il fianco alle censure difensive.

Sul punto occorre premettere che, pur divergendo nelle rispettive conclusioni in punto di qualificazione giuridica del fatto, tuttavia sia il Tribunale che la Corte di appello sono partite dalla medesima ricostruzione della vicenda, del resto chiaramente delineata dalla comunicazione di notizia di reato acquisita nel rito abbreviato scelto dall’imputato. Da tale informativa è invero emerso che la società s.p.a. aveva ricevuto fatture nel 2012 dalla ditta per un imponibile di 984.672 euro e Iva per 206.777 euro.

È altresì emerso dalla verifica fiscale in esame che la ditta di nel 2012 non ha presentato la dichiarazione Iva e che nella dichiarazione dei redditi, modello unico persone fisiche, ha omesso l’indicazione dei dati relativi all’Iva, compilando la dichiarazione solo in relazione ai quadri NS, RG e VA; ulteriori controlli, eseguiti tramite spesometro, la cui attendibilità è stata riscontrata dall’incrocio tra i dati forniti e la documentazione prodotta dalle ditte e, hanno poi consentito di accertare che l’impresa di ha avuto rapporti commerciali con altri soggetti, sicché è stato appurato che la ditta ha emesso fatture per complessivi 1.036.711 euro, con Iva pari a 217.593 euro. A fronte di tali entrate e dell’Iva dovuta, l’imputato ha omesso l’indicazione relativa all’Iva nella sua dichiarazione dei redditi Modello Unico e non ha riportato gli imponibili derivanti dalle fatture emesse, senza fornire al riguardo alcuna giustificazione nel corso del procedimento penale.

1.1. Ciò posto, il Tribunale ha premesso che la fattispecie contestata richiede per la sua configurabilità il superamento di una doppia soglia di punibilità, una quantitativa, relativa all’imposta evasa di euro 150.000 per taluna delle singole imposte e l’altra proporzionale, riferita all’ammontare complessivo degli elementi attivi sottratti all’imposizione, che deve essere superiore al 10% dell’ammontare degli elementi attivi indicati nella dichiarazione, o comunque superiore a tre milioni di euro. Tanto chiarito, il primo giudice ha ritenuto che, quantomeno in relazione all’Iva dovuta (217.709 euro), non solo non l’ha versata, ma non l’ha neppure riportata nella dichiarazione da lui redatta, risultando peraltro provato il superamento della soglia di rilevanza penale del fatto. Ad avviso del Tribunale, tuttavia, difettava nella vicenda in esame la prova del superamento della seconda soglia di rilevanza penale del fatto, ossia che gli elementi attivi omessi superassero del 10% il totale degli elementi attivi indicati nella dichiarazione, o che comunque fossero superiori a tre milioni di euro, ciò in quanto “non si rinviene copia della dichiarazione dei redditi fatta o accenno agli importi indicati dal contribuente”.

1.2. A conclusioni differenti è invece pervenuta la Corte di appello. Nell’accogliere l’impugnazione del Procuratore generale, infatti, i giudici di secondo grado, rilevato che la dichiarazione infedele era in atti, hanno evidenziato che, fermo restando il superamento della prima soglia, nel caso di specie doveva ritenersi integrata anche la seconda soglia di punibilità, posto che negli atti relativi all’attività di accertamento (all. 6, pag. 140 ss.), era riportato il reddito imponibile, pari a zero, risultando altresì provata la mancata compilazione della dichiarazione nelle sue parti essenziali, tra cui quella relativa all’Iva: dunque, mancando nella dichiarazione pur formalmente inoltrata l’indicazione di elementi attivi, doveva ritenersi certamente superata anche la soglia di punibilità ex art. 4 lett. b del d. Igs. n. 74 del 2000.

1.3. Orbene, l’impostazione seguita dalla Corte di appello appare immune da censure.

Deve premettersi al riguardo che l’art. 4 del d.lgs. n. 74 del 2000 (rubricato “dichiarazione infedele”), nella versione scaturita dalle modifiche operate dal decreto legge n. 124 del 2019, convertito dalla legge n. 157 del 2019 (modifiche destinate a non incidere nella vicenda in esame), sanziona la condotta di chi, fuori dei casi previsti dagli articoli 2 e 3, al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, indica in una delle dichiarazioni annuali relative a dette imposte elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo od elementi passivi inesistenti, quando, congiuntamente:

a) l’imposta evasa è superiore, con riferimento a taluna delle singole imposte, a euro centomila;

b) l’ammontare complessivo degli elementi attivi sottratti all’imposizione, anche mediante indicazione di elementi passivi inesistenti, è superiore al dieci per cento dell’ammontare complessivo degli elementi attivi indicati in dichiarazione, o, comunque, è superiore a euro due milioni.

Premesso che è corretto il riferimento delle sentenze di merito alla necessità del superamento della doppia soglia di punibilità e premesso altresì che il superamento della prima soglia di punibilità non è controverso, deve altresì osservarsi che il superamento della seconda soglia di punibilità è stato adeguatamente argomentato dalla Corte di appello, dovendosi evidenziare che la mancata compilazione delle voci della dichiarazione riguardanti elementi essenziali ai fini della determinazione complessiva del reddito e dei conseguenti importi dovuti a titolo di imposte non può essere qualificata come una condotta neutra, contribuendo al contrario a delineare la infedeltà della dichiarazione fiscale, essendo di fatto assimilabile a una dichiarazione negativa l’omessa compilazione delle singole voci concernenti il valore del reddito imponibile e dell’Iva. Del resto, il verbo utilizzato dalla fattispecie incriminatrice, “indica”, lascia aperta la possibilità che la dichiarazione contenga sia elementi numerici positivi, sia attestazioni incomplete, che siano cioè contraddistinte da omesse specificazioni di elementi determinanti ai fini della determinazione dell’imposta, per cui in tal senso anche non inserire alcun dato numerico in corrispondenza di una voce essenziale equivale a “indicare” un elemento, sia pure in negativo.

Deve peraltro evidenziarsi al riguardo che, pur in assenza di specifiche massime giurisprudenziali sul punto, anche in altra pronuncia di questa Corte (Sez. 3, n. 32490 del 24/04/2018, ricorrente Cavallo, non massimata), l’integrazione del reato di dichiarazione infedele ex art. 4 del d.lgs. n. 74 del 2000 non è stata posta in alcun modo in discussione, ciò in una vicenda, assimilabile alla presente, di dichiarazione esistente, ma non compilata nel quadro RG/RF.

Né, del resto, l’imputato, nel corso del procedimento penale, ha fornito una diversa ricostruzione dei fatti, ad esempio evocando la natura colposa dell’omessa compilazione delle voci più significative della dichiarazione da lui redatta, che invero, attraverso quegli spazi lasciati vuoti, appare maliziosamente diretta a rappresentare un quadro economico difforme da quello reale. Ne consegue che legittimamente i giudici di secondo grado hanno ritenuto che fosse stata superata anche la seconda soglia di punibilità, avuto riguardo al tenore della dichiarazione resa dal titolare della ditta individuale apparendo corretta, nella valutazione circa l’entità degli elementi attivi dichiarati, la valorizzazione anche degli spazi vuoti della dichiarazione, spazi volutamente non compilati dal dichiarante al fine di conseguire di non corrispondere l’iva, obiettivo questo che rivela anche l’esistenza del dolo specifico richiesto dalla norma incriminatrice, essendo evidente che l’omessa compilazione degli spazi essenziali della dichiarazione è stata funzionale proprio al perseguimento dell’evasione dell’imposta, non essendo stata in alcuna modo dedotta la tesi di un’eventuale natura colposa dell’omissione.

1.4. Resta solo da precisare, da un lato, che la Corte di appello non ha mancato di confrontarsi con la motivazione della sentenza di primo grado, ribaltando l’esito del giudizio all’esito di un differente e argomentato inquadramento giuridico del fatto e che, per altro verso, alcuna violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza appare ravvisabile nel caso di specie, atteso che il fatto per cui è stato condannato non si pone affatto in termini di eterogeneità rispetto a quello contestato: nel capo di imputazione, infatti, al ricorrente è stato addebitato il reato ex art. 4 del d.lgs. n. 74 del 2000 per aver indicato nella dichiarazione relativa all’Iva elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo, con superamento di entrambe le soglie di punibilità previste dalle lett. a) e b) del citato art. 4. Ed è proprio a tale fattispecie che si riferisce la condanna dell’imputato, avvenuta in secondo grado attraverso un percorso esegetico che non ha immutato la sostanza del fatto ascritto a ciò dovendosi solo aggiungere che, nel caso di specie, non di omessa dichiarazione (rilevante ex art. 5 del d.lgs. n. 74 del 2000) può parlarsi, ma di dichiarazione incompleta che, stante l’incidenza degli spazi lasciati vuoti, si qualifica come infedele e dunque rilevante ai sensi dell’art. 4 del d.lgs. n. 74 del 2000, in ragione dell’avvenuto superamento della doppia soglia di punibilità.

Non era dunque ipotizzabile una riqualificazione del fatto ai sensi dell’art. 5 del d.lgs. n. 74 del 2000, avendo questa Corte precisato (Sez. 3, n. 5141 del 22/12/2021, dep. 2022, Rv. 282832) che, in tema di reati tributari, non integra il delitto di omessa dichiarazione la presentazione, nei termini previsti dalle leggi tributarie e nel rispetto delle soglie individuate, di una dichiarazione dei redditi incompleta, in quanto l’esaustiva individuazione normativa della condotta incriminata, consistente nella mancata presentazione della dichiarazione agli uffici competenti, non è suscettibile di lettura analogica, che si porrebbe in contrasto con il principio di legalità. Correttamente quindi, nella sussistenza degli altri presupposti di legge, la dichiarazione incompleta presentata da è stata sussunta nell’alveo della previsione ex art. 4 del d.lgs. n. 74 del 2000, e ciò senza che all’imputato sia stata posta alcuna limitazione nell’esercizio del diritto di difesa rispetto al tenore formale e sostanziale della contestazione elevata a suo carico.

Di qui l’infondatezza delle censure in punto di responsabilità.

2. E’ invece fondato l’ultimo motivo di ricorso.

Premesso che all’imputato è stata contestata la “recidiva reiterata”, la Corte di appello ha ritenuto configurabili i presupposti per l’applicazione della stessa, “tenuto conto che la condotta qui giudicata appare espressiva di maggiore pericolosità raggiunta, alla luce della scaltrezza mostrata nell’azione criminosa: ed infatti il attratto dalla prospettiva di facili guadagni, non ha esitato a porre in essere la dichiarazione infedele, per un importo assai rilevante”.

Orbene, tale apparato motivazionale non si sottrae alle censure difensive.

Sul punto deve infatti richiamarsi la condivisa affermazione di questa Corte (cfr. Sez. 3, n. 33299 del 16/11/2016, dep. 2017, Rv. 270419 e Sez. 6, n. 43438 del 23/11/2010, Rv. 248960), secondo cui, ai fini della rilevazione della recidiva, intesa quale elemento sintomatico di un’accentuata pericolosità sociale del prevenuto, e non come fattore meramente descrittivo dell’esistenza di precedenti penali per delitto a carico dell’imputato, la valutazione del giudice non può fondarsi esclusivamente sulla gravità dei fatti e sull’arco temporale in cui questi risultano consumati, essendo egli tenuto a esaminare in concreto, in base ai criteri di cui all’art. 133 cod. pen., il rapporto esistente tra il fatto per cui si procede e le precedenti condanne, verificando se e in quale misura la pregressa condotta criminosa sia indicativa di una perdurante inclinazione al delitto che abbia influito quale fattore criminogeno per la commissione del reato “sub iudice”.

Nella vicenda in esame, la verifica circa il rapporto tra fatto per cui si procede e precedenti condanne riportata dall’imputato è mancata, essendosi la valutazione della Corte di appello concentrata soprattutto sull’episodio contestato, mentre nulla si dice nella sentenza impugnata circa la natura, l’epoca e il concreto disvalore dei precedenti penali a carico dell’imputato, sia in quanto tali, sia in relazione alla specifica condotta ascritta a in questo giudizio.

Ora, se è vero che il giudice della cognizione, a differenza di quello dell’esecuzione, può accertare i presupposti della recidiva reiterata prevista dall’art. 99, comma quarto, cod. pen. anche quando in precedenza non sia stata dichiarata giudizialmente la recidiva semplice (cfr. Sez. 2, n. 21451 del 05/03/2019, Rv. 275816), deve tuttavia ribadirsi che la disamina delle pregresse condanne, in un’ottica non meramente cartolare, è comunque indispensabile nella complessiva valutazione di merito finalizzata ad accertare l’idoneità della nuova condotta criminosa in contestazione a rivelare la maggior capacità a delinquere del reo.

Stante la ravvisata lacuna argomentativa in punto di applicazione della recidiva, si impone pertanto l’annullamento in parte qua della sentenza impugnata, con rinvio ad altra Sezione della Corte di appello di Brescia, restando ferma l’affermazione della penale responsabilità dell’imputato, ai sensi dell’art. 624 cod. proc. pen., stante l’infondatezza delle doglianze riguardanti la formulazione del giudizio di colpevolezza.

P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata limitatamente alla recidiva, con rinvio per nuovo giudizio ad altra Sezione della Corte di appello di Brescia.

Rigetta nel resto il ricorso. Così deciso il 17 gennaio 2023

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