CASSAZIONE

Costi per ricavi occulti: il reddito va rideterminato con una deduzione forfetaria dei costi in relazione ai ricavi accertati

Tributi – Ditta individuale – Accertamento bancario – Ricavi non contabilizzati – Maggior reddito d’impresa – Avvisi di accertamento – Contenzioso – Prova presuntiva contraria – Idonea documentazione – Deduzione forfettaria – Rideterminazione del reddito imponibile – Riconoscimento

La Corte di Cassazione, nell’ordinanza n. 5586 del 23 febbraio 2023 è intervenuta in tema di attività non dichiarate risultanti da prelevamenti bancari non giustificati, affermando che in caso di indagini bancarie che inducano il Fisco a contestare ricavi in nero va riconosciuta una deduzione in misura percentuale forfetaria dei costi, avvalendosi, se del caso, dell’ausilio di una consulenza tecnica d’ufficio.

Alla luce della pronuncia della Consulta, la Suprema corte ha rivisto il precedente indirizzo giurisprudenziale – da considerare perciò superato – secondo il quale “… In tema di imposte sui redditi, l’Amministrazione finanziaria deve riconoscere una deduzione in misura percentuale forfettaria dei costi di produzione soltanto in caso di accertamento induttivo “puro” ex art. 39, comma 2, del d.P.R. n. 600 del 1973, mentre in caso di accertamento analitico o analitico presuntivo (come in caso di indagini bancarie) è il contribuente ad avere l’onere di provare l’esistenza di costi deducibili, afferenti ai maggiori ricavi o compensi, senza che l’Ufficio possa, o debba, procedere al loro riconoscimento forfettario”. A seguito della richiamata pronuncia, tale principio deve ritenersi ora estendibile anche al caso di utilizzo di metodo analitico “misto”.

Se da una parte si afferma la non manifesta irragionevolezza della “doppia presunzione”, che dai prelevamenti bancari ingiustificati eseguiti dall’imprenditore inferisce costi e ricavi occulti, d’altra parte l’interpretazione costituzionalmente orientata richiede che il contribuente imprenditore possa sempre articolare la prova contraria presuntiva e, in particolare, eccepire la “incidenza percentuale dei costi relativi, che vanno, dunque, detratti dall’ammontare dei prelievi non giustificati” (sentenza n. 225/2005), affinché la presunzione in esame risulti compatibile anche con il principio di capacità contributiva (articolo 53, primo comma, Cost.).

In realtà, da anni la giurisprudenza di legittimità era consolidata nel ritenere che in caso di accertamento emerso dalla presunzione di ricavo derivante da movimentazioni bancarie non giustificate, il riconoscimento forfetario andasse effettuato soltanto nel caso di accertamento induttivo puro (art. 39, comma 2, DPR 600/1973) e non del comune accertamento analitico induttivo. La Corte costituzionale, criticando questo orientamento ha affermato che ciò non è proprio (diritto vivente) e che comunque non ci sono pronunce a Sezioni Unite.

La Corte costituzionale aveva peraltro ritenuto non fondate le questioni di legittimità dell’articolo 32 in esame, purché la disposizione fosse compresa alla luce della Costituzione, evidenziando che la stessa giurisprudenza di legittimità riconosce la facoltà del contribuente di fornire la prova contraria anche mediante presunzioni semplici, sia in quanto le stesse sono prove e non meri argomenti di prova, sia perché l’inammissibilità di uno strumento istruttorio dovrebbe essere prevista per legge.

In sostanza gli Ermellini hanno recepito il detto costituzionale, in primo luogo perché la presunzione legale relativa ivi prevista non contrasta con l’articolo 3 della Costituzione, essendo ammesso il contribuente alla prova contraria, anche mediante l’ausilio di presunzioni semplici; e, in secondo luogo, perché non viola il principio della capacità contributiva, dal momento che la portata della sentenza della Consulta n. 228/2014, che aveva deciso la legittimità delle regole in parola rispetto ai lavoratori autonomi, non è estensibile alla fattispecie imprenditoriale.

Comunque il contribuente imprenditore può sempre, anche in caso di accertamento analitico-induttivo, opporre la prova presuntiva contraria e, in particolare, può eccepire la “incidenza percentuale dei costi relativi, che vanno dunque detratti dall’ammontare dei prelievi non giustificati”. Anche l’Agenzia delle entrate, con la circolare 32/E/2006 aveva affermato, riguardo agli accertamenti induttivi “puri”, che “il riconoscimento di costi deve essere livellato – anche in misura percentualistica – in ragione dei maggiori ricavi accertati sulla base del meccanismo presuntivo” (di cui all’art. 32, comma 1, n. 2, DPR 600/1973).

In ogni caso la citata giurisprudenza precisa che la possibilità per il contribuente di fornire la prova contraria mediante presunzioni semplici, rispetto alla presunzione legale di cui all’articolo 32 del DPR 600/1973, non esonera il giudice dalla precisa individuazione dei dati noti dai quali dedurre quelli ignoti, dalla verifica degli indizi offerti dal contribuente in relazione ai movimenti bancari riscontrati e dalla valutazione della gravità, precisione e concordanza degli stessi.

Si richiede, in definitiva, che le prove, ancorché presuntive, siano sempre sottoposte a verifica dal giudice. Tali affermazioni sono valide sia quando il metodo di accertamento sia analitico-induttivo, sia quando sia induttivo cosiddetto puro.

Tanto premesso, e tornando alla vicenda in esame, essa nasce da avvisi con cui l’ufficio finanziario aveva determinato un maggior reddito d’impresa al titolare di una ditta individuale esercente l’attività di commercio all’ingrosso di calzature e accessori, sulla base dell’esame di movimentazioni bancarie relative a conti correnti a lui riferibili. Il contribuente presentava ricorso dinnanzi alla Commissione Tributaria Provinciale, che lo accoglieva parzialmente ma in seguito ne respingeva l’appello. I giudici regionali hanno ritenuto che il contribuente non aveva fornito elementi idonei a vincere la presunzione di cui all’art. 32, DPR 600/1973, escludendo l’incidenza del fatto che il medesimo fosse titolare di un’impresa soggetta a contabilità semplificata e, infine, ritenendo che non poteva essere riconosciuta un’incidenza percentuale di costi presunti a fronte dei maggiori ricavi, in mancanza di idonea documentazione. Da qui il ricorso in Cassazione, articolato su sei motivi, con i quali la parte contribuente si doleva della violazione e falsa applicazione degli artt. 83 e 109, comma 4, del TUIR, così come interpretati dal diritto vigente. In particolare si censurava la sentenza impugnata per non avere, la CTR, ritenuto che in caso di accertamento ex art. 32, DPR 600/1973 basato su indagini bancarie, devono essere riconosciuti, in conformità di un principio da considerarsi immanente al sistema tributario, i costi in deduzione dei maggiori ricavi accertati. Tale doglianza è stata giudicata fondata dagli Ermellini, proprio alla luce dell’interpretazione adeguatrice fornita dal giudice delle leggi, e pertanto è stato disposto che: “…. Secondo l’orientamento espresso da questa Corte «In tema di imposte sui redditi, l’Amministrazione finanziaria deve riconoscere una deduzione in misura percentuale forfettaria dei costi di produzione soltanto in caso di accertamento induttivo “puro” ex art. 39, comma 2, del d.P.R. n. 600 del 1973, mentre in caso di accertamento analitico o analitico presuntivo (come in caso di indagini bancarie) è il contribuente ad avere l’onere di provare l’esistenza di costi deducibili, afferenti ai maggiori ricavi o compensi, senza che l’Ufficio possa, o debba, procedere al loro riconoscimento forfettario» (da ultimo, Cass. n. 34996 del 2022). 12.2. Tale opzione interpretativa deve essere rivisitata alla luce della pronuncia della Corte costituzionale 31 gennaio 2023, n. 10.  12.3. Va premesso che la Commissione tributaria provinciale di Arezzo, con ordinanza del 26 aprile 2021, ha sollevato la questione di legittimità costituzionale dell’art. 32, primo comma, n. 2), del d.P.R. n. 600 del 1973, in riferimento agli artt. 3 e 53 della Costituzione, nella parte in cui pone la presunzione per la quale i prelevamenti sul conto corrente, se non risultano dalle scritture contabili, sono considerati ricavi dell’imprenditore commerciale, salvo che ne sia indicato il beneficiario. In particolare, la CTP assumeva che, in mancanza di giustificazione, un prelievo dal conto può essere attribuito, altrettanto ragionevolmente, a costi d’impresa quanto a spese personali, specie nell’ipotesi di piccoli imprenditori individuali che abbiano optato per il regime di contabilità semplificata. Sosteneva che la giurisprudenza di legittimità non consente una deduzione automatica dei costi presuntivamente sostenuti per conseguire i ricavi ottenuti grazie alle somme prelevate senza giustificazione. 12.4. La Corte costituzionale, con sentenza 31 gennaio 2023, n. 10, ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale essendo possibile un’interpretazione adeguatrice della norma.. Ha osservato che, in caso di accertamento induttivo in senso stretto (o “puro”), l’impossibilità di una ricostruzione complessiva della contabilità (o, comunque, la generalizzata inattendibilità della stessa) ha da tempo indotto la giurisprudenza di legittimità ad affermare il principio –cui ha fatto riferimento la stessa Corte nella sentenza n. 225 del 2005– secondo il quale deve riconoscersi la deduzione dei costi di produzione, determinata anche in misura percentuale forfettaria, precisando che è lo stesso ufficio finanziario ad essere onerato di determinare induttivamente non solo i ricavi, ma anche i corrispondenti costi. L’accertamento analitico – contabile (che aveva ha originato l’incidente di legittimità costituzionale) si caratterizza– invece – per la rettifica di singole componenti del reddito dichiarato e può derivare dal confronto tra la dichiarazione e le scritture contabili (il bilancio, in particolare) e dall’esame della documentazione posta a fondamento della contabilità, come le risultanze delle movimentazioni bancarie. Presupposto dell’utilizzo del metodo analitico o “misto” è l’attendibilità complessiva della contabilità, che consente la rettifica di singole componenti reddituali: in sostanza, la determinazione del reddito è compiuta nell’ambito delle risultanze della contabilità, ma con una ricostruzione induttiva di singoli elementi attivi o passivi, dei quali risulta provata aliunde la mancanza o l’inesattezza. Proprio la presenza di una contabilità generalmente attendibile, e una ripresa a tassazione che si realizza mediante rettifiche di singole “poste” della stessa, implica che ai fini della deduzione dei costi, operi in generale la regola ritraibile dall’art. 109 t.u.i.r., in forza della quale, se gli stessi non sono presenti nel conto economico, possono essere dedotti solo se risultano da elementi certi e precisi, dei quali l’onere della prova è a carico del contribuente. Da tale sistema, secondo il giudice delle leggi, deriverebbero esiti irragionevoli perché finirebbe per prevedere un trattamento più severo, quanto al regime della possibile prova contraria rispetto alla presunzione legale in esame, in danno del contribuente che ha tenuto una contabilità complessivamente attendibile (e che può essere destinatario di un accertamento analitico-induttivo), rispetto al regime probatorio di cui si avvale chi, destinatario di un accertamento induttivo, ha omesso qualsiasi contabilità ovvero ne ha tenuta una complessivamente inattendibile o ha posto in essere gravi condotte, quale l’omessa presentazione della dichiarazione dei redditi. Pertanto, la disposizione censurata intanto si sottrae alle censure di illegittimità costituzionale in quanto si interpreti nel senso che, a fronte della presunzione legale di ricavi non contabilizzati, e quindi “occulti”, scaturente da prelevamenti bancari non giustificati, il contribuente imprenditore possa sempre, anche in caso di accertamento analitico- induttivo, opporre la prova presuntiva contraria e in particolare possa eccepire la «incidenza percentuale dei costi relativi, che vanno, dunque, detratti dall’ammontare dei prelievi non giustificati» (Corte cost. n. 225 del 2005). 12.5. L ‘Agenzia delle entrate, con circolare n. 32/E/2006 (capitolo quinto, punto 5.5), aveva già affermato, con riguardo agli accertamenti induttivi “puri”, che « il riconoscimento di costi deve essere livellato – anche in misura percentualistica – in ragione dei maggiori ricavi accertati sulla base del meccanismo presuntivo» di cui all’art. 32, primo comma, n. 2), del d.P.R. n. 600 del 1973. A seguito della richiamata pronuncia della Corte Costituzionale, tale principio deve ritenersi estensibile anche al caso di utilizzo del metodo analitico o “misto”. 12.6. In conclusione sul punto, alla stregua dell’interpretazione adeguatrice fornita dal giudice delle leggi, si rivela dunque errata la decisione impugnata nella parte in cui afferma che non è possibile riconoscere, in mancanza di idonea documentazione, una incidenza percentuale di costi presunti a fronte di maggiori ricavi. Il motivo va dunque accolto”.

Corte di Cassazione – Ordinanza 23 febbraio 2023, n. 5586

Sul ricorso proposto da:

D. M., già rappresentato e difeso dall’Avv. Gianluigi Masnata, cancellato dall’Albo;

–ricorrente –

contro AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’Avvocatura Generale dello Stato, che la rappresenta e difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 672/7/2014 della Commissione tributaria regionale della Liguria, depositata il 22 maggio 2014;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 23 gennaio 2023 dal Consigliere Antonio Francesco Esposito;

Rilevato che

A seguito di verifica fiscale effettuata nei confronti di M. D., titolare di ditta individuale esercente l’attività di commercio all’ingrosso di calzature e accessori, e alla successiva emissione di processo verbale di constatazione, l’Agenzia delle entrate notificava al contribuente due avvisi di accertamento, relativi rispettivamente agli anni d’imposta 2007 e 2008, con i quali veniva determinato un maggior reddito d’impresa imponibile sulla base dell’esame di movimentazioni bancarie relative a conti correnti riferibili al D. Contro gli atti impositivi il contribuente proponeva ricorso dinanzi alla Commissione tributaria provinciale di Savona, che lo accoglieva parzialmente.

La Commissione tributaria regionale della Liguria respingeva l’appello del D. confermando la decisione impugnata.

Riteneva, in particolare, la CTR che il contribuente non aveva fornito elementi idonei a vincere la presunzione di cui all’art. 32 d.P.R. n. 600 del 1973.

Osservava, inoltre, che non assumeva rilievo la circostanza che il D. fosse titolare di impresa soggetta a contabilità semplificata e che non poteva essere riconosciuta una incidenza percentuale di costi presunti a fronte dei maggiori ricavi in mancanza di idonea documentazione.

Avverso la sentenza della CTR il contribuente ha proposto ricorso per cassazione, affidato a nove motivi.

Resiste con controricorso l’Agenzia delle entrate.

Considerato che

1. Con il primo motivo – «Omesso esame di fatti e atti decisivi – Art. 360 n. 5 cod. proc. civ. Violazione e falsa applicazione dell’art. 39, I c., del D.P.R. 600/73 e dell’art. 42, II c., del D.P.R. 600/73»– il contribuente lamenta che le indagini di polizia tributaria, che secondo il ricorrente non avevano tenuto conto della regolare tenuta dei libri contabili e fiscali e si presentavano lacunose, erano state acriticamente recepite dall’Agenzia delle entrate negli avvisi di accertamento.

2. Con il secondo motivo – «Violazione e falsa applicazione dell’art. 18, comma 1° e comma 9, del D.P.R. n. 600/73 – Omesso esame» – si censura la sentenza impugnata per non avere considerato che l’impresa individuale di cui era titolare il contribuente era soggetta a regime di contabilità semplificata, sicché dovevano nella specie rilevare i ricavi dichiarati, restando precluso l’accertamento del reddito tramite indagini bancarie.

3. Con il terzo motivo – «Violazione e falsa applicazione dell’art. 10 della legge 212/00 – Statuto del contribuente» – si lamenta che l’Agenzia delle entrate aveva omesso di indicare le ragioni per le quali aveva recepito le indicazioni contenute nel processo verbale di constatazione, in violazione del principio di affidamento.

4. Con il quarto motivo – «Omesso esame – Violazione e falsa applicazione degli artt. 83 e 109, c. 4, del T.U. 917/86, così come interpretati dal diritto vigente» – si censura la sentenza impugnata per non avere la CTR ritenuto che, in caso di accertamento ex art. 32 d.P.R. n. 600 del 1973 basato su indagini bancarie, devono essere riconosciuti, in conformità di un principio da considerarsi immanente al sistema tributario, i costi in deduzione dei maggiori ricavi accertati.

5. Con il quinto motivo – «omesso esame di aspetti ed eccezioni fondamentali, debitamente prospettati» – si lamenta che l a CTR ha omesso di considerare i documenti menzionati nell’atto di appello volti a dimostrare l’infondatezza della pretesa impositiva.

6. Con il sesto motivo – «Omesso esame – Violazione e falsa applicazione degli artt. 4, I c., e 12 del D.Lgvo 15.12.1997, n. 446. Violazione e falsa applicazione dell’art. 11 del detto n. 446/97» – si deduce l’illegittimità della determinazione dell’imponibile ai fini Irap in misura identica a quella indicata per l’imposizione diretta.

7. Con il settimo motivo – «Omesso esame – Violazione e falsa applicazione degli artt. 54 e 55 del D.P.R. 633/72 e succ. modifiche» – si sostiene, in particolare, che l’Amministrazione finanziaria avrebbe dovuto effettuare ulteriori indagini al fine di accertare la fondatezza della pretesa e non fermarsi alle risultanze delle indagini bancarie.

8. Con l’ottavo motivo- «Omessa, insufficiente pronuncia sulle prove fornite – Art. 360, n. 5, cod. proc. civ.; Mancanza di esame» – si censura la sentenza impugnata per avere omesso ogni valutazione sulla prova fornita riguardo a determinati pagamenti effettuati da alcuni clienti.

9. Con il nono motivo – «Violazione dell’art. 12, III e V comma, del D.Lgvo 18.12.1997, n. 472» – si sostiene che erroneamente erano state applicate sanzioni distinte per ogni singolo accertamento dovendosi per contro tenere conto di tutti gli accertamenti emessi anche per altre annualità.

10. Il primo e il terzo motivo possono essere esaminati congiuntamente, in quanto vertono entrambi sull’asserito acritico recepimento negli avvisi di accertamento del processo verbale di constatazione.

I due motivi si palesano inammissibili e in ogni caso infondati.

Posto che la questione prospettata nelle doglianze risulta estranea al thema decidendum delineato nei precedenti gradi di giudizio, sicché non è prospettabile per la prima volta in sede di legittimità,essa si palesa comunque destituita di fondamento, alla luce dell’orientamento di questa Corte secondo cui, in tema di avviso di accertamento, la motivazione per relationem con rinvio alle conclusioni contenute nel verbale redatto dalla Guardia di Finanza nell’esercizio dei poteri di polizia tributaria, non è illegittima per mancanza di autonoma valutazione da parte dell’Ufficio degli elementi da quella acquisiti, significando semplicemente che l’Ufficio, condividendone le conclusioni, ha inteso realizzare una economia di scrittura che, avuto riguardo alla circostanza che si tratta di elementi già noti al contribuente, non arreca alcun pregiudizio al corretto svolgimento del contraddittorio (Cass. n. 32957 del 2018).

11. Il secondo motivo è infondato, posto che « In tema di accertamento delle imposte sui redditi, la presunzione di cui all’art. 32 del d.P.R. n. 600 del 1973 (secondo cui i prelevamenti e i versamenti operati sui conti correnti bancari, non annotati contabilmente, vanno imputati ai ricavi conseguiti, nella propria attività, dal contribuente che non ne dimostri l’inclusione nella base imponibile oppure l’estraneità alla produzione del reddito) si applica anche alle imprese che abbiano adottato il regime della contabilità semplificata» (Cass. n. 40221 del 2021).

12. In ordine al quarto motivo si osserva quanto segue.

12.1. Secondo l’orientamento espresso da questa Corte «In tema di imposte sui redditi, l’Amministrazione finanziaria deve riconoscere una deduzione in misura percentuale forfettaria dei costi di produzione soltanto in caso di accertamento induttivo “puro” ex art. 39, comma 2, del d.P.R. n. 600 del 1973, mentre in caso di accertamento analitico o analitico presuntivo (come in caso di indagini bancarie) è il contribuente ad avere l’onere di provare l’esistenza di costi deducibili, afferenti ai maggiori ricavi o compensi, senza che l’Ufficio possa, o debba, procedere al loro riconoscimento forfettario» (da ultimo, Cass. n. 34996 del 2022).

12.2. Tale opzione interpretativa deve essere rivisitata alla luce della pronuncia della Corte costituzionale 31 gennaio 2023, n. 10.

12.3. Va premesso che la Commissione tributaria provinciale di Arezzo, con ordinanza del 26 aprile 2021, ha sollevato la questione di legittimità costituzionale dell’art. 32, primo comma, n. 2), del d.P.R. n. 600 del 1973, in riferimento agli artt. 3 e 53 della Costituzione, nella parte in cui pone la presunzione per la quale i prelevamenti sul conto corrente, se non risultano dalle scritture contabili, sono considerati ricavi dell’imprenditore commerciale, salvo che ne sia indicato il beneficiario.

In particolare, la CTP assumeva che, in mancanza di giustificazione, un prelievo dal conto può essere attribuito, altrettanto ragionevolmente, a costi d’impresa quanto a spese personali, specie nell’ipotesi di piccoli imprenditori individuali che abbiano optato per il regime di contabilità semplificata. Sosteneva che la giurisprudenza di legittimità non consente una deduzione automatica dei costi presuntivamente sostenuti per conseguire i ricavi ottenuti grazie alle somme prelevate senza giustificazione.

12.4. La Corte costituzionale, con sentenza 31 gennaio 2023, n. 10, ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale essendo possibile un’interpretazione adeguatrice della norma.

Ha osservato che, in caso di accertamento induttivo in senso stretto (o “puro”), l’impossibilità di una ricostruzione complessiva della contabilità (o, comunque, la generalizzata inattendibilità della stessa) ha da tempo indotto la giurisprudenza di legittimità ad affermare il principio –cui ha fatto riferimento la stessa Corte nella sentenza n. 225 del 2005– secondo il quale deve riconoscersi la deduzione dei costi di produzione, determinata anche in misura percentuale forfettaria, precisando che è lo stesso ufficio finanziario ad essere onerato di determinare induttivamente non solo i ricavi, ma anche i corrispondenti costi.

L’accertamento analitico – contabile (che aveva ha originato l’incidente di legittimità costituzionale) si caratterizza– invece – per la rettifica di singole componenti del reddito dichiarato e può derivare dal confronto tra la dichiarazione e le scritture contabili (il bilancio, in particolare) e dall’esame della documentazione posta a fondamento della contabilità, come le risultanze delle movimentazioni bancarie. Presupposto dell’utilizzo del metodo analitico o “misto” è l’attendibilità complessiva della contabilità, che consente la rettifica di singole componenti reddituali: in sostanza, la determinazione del reddito è compiuta nell’ambito delle risultanze della contabilità, ma con una ricostruzione induttiva di singoli elementi attivi o passivi, dei quali risulta provata aliunde la mancanza o l’inesattezza.

Proprio la presenza di una contabilità generalmente attendibile, e una ripresa a tassazione che si realizza mediante rettifiche di singole “poste” della stessa, implica che ai fini della deduzione dei costi, operi in generale la regola ritraibile dall’art. 109 t.u.i.r., in forza della quale, se gli stessi non sono presenti nel conto economico, possono essere dedotti solo se risultano da elementi certi e precisi, dei quali l’onere della prova è a carico del contribuente. Da tale sistema, secondo il giudice delle leggi, deriverebbero esiti irragionevoli perché finirebbe per prevedere un trattamento più severo, quanto al regime della possibile prova contraria rispetto alla presunzione legale in esame, in danno del contribuente che ha tenuto una contabilità complessivamente attendibile (e che può essere destinatario di un accertamento analitico-induttivo), rispetto al regime probatorio di cui si avvale chi, destinatario di un accertamento induttivo, ha omesso qualsiasi contabilità ovvero ne ha tenuta una complessivamente inattendibile o ha posto in essere gravi condotte, quale l’omessa presentazione della dichiarazione dei redditi.

Pertanto, la disposizione censurata intanto si sottrae alle censure di illegittimità costituzionale in quanto si interpreti nel senso che, a fronte della presunzione legale di ricavi non contabilizzati, e quindi “occulti”, scaturente da prelevamenti bancari non giustificati, il contribuente imprenditore possa sempre, anche in caso di accertamento analitico- induttivo, opporre la prova presuntiva contraria e in particolare possa eccepire la «incidenza percentuale dei costi relativi, che vanno, dunque, detratti dall’ammontare dei prelievi non giustificati» (Corte cost. n. 225 del 2005).

12.5. L’Agenzia delle entrate, con circolare n. 32/E/2006 (capitolo quinto, punto 5.5), aveva già affermato, con riguardo agli accertamenti induttivi “puri”, che «il riconoscimento di costi deve essere livellato – anche in misura percentualistica – in ragione dei maggiori ricavi accertati sulla base del meccanismo presuntivo» di cui all’art. 32, primo comma, n. 2), del d.P.R. n. 600 del 1973. A seguito della richiamata pronuncia della Corte Costituzionale, tale principio deve ritenersi estensibile anche al caso di utilizzo del metodo analitico o “misto”.

12.6. In conclusione sul punto, alla stregua dell’interpretazione adeguatrice fornita dal giudice delle leggi, si rivela dunque errata la decisione impugnata nella parte in cui afferma che non è possibile riconoscere, in mancanza di idonea documentazione, una incidenza percentuale di costi presunti a fronte di maggiori ricavi.

Il motivo va dunque accolto. In sede di rinvio la Corte di giustizia tributaria dovrà quindi rideterminare il reddito imponibile del contribuente riconoscendo una deduzione in misura percentuale forfettaria dei costi in relazione ai ricavi accertati, avvalendosi anche – se del caso – dell’ausilio di consulenza tecnica d’ufficio.

13. Il quinto e l’ottavo motivo sono inammissibili per difetto di autosufficienza. Le Sezioni Unite di questa Corte, con ordinanza n. 8950 del 2022, hanno precisato che « Il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, ai sensi dell’art. 366, comma 1, n. 6), c.p.c. – quale corollario del requisito di specificità dei motivi – anche alla luce dei principi contenuti nella sentenza CEDU Succi e altri c. Italia del 28 ottobre 2021 – non deve essere interpretato in modo eccessivamente formalistico, così da incidere sulla sostanza stessa del diritto in contesa, e non può pertanto tradursi in un ineluttabile onere di integrale trascrizione degli atti e documenti posti a fondamento del ricorso, insussistente laddove nel ricorso sia puntualmente indicato il contenuto degli atti richiamati all’interno delle censure, e sia specificamente segnalata la loro presenza negli atti del giudizio di merito».

Tanto premesso, va osservato come il ricorrente (quinto motivo) fondi la doglianza su «precisi, documentati, dati contabili» corroborati dalla «documentazione ricostruttiva depositata», senza tuttavia indicare il contenuto dei documenti richiamati ed operando un rinvio alle «pagine 2, 5, 7 ed 8, 10 e 11 dell’atto di appello» che – per la sua genericità – non soddisfa il canone di autosufficienza delineato nel menzionato arresto del giudice della nomofilachia.

Per le medesime ragioni si palesa inammissibile la censura (ottavo motivo) ove è fatto riferimento a «pagamenti rateali e/o per acconti» e «fatture di compravendita», senza ulteriori riferimenti.

14. Anche il sesto, il settimo e d il nono motivo sono inammissibili. Essi vertono, anzitutto, su questioni prospettate per la prima volta in sede di legittimità, non appartenenti al tema del decidere dei precedenti gradi del giudizio di merito, né rilevabili di ufficio (Cass. n. 17041 del 2013, Cass. n. 25319 del 2017).

Per il resto, le censure mirano ad una inammissibile nuova valutazione del materiale probatorio, diversa da quella svolta dal giudice di merito e ad esso riservata.

Esula, infatti, dal vizio di legittimità ex art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ. qualsiasi contestazione volta a criticare il convincimento che il giudice di merito si è formato, ex art. 116, primo e secondo comma, cod. proc. civ., in esito all’esame del materiale probatorio ed al conseguente giudizio di prevalenza degli elementi di fatto, operato mediante la valutazione della maggiore o minore attendibilità delle fonti di prova, essendo esclusa, in ogni caso, una nuova rivalutazione dei fatti da parte della Corte di legittimità (Cass.n. 15276 del 2021).

15. In conclusione, deve essere accolto il quarto motivo di ricorso, rigettati il primo, il secondo e il terzo e dichiarati inammissibili gli altri.

La sentenza impugnata va dunque cassata in relazione al motivo accolto, con rinvio alla Corte di giustizia tributaria di secondo grado della Liguria, in diversa composizione, che si atterrà ai principi richiamati e provvederà anche alla liquidazione delle spese del presente giudizio.

P.Q.M.

La Corte accoglie il quarto motivo di ricorso, rigetta il primo, il secondo e il terzo e dichiara inammissibili gli altri;

cassa la sentenza impugnata in relazione la motivo accolto e rinvia alla Corte di giustizia tributaria di secondo grado della Liguria, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.  Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 23 gennaio 2023

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