CASSAZIONE

Corte Costituzionale: le sanzioni amministrative sulle imposte devono essere proporzionate

Tributi – Sanzioni in materia di imposte dirette – Omessa presentazione della dichiarazione ai fini delle imposte sui redditi e dell’imposta regionale sulle attività produttive – Applicazione della sanzione amministrativa dal centoventi al duecentoquaranta per cento dell’ammontare di tutte le imposte dovute sulla base della dichiarazione omessa – Applicazione della sanzione amministrativa sulle imposte che residuano dopo il pagamento spontaneo, anteriore all’accertamento fiscale, da parte del contribuente che abbia

omesso la dichiarazione – Mancata previsione – Sanzioni tributarie per omesso o ritardato versamento delle imposte – Applicazione della sanzione amministrativa pari al trenta per cento di ogni importo non versato e riduzioni previste nel caso di versamento spontaneo del contribuente – Condizioni – Esclusione di avvalersi del ravvedimento operoso se non si presenta la dichiarazione fiscale, e si effettua il versamento spontaneo delle imposte prima dell’accertamento

La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 46 del  17 marzo 2023, dichiarando non fondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 1 e 13 del D.lgs 471/1997, che era stata sollevata dall’ordinanza del 25 marzo 2022 della Corte di Giustizia Tributaria di Primo Grado di Bari, ha in sintesi affermato che anche per le sanzioni amministrative tributarie vale il principio di proporzionalità, in considerazione che già l’art. 7 del D.lgs. 472/1997, prevedendo la possibilità di ridurre le sanzioni fino a dimezzarle, si pone ancora come “… una opportuna valvola di decompressione che è atta a mitigare l’applicazione di sanzioni”, che “strutturate per garantire un forte effetto deterrente al fine di evitare evasioni anche totali delle imposte, tendono a divenire draconiane quando colpiscono contribuenti che invece tale intento chiaramente non rivelano”.  

Ciò precisato, il problema di ragionevolezza e proporzionalità della sanzione in questione persiste e viene oggi chiarito dalla Consulta mediante una interpretazione innovativa delle disposizioni in tema di sanzioni tributarie non penali, che pone per la prima volta la correlazione delle norme esaminate dalla Corte rimettente con l’art. 7 del D.lgs. 472/197, rubricato appunto “… Disposizioni sulle sanzioni amministrative per violazioni di norme tributarie”.

La sentenza ha pertanto offerto un’interpretazione costituzionalmente orientata del richiamato art. 7, nella quale, “come del resto da tempo auspicato dalla dottrina, il comma 4 non venga letto atomisticamente, ma in rapporto con il comma 1 del medesimo art. 7 del d.lgs. n. 472 del 1997”. In questi termini, infatti, il perimetro di applicazione del comma 4 viene dilatato, considerando, tra le circostanze che possono determinare la riduzione fino al dimezzamento della sanzione, quanto indicato nel comma 1 di tale articolo e, in particolare, la condotta dell’agente e l’opera da lui svolta per l’eliminazione o l’attenuazione delle conseguenze.

Tale interpretazione, precisa la Corte, “fornisce maggiore chiarezza ai criteri di determinazione delle sanzioni in esso stabiliti, e va applicata al sistema delle sanzioni tributarie” dall’Agenzia delle entrate o in sede contenziosa, anche a prescindere da una formale istanza di parte.

La questione aperta dai Giudici tributari è stata così ritenuta non fondata, ritenendo che la sanzione può essere ridotta fino al dimezzamento valutando la condotta dell’agente e l’opera da lui svolta per l’eliminazione o l’attenuazione delle conseguenze: quindi, la  risposta sanzionatoria all’omessa presentazione della dichiarazione della società consolidante, seguendo quanto affermato dai giudici delle leggi, non può ignorare di considerare il comportamento del contribuente, che da un lato ha tempestivamente presentato la propria dichiarazione rendendosi visibile e facilmente intercettabile dal sistema dei controlli fiscali, e dall’altro, sebbene con alcuni anni di ritardo rispetto alle scadenze legali ma comunque prima di ricevere gli avvisi di accertamento, ha interamente versato le imposte.

Per ulteriore chiarezza ricordiamo che i giudici tributari di Bari rimettevano la questione alla Consulta poiché ravvisavano dubbi di legittimità costituzionale soprattutto sull’art. 1, comma 1, primo periodo, del D.lgs. 471/1997, sostenendo che confliggerebbe, sotto un primo profilo, con l’art. 3 della Costituzione per i principi di eguaglianza, proporzionalità e ragionevolezza e nella parte in cui prevede che, ove alla omessa presentazione della dichiarazione dei redditi faccia comunque seguito, prima della ricezione di avvisi di accertamento, il versamento spontaneo dell’imposta, la sanzione dal 120 al 240% si applichi sull’intero “ammontare di tutte le imposte dovute sulla base della dichiarazione omessa”, anziché solo sull’importo residuo di quelle da versare.

Secondo i giudici regionali dovrebbe essere distinta l’offensività della condotta di chi omette la presentazione della dichiarazione al fine di evadere il pagamento delle imposte da quella di chi, pur avendo omesso la presentazione, paga spontaneamente le imposte dovute pur senza un previo accertamento fiscale.

La sanzione prevista dall’art. 1, comma 1, primo periodo cit., punisce infatti indiscriminatamente il contribuente senza riguardo all’entità oggettiva e soggettiva della violazione commessa, sottoponendo così al medesimo trattamento condotte fra di loro eterogenee e aventi conseguenze diverse. In altre parole, la suddetta previsione normativa avrebbe ancorato la sanzione al criterio meramente formale ed estrinseco della omessa presentazione della dichiarazione fiscale, invece che a quello sostanziale dell’ostacolo all’accertamento e della evasione del pagamento dell’imposta, senza considerare la condotta di chi, pur non presentando la dichiarazione dei redditi effettui i pagamenti per intero prima della ricezione dell’avviso di accertamento, che sarebbe meno grave di quella di chi ometta non solo la presentazione ma anche il pagamento delle imposte.

Inoltre, l’art. 3 della Costituzione subirebbe un vulnus anche sotto un ulteriore profilo, in quanto scoraggerebbe l’adempimento tardivo ma spontaneo del pagamento delle imposte demotivando i contribuenti, che non ne ricaverebbero alcun vantaggio.

La norma citata contrasterebbe, poi, con i parametri costituzionali di cui agli artt. 53 e 76 della Costituzione, dal momento che divergerebbe dallo scopo indicato dalla legge delega di riforma tributaria n. 825/1971 e, in particolare, da quello di commisurare le sanzioni “all’effettiva entità oggettiva e soggettiva delle violazioni”.

La seconda disposizione oggetto di doglianza (art. 13, comma 1, D.lgs. 471/1997) sarebbe incostituzionale nella parte in cui esclude la possibilità di fruire del regime di favor del ravvedimento per il contribuente che, pur avendo omesso la presentazione della dichiarazione fiscale, abbia provveduto al versamento spontaneo delle imposte dovute. La norma censurata sarebbe dunque in contrasto con gli artt. 3, 53 e 76 della Costituzione nella parte in cui prevede che solo chi ha presentato la dichiarazione fiscale senza eseguire i versamenti sia soggetto alla sanzione amministrativa pari al 30% dell’importo non pagato e può fruire delle riduzioni previste nel caso di versamento spontaneo, e non anche chi ha omesso la presentazione ma ha poi effettuato spontaneamente il pagamento delle imposte prima di ricevere un avviso di accertamento da parte dell’Amministrazione finanziaria.

In buona sostanza la prima disposizione censurata prevede che “nei casi di omessa presentazione della dichiarazione ai fini delle imposte sui redditi e dell’imposta regionale sulle attività produttive, si applica la sanzione amministrativa dal centoventi al duecentoquaranta per cento dell’ammontare delle imposte dovute, con un minimo di euro 250”. A sua volta l’art. 13, comma 1, del D.lgs. 471/1997 dispone che “chi non esegue, in tutto o in parte, alle prescritte scadenze, i versamenti in acconto, i versamenti periodici, il versamento di conguaglio o a saldo dell’imposta risultante dalla dichiarazione, detratto in questi casi l’ammontare dei versamenti periodici e in acconto, ancorché non effettuati, è soggetto a sanzione amministrativa pari al trenta per cento di ogni importo non versato, anche quando, in seguito alla correzione di errori materiali o di calcolo rilevati in sede di controllo della dichiarazione annuale, risulti una maggiore imposta o una minore eccedenza detraibile. Per i versamenti effettuati con un ritardo non superiore a novanta giorni, la sanzione di cui al primo periodo è ridotta della metà. Salva l’applicazione dell’articolo 13 del decreto legislativo 18 dicembre 1997, n. 472, per i versamenti effettuati con un ritardo non superiore a quindici giorni, la sanzione di cui al secondo periodo è ulteriormente ridotta a un importo pari a un quindicesimo per ciascun giorno di ritardo”.

Ricorda la Corte nella disamina che con la dichiarazione dei redditi il contribuente è pertanto chiamato a collaborare con l’Amministrazione finanziaria, esponendosi di conseguenza ai relativi controlli. Tale dichiarazione ha, invero, una rilevanza procedimentale: consente all’Agenzia delle entrate, innanzitutto, di attivare i controlli automatizzati e formali di cui, rispettivamente, agli artt. 36-bis e 36-ter del DPR 600/1973, ne condiziona poi l’accertamento e determina, in particolare, i metodi di rettifica del reddito dichiarato. In tal modo la presentazione della dichiarazione agevola le attività del Fisco, che dovrà al contrario ricorrere ad altri e più impegnativi strumenti nei confronti di quei contribuenti poco virtuosi che, non assumendo tale atteggiamento collaborativo, presumibilmente sono orientati a sottrarsi totalmente al versamento dei tributi dovuti. L’accertamento d’ufficio, però, implica un impegno superiore rispetto a quello normalmente richiesto per l’effettuazione degli altri controlli e, in particolare, di quelli automatizzati e formali. Da qui l’esigenza, per il buon funzionamento del sistema tributario, che l’omessa presentazione della dichiarazione dei redditi sia presidiata da una sanzione con un forte effetto deterrente.

La Consulta ha fissato, di conseguenza, alcune importanti conclusioni che riguardano sia le sanzioni tributarie non penali, che devono essere ragionevoli e proporzionate alla gravità del comportamento del contribuente, che il dimezzamento della sanzione, che deve intervenire anche quando l’interessato attenua o elimina del tutto le conseguenze dell’evasione iniziale, ad esempio presentando le dichiarazioni mancanti o pagando il dovuto anche se in ritardo.

Infine, la diminuzione sino alla metà delle sanzioni può essere decisa d’ufficio dalla stessa Amministrazione finanziaria o, addirittura, richiesta dal contribuente qualora sia stato articolato un motivo di impugnazione sulla debenza o sull’entità delle sanzioni irrogate e risultino allegate circostanze tali da consentirlo.

Tanto premesso, e tornando alla vicenda in esame, il caso è sorto nel corso di un giudizio riguardante due avvisi di accertamento emessi dall’Agenzia delle entrate nei confronti di una società consolidante che non aveva provveduto alla presentazione della dichiarazione dei redditi relativa al consolidato fiscale. In particolare, con i due avvisi di accertamento sono state comminate sanzioni per omessa presentazione delle dichiarazioni dei redditi, pari al 120% delle imposte accertate; tuttavia, la società ricorrente era riuscita a dimostrare di aver pagato integralmente le imposte dovute, unitamente agli interessi e alle sanzioni ridotte, prima di aver ricevuto gli avvisi di accertamento impugnati.

Si era, quindi, “in presenza di un contribuente che sì ha omesso di presentare la dichiarazione dei redditi relativa al regime fiscale del consolidato, ma, da un lato, aveva tempestivamente presentato la propria dichiarazione, in tal modo esponendosi inequivocabilmente ai controlli dell’Agenzia dell’entrate, e, dall’altro, ha comunque interamente versato, sebbene in ritardo, ma prima di aver ricevuto qualsivoglia avviso di accertamento, le imposte dovute”.

I giudici tributari hanno quindi rimesso alla Consulta, come indicato in precedenza, la questione di legittimità costituzionale degli argomenti esposti. La Corte non ha ritenuto idonee le osservazioni presentate dall’Avvocatura erariale nel dibattimento e ha stabilito quanto segue: “… A fronte di questo quadro normativo e giurisprudenziale, la possibilità di ricondurre nell’ambito dei principi di ragionevolezza e di proporzionalità una sanzione come quella comminata dalla norma censurata, passa attraverso una interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 7 del d.lgs. n. 472 del 1997 che va applicata al sistema delle sanzioni tributarie. In ipotesi come quella del giudizio a quo, infatti, la risposta sanzionatoria all’omessa presentazione della dichiarazione (relativa alla fiscal unit) della società consolidante, non può trascurare di considerare il comportamento del contribuente che, come detto, da un lato, ha tempestivamente presentato la propria dichiarazione (adempimento espletato anche dalle società consolidate), di fatto rendendosi visibile e facilmente intercettabile dal sistema dei controlli fiscali; e dall’altro, sebbene con alcuni anni di ritardo rispetto alle scadenze legali, ma comunque prima di ricevere gli avvisi di accertamento, ha interamente versato le imposte. In relazione a simili situazioni, la previsione di una sanzione pari al centoventi per cento dell’imposta dovuta, non potrebbe, di per sé, superare il test di proporzionalità. La frizione, peraltro, si manifesterebbe anche con riguardo al sindacato di ragionevolezza, dal momento che il peso della sanzione potrebbe effettivamente scoraggiare, come evidenziato dal rimettente, il pur tardivo adempimento. Il vulnus a tali principi è però evitato, senza necessità di incidere sulla dosimetria in astratto definita dal legislatore nella norma censurata, considerando, nella determinazione delle sanzioni, le potenzialità offerte dal citato art. 7 del d.lgs. n. 472 del 1997 che, interpretato in correlazione con l’art. 3 Cost., può riportare la norma censurata in termini conformi al volto costituzionale del sistema sanzionatorio, consentendo al giudice a quo di ridurla a una misura proporzionata e ragionevole. Occorre quindi che, come del resto da tempo auspicato dalla dottrina, il comma 4 non venga letto atomisticamente, ma in rapporto con il comma 1 del medesimo art. 7 del d.lgs. n. 472 del 1997: in questi termini, infatti, il perimetro di applicazione del comma 4 viene dilatato, considerando, tra le «circostanze» – non più necessariamente “eccezionali” – che possono determinare la riduzione fino al dimezzamento della sanzione, quanto indicato nel comma 1 di tale articolo, e in particolare la condotta dell’agente e l’opera da lui svolta per l’eliminazione o l’attenuazione delle conseguenze. Valorizzato in questi termini, alla luce di una interpretazione costituzionalmente orientata, che fornisce maggiore chiarezza ai criteri di determinazione delle sanzioni in esso stabiliti, l’art. 7, comma 4, del d.lgs. n. 472 del 1997 si pone come una opportuna valvola di decompressione che è atta a mitigare l’applicazione di sanzioni, come quella stabilita dalla norma censurata, che, strutturate per garantire un forte effetto deterrente al fine di evitare evasioni anche totali delle imposte, tendono a divenire draconiane quando colpiscono contribuenti che invece tale intento chiaramente non rivelano. Peraltro, la riduzione nei sensi indicati ben può essere operata già da parte dell’Agenzia delle entrate, poiché questa spesso dispone, fin dal momento della irrogazione della sanzione, degli elementi di valutazione utili al riguardo. In ogni caso ad essa potrà ricorrere il giudice nell’ambito del contenzioso, anche a prescindere da una formale istanza di parte, ogni qualvolta sia stato articolato un motivo di impugnazione sulla debenza o sull’entità delle sanzioni irrogate e risultino allegate circostanze tali da consentirlo. 14.– Tale valorizzazione dell’art. 7 del d.lgs. n. 472 del 1997 alla luce dell’art. 3 Cost. trova solide basi nell’evoluzione della giurisprudenza di questa Corte, che in più occasioni ha precisato, da un lato, che «il principio di proporzionalità della sanzione rispetto alla gravità dell’illecito» è «applicabile anche alla generalità delle sanzioni amministrative» (ex plurimis, sentenza n. 112 del 2019) e, dall’altro, che anche per le sanzioni amministrative si prospetta «l’esigenza che non venga manifestamente meno un rapporto di congruità tra la sanzione e la gravità dell’illecito sanzionato», in particolare dando rilievo «al disvalore concreto di fatti pure ricompresi nella sfera applicativa della norma» (sentenza n. 185 del 2021). Ciò in quanto «il principio di proporzionalità postula l’adeguatezza della sanzione al caso concreto e tale adeguatezza non può essere raggiunta se non attraverso la concreta valutazione degli specifici comportamenti messi in atto nella commissione dell’illecito» (sentenza n. 161 del 2018). 15.– Va, infine, incidentalmente considerato che la valorizzazione in questi termini del menzionato art. 7 può anche permettere una più efficace risposta, quando ne ricorrano le condizioni, a quelle esigenze – ad esempio già rilevate dalla ricordata giurisprudenza di legittimità in tema di reverse charge – di conformità del sistema sanzionatorio nazionale ai criteri indicati dalla giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea in tema di proporzionalità delle sanzioni tributarie relative ai tributi armonizzati (Corte di giustizia dell’Unione europea, sentenza 26 aprile 2017, in causa C-564/15, Farkas; 26 novembre 2015, in causa C-487/14, Total Waste Recycling; 16 luglio 2015, in causa C-255/14, Chmielewski; 17 luglio 2014, in causa C-272/13, Equoland; 18 dicembre 1997, nelle cause riunite C-286/94, C-340/95, C-401/95 e C-47/96, Molenheide e altri). La Corte di giustizia, ad esempio, nel contesto dell’IVA, ha stabilito che «una sanzione pari al 100% dell’importo dell’imposta indebitamente detratta a monte, irrogata senza tener conto del fatto che un medesimo importo dell’IVA era stato regolarmente assolto a valle e che l’Erario non aveva subito, in conseguenza, nessuna perdita di gettito fiscale, costituisce una sanzione sproporzionata rispetto all’obiettivo da essa perseguito» (Corte di giustizia dell’Unione europea, sezione prima, sentenza 8 maggio 2019, in causa C-712/17, En.Sa). 16. – La questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1, primo periodo, del d.lgs. n. 471 del 1997, sollevata in riferimento all’art. 3 Cost., va dichiarata non fondata nel contesto di un’interpretazione sistematica e costituzionalmente orientata”.

Corte Costituzionale – Sentenza 17 marzo 2023, n. 46

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Silvana SCIARRA; Giudici : Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Filippo PATRONI GRIFFI, Marco D’ALBERTI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 1, comma 1, primo periodo, e 13, comma 1, del decreto legislativo 18 dicembre 1997, n. 471, recante «Riforma delle sanzioni tributarie non penali in materia di imposte dirette, di imposta sul valore aggiunto e di riscossione dei tributi, a norma dell’articolo 3, comma 133, lettera q), della legge 23 dicembre 1996, n. 662», promosso dalla Commissione tributaria provinciale di Bari nel procedimento vertente tra T. & R. E.  S.r.l. e l’Agenzia delle entrate – Direzione provinciale di Bari, con ordinanza del 25 marzo 2022, iscritta al n. 54 del registro ordinanze 2022 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 21, prima serie speciale, dell’anno 2022.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 25 gennaio 2023 il Giudice relatore Luca Antonini;

deliberato nella camera di consiglio del 6 febbraio 2023.

Ritenuto in fatto

1. Con ordinanza del 25 marzo 2022 (r.o. n. 54 del 2022), la Commissione tributaria provinciale di Bari ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 53 e 76 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale degli artt. 1, comma 1, primo periodo, e 13, comma 1, del decreto legislativo 18 dicembre 1997, n. 471, recante «Riforma delle sanzioni tributarie non penali in materia di imposte dirette, di imposta sul valore aggiunto e di riscossione dei tributi, a norma dell’articolo 3, comma 133, lettera q), della legge 23 dicembre 1996, n. 662».

1.1. L’art. 1, comma 1, primo periodo, del d.lgs. n. 471 del 1997, nella versione successiva alle modifiche apportate dall’art. 15, comma 1, lettera a), del decreto legislativo 24 settembre 2015, n.158 (Revisione del sistema sanzionatorio, in attuazione dell’articolo 8, comma 1, della legge 11 marzo 2014, n. 23), prevede che «[n]ei casi di omessa presentazione della dichiarazione ai fini delle imposte sui redditi e dell’imposta regionale sulle attività produttive, si applica la sanzione amministrativa dal centoventi al duecentoquaranta per cento dell’ammontare delle imposte dovute, con un minimo di euro 250».

1.2. A sua volta l’art. 13, comma 1, del d.lgs. n. 471 del 1997, dispone che «[c]hi non esegue, in tutto o in parte, alle prescritte scadenze, i versamenti in acconto, i versamenti periodici, il versamento di conguaglio o a saldo dell’imposta risultante dalla dichiarazione, detratto in questi casi l’ammontare dei versamenti periodici e in acconto, ancorché non effettuati, è soggetto a sanzione amministrativa pari al trenta per cento di ogni importo non versato, anche quando, in seguito alla correzione di errori materiali o di calcolo rilevati in sede di controllo della dichiarazione annuale, risulti una maggiore imposta o una minore eccedenza detraibile. Per i versamenti effettuati con un ritardo non superiore a novanta giorni, la sanzione di cui al primo periodo è ridotta della metà. Salva l’applicazione dell’articolo 13 del decreto legislativo 18 dicembre 1997, n. 472, per i versamenti effettuati con un ritardo non superiore a quindici giorni, la sanzione di cui al secondo periodo è ulteriormente ridotta a un importo pari a un quindicesimo per ciascun giorno di ritardo».

1.3. Il giudice rimettente riferisce che le questioni sono sorte nel corso di un giudizio riguardante due avvisi di accertamento emessi dall’Agenzia delle entrate nei confronti della società consolidante T.R.E. srl, con riferimento agli anni di imposta 2014 e 2015, non avendo essa provveduto alla presentazione della dichiarazione dei redditi relativa al consolidato fiscale, pur avendo presentato la propria (come emerge dal fascicolo), come del resto le consolidate, per le quali è pacifico che a tale obbligo «hanno ottemperato».

In particolare, il giudice a quo chiarisce che con i due avvisi sono stati accertati redditi imponibili pari a euro 54.440,00 (anno 2014) e 3.815.165,00 (anno 2015) e comminate sanzioni per omessa presentazione delle dichiarazioni dei redditi, rispettivamente, per euro 17.637,60 e 1.256.652,00, pari al centoventi per cento delle imposte accertate.

Il rimettente precisa, però, che la società ricorrente ha dimostrato «di avere pagato integralmente le imposte dovute», unitamente agli interessi e alle sanzioni «ridotte», «avvalendosi del ravvedimento operoso» e in ogni caso «prima di ricevere gli avvisi di accertamento impugnati». Nel riferire lo svolgimento dei fatti di causa il giudice a quo evidenzia che la prima doglianza della società consolidante ha riguardato la circostanza che la sanzione per omessa dichiarazione dei redditi, applicata nei suoi confronti, è stata quantificata dall’Agenzia delle entrate, ai sensi dell’art. 1, comma 1, primo periodo, del d.lgs. n. 471 del 1997, nella misura del centoventi per cento delle «imposte accertate», invece che «di quelle ancora dovute», con una iniqua applicazione della norma citata.

La seconda doglianza, invece, è imperniata sulla circostanza che l’Agenzia delle entrate non ha ritenuto operante il «ravvedimento operoso effettuato ai sensi dell’art. 13 del d.lgs. 18 dicembre 1997 n. 471 [recte: 472] perché a suo dire consentito solo nel caso di omesso o tardivo pagamento delle imposte liquidate nella dichiarazione dei redditi, e perciò incompatibile con l’ipotesi di omessa dichiarazione».

2. Quanto alla rilevanza, il rimettente evidenzia che «[i]l dubbio di legittimità costituzionale della normativa indicata è rilevante ai fini della decisione del presente giudizio, che verte principalmente sulla applicazione delle sanzioni da esse previste».

3. In punto di non manifesta infondatezza delle questioni, il giudice a quo premette, in particolare, che questa Corte, con la sentenza n. 194 del 1995, avrebbe già evidenziato che l’art. 10, secondo comma, punto 11), della legge 9 ottobre 1971, n. 825 (Delega legislativa al Governo della Repubblica per la riforma tributaria), aveva previsto la commisurazione delle sanzioni «all’effettiva entità oggettiva e soggettiva delle violazioni». La pronuncia avrebbe quindi stigmatizzato, in tema di sanzioni per omessa dichiarazione del sostituto d’imposta, ma nell’ipotesi in cui sia stato regolarmente versato l’ammontare complessivo delle ritenute d’acconto, «l’incongruenza dell’attuale sistema che assoggetta alla medesima sanzione fattispecie in realtà fra loro diverse, senza distinguere in ragione della loro maggiore o minore gravità». Infine, essa avrebbe espresso «l’auspicio di un intervento legislativo che conferisca al sistema l’invocata razionalità, in modo da eliminare gli inconvenienti che è dato obbiettivamente di riscontrare nella normativa vigente».

3.1. Tali auspici sarebbero però rimasti «ad oggi privi di effetto», al punto di indurre la CTP a sollevare le odierne questioni, data l’impossibilità «di disporre […] una diversa applicazione, c.d. “costituzionalmente orientata”», non consentita dalla lettera della legge, di ciascuna delle disposizioni censurate.

4. La CTP dubita della legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1, primo periodo, del d.lgs. n. 471 del 1997, sotto un primo profilo, con riferimento all’art. 3 Cost., con riguardo ai principi di eguaglianza, proporzionalità e ragionevolezza nella parte in cui prevede che, ove all’omessa presentazione della dichiarazione dei redditi faccia comunque seguito, prima della ricezione dell’avviso di accertamento, il versamento spontaneo dell’imposta, la sanzione dal centoventi al duecentoquaranta per cento si applichi sull’intero ammontare «di tutte le imposte dovute sulla base della dichiarazione omessa», anziché solo sull’«importo residuo delle imposte da versare da parte del contribuente».

Dovrebbe, infatti, rimanere ben distinta «l’offensività della condotta di chi omette la presentazione della dichiarazione al fine di evadere il pagamento delle imposte» da quella di chi, pur avendo omesso la presentazione della dichiarazione dei redditi, «paga spontaneamente le imposte pur senza un previo accertamento fiscale».

Invece, la sanzione prevista dall’art. 1, comma 1, primo periodo, del d.lgs. n. 471 del 1997 «colpisce indiscriminatamente», «senza alcun riguardo all’entità oggettiva e soggettiva della violazione commessa, sottoponendo così al medesimo trattamento condotte fra loro diverse e aventi conseguenze diverse».

In altri termini la suddetta previsione normativa ancorerebbe «la sanzione al criterio meramente formale ed estrinseco della omessa presentazione della dichiarazione fiscale, invece che a quello sostanziale dell’ostacolo all’accertamento e della evasione del pagamento dell’imposta».

Osserva, quindi, il rimettente che la condotta del contribuente che, pur non presentando la dichiarazione dei redditi, effettui i pagamenti per intero, prima della ricezione dell’avviso di accertamento, sarebbe all’evidenza meno grave di quella di chi, non soltanto ometta la presentazione della dichiarazione dei redditi ma anche il pagamento delle imposte.

4.1. L’art. 3 Cost., per la CTP, subirebbe un vulnus anche sotto un ulteriore profilo, in quanto scoraggerebbe l’adempimento tardivo, ma spontaneo, del pagamento delle imposte, demotivando i contribuenti che non ne ricaverebbero alcun vantaggio.

5. La norma censurata contrasterebbe, poi, anche con i parametri costituzionali di cui agli artt. 53 e 76 Cost., in quanto divergerebbe «dallo scopo indicato dalla legge delega di riforma tributaria n. 825/1971» e in particolare da quello di commisurare le sanzioni «all’effettiva entità oggettiva e soggettiva delle violazioni».

6. «Per gli stessi motivi sopra evidenziati», prosegue il rimettente, non sarebbe ragionevole l’esclusione dalla possibilità di fruire del «ravvedimento» contemplato «dall’art. 13, co. 1 del d.lgs. 18 dicembre 1971 [recte: 1997] n. 471 per il contribuente che, pur avendo omesso la presentazione della dichiarazione fiscale, abbia provveduto al versamento spontaneo delle imposte dovute».

Tale disposizione sarebbe quindi in contrasto con gli artt. 3, 53 e 76 Cost. «nella parte in cui prevede che solo chi abbia presentato la dichiarazione fiscale senza eseguire i prescritti versamenti sia soggetto alla sanzione amministrativa pari al 30% dell’importo non pagato e possa fruire delle riduzioni previste nel caso di versamento spontaneo e non anche chi abbia omesso di presentare la dichiarazione fiscale ma abbia poi effettuato spontaneamente il pagamento delle imposte prima di ricevere un accertamento da parte dell’Amministrazione finanziaria».

7. Nel giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, eccependo preliminarmente l’inammissibilità delle questioni e deducendone, comunque, la non fondatezza.

7.1. L’eccepita inammissibilità è basata, in primo luogo, sull’asserita insufficiente descrizione della fattispecie concreta.

Dall’ordinanza di rimessione – osserva sul punto l’Avvocatura generale – non sarebbe possibile comprendere i motivi che avrebbero determinato l’omessa presentazione delle dichiarazioni dei redditi (i cui termini scadevano, rispettivamente, nel 2015 e nel 2016) per due anni consecutivi, né il rimettente avrebbe precisato se i versamenti delle «imposte dovute» siano stati nella specie eseguiti a ridosso della scadenza dei termini per la presentazione della dichiarazione stessa «o invece due anni dopo»: circostanza, questa, che potrebbe «avere la sua rilevanza». Il rimettente neppure avrebbe chiarito le modalità di computo delle imposte pagate, in quanto, al momento del pagamento, non era stato emesso alcun avviso di accertamento con la quantificazione delle stesse e né vi era una dichiarazione dei redditi da cui emergesse l’importo dei vari tributi da versare. Le descritte lacune sarebbero, in definitiva, «di ostacolo ad una ricostruzione dei fatti sulla cui base valutare eventuali carenze – sotto il profilo costituzionale – della normativa applicabile».

7.2. L’Avvocatura eccepisce l’inammissibilità delle questioni anche per insufficiente motivazione sulla rilevanza, in quanto i «precedenti» di questa Corte citati dal giudice rimettente «riguardano questioni diverse da quella oggetto dell’ordinanza di rimessione oggetto di questo giudizio», per cui non sarebbero sufficienti a motivare le ragioni a sostegno delle questioni di legittimità costituzionale sollevate, rendendo «difficilmente comprensibile il suo ragionamento».

7.3. Inoltre, con particolare riferimento all’asserita violazione degli artt. 53 e 76 Cost., la difesa dello Stato eccepisce l’inammissibilità delle censure per insufficiente motivazione sulla non manifesta infondatezza, in quanto l’ordinanza avrebbe affermato, in forma dubitativa, che l’art. 1, comma 1, del d.lgs. n. 471 del 1997 «sembra ancorare la sanzione al criterio meramente formale ed estrinseco della omessa presentazione della dichiarazione fiscale, invece che a quello sostanziale dell’ostacolo all’accertamento e della evasione».

7.4. Le censure formulate sarebbero, poi, inammissibili per omesso esperimento del tentativo di una interpretazione delle norme sospettate in senso costituzionalmente orientato.

Infatti, lo stesso giudice rimettente avrebbe evidenziato che entrambe le disposizioni in esame presenterebbero aspetti di «“ambiguità interpretativa”» e, pertanto, in presenza di due diverse possibili interpretazioni, egli avrebbe dovuto tentare una lettura adeguatrice delle norme censurate, mentre, al contrario, si sarebbe limitato ad affermare, apoditticamente, che «la Commissione esclude la possibilità di disporre in questa sede una diversa applicazione, c.d. “costituzionalmente orientata”».

7.5. Infine, le questioni di legittimità costituzionale sarebbero inammissibili, a giudizio della difesa statale, perché al fine dell’auspicata reductio ad legitimitatem sarebbe imprescindibile un intervento del legislatore che, nell’esercizio della sua discrezionalità, dovrebbe graduare le conseguenze delle condotte in esame tenendo conto delle «concrete modalità con cui il contribuente ha quantificato e versato le imposte dovute pur in assenza di dichiarazione, graduandone le conseguenze sotto il profilo punitivo».

7.6. Nel merito, le questioni sollevate non sarebbero fondate.

L’Avvocatura generale prende le mosse dall’art. 1, comma 1, del d.lgs. n. 471 del 1997, osservando che il ragionamento del rimettente in ordine al minor grado di offensività del comportamento di chi, pur non presentando la dichiarazione, abbia comunque pagato le imposte, non terrebbe conto della importanza e del ruolo che la dichiarazione stessa svolge nel rapporto tra lo Stato e i contribuenti. Nella dichiarazione, infatti, il contribuente espone i propri redditi e calcola l’imposta dovuta, secondo il principio della autoliquidazione. La dichiarazione, quindi, avrebbe una spiccata rilevanza procedimentale, in quanto condizionerebbe l’attività di controllo dell’amministrazione, i metodi di rettifica del reddito dichiarato e il tipo di avviso di accertamento che dovrà essere eventualmente emesso.

La presentazione della dichiarazione dei redditi, precisa al riguardo la difesa statale, lungi dall’essere un mero adempimento burocratico, agevola invero l’Agenzia delle entrate nell’effettuazione dei controlli sia di natura automatizzata ex art. 36-bis del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 (Disposizioni comuni in materia di accertamento delle imposte sui redditi) sia di natura formale ex art. 36-ter del medesimo d.P.R.

In assenza, quindi, della presentazione della dichiarazione, per l’esatta ricostruzione della materia imponibile l’amministrazione dovrebbe espletare controlli molto più impegnativi, attraverso attività di accertamento complesse, quali l’effettuazione di accessi, verifiche ed ispezioni, oppure mediante l’esame delle scritture contabili, l’invio di questionari e lo svolgimento di indagini bancarie. Ciò implicherebbe un aggravio degli accertamenti sia per la maggiore durata degli stessi, sia per le ingenti spese da sopportare, in termini di risorse umane e mezzi da impiegare.

Anche dinanzi a versamenti spontanei, quindi, l’attività di controllo dell’Agenzia delle entrate sarebbe ostacolata dalla mancata presentazione della dichiarazione dei redditi.

Alla luce di tali considerazioni non vi sarebbe quindi alcuna violazione dell’art. 3 Cost.

Per le stesse motivazioni, ad avviso della difesa erariale, nemmeno sarebbero violati gli artt. 53 e 76 Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 10, secondo comma, punto 11), della legge delega n. 825 del 1971.

Contrariamente a quanto sostenuto dal rimettente, inoltre, proprio in ragione del ruolo essenziale assegnato dal sistema tributario alla dichiarazione dei redditi, correttamente la sua presentazione sarebbe prevista come condizione indispensabile per l’applicazione dell’art. 13, comma 1, del d.lgs. n. 471 del 1997 (con irrogazione della sanzione nella misura del trenta per cento) e, quindi, sarebbe giustificata la differenza tra la sanzione disciplinata dall’art. 1, comma 1, primo periodo, del d.lgs. n. 471 del 1997 (dal centoventi al duecentoquaranta per cento) e la sanzione di minore importo prevista per l’omesso versamento di somme dichiarate.

In definitiva, conclude l’Avvocatura generale, il legislatore avrebbe ragionevolmente esercitato la sua discrezionalità nella determinazione delle condotte illecite e delle relative sanzioni.

Considerato in diritto

1. La CTP di Bari, con ordinanza del 25 marzo 2022 (r.o. n. 54 del 2022) dubita, in riferimento agli artt. 3, 53 e 76 Cost., della legittimità costituzionale degli artt. 1, comma 1, primo periodo, e 13, comma 1, del d.lgs. n. 471 del 1997.

1.1. La prima disposizione censurata (nella versione successiva alle modifiche apportare dall’art. 15, comma 1, lettera a, del d.lgs. n. 158 del 2015) prevede che: «[n]ei casi di omessa presentazione della dichiarazione ai fini delle imposte sui redditi e dell’imposta regionale sulle attività produttive, si applica la sanzione amministrativa dal centoventi al duecentoquaranta per cento dell’ammontare delle imposte dovute, con un minimo di euro 250».

1.2. La seconda disposizione, a sua volta, sancisce l’irrogazione della sanzione pari al trenta per cento degli importi non versati per il contribuente che, dopo avere presentato la dichiarazione dei redditi, non esegue, in tutto o in parte, alle prescritte scadenze, i pagamenti delle imposte dovute.

1.3. Il giudice rimettente riferisce che le questioni sono sorte nel corso di un giudizio riguardante due avvisi di accertamento emessi dalla Agenzia delle entrate nei confronti di una società consolidante, con riferimento agli anni di imposta 2014 e 2015, non avendo essa provveduto alla presentazione della dichiarazione dei redditi relativa al consolidato fiscale, pur avendo presentato la propria (come emerge dal fascicolo), come del resto le consolidate, per le quali è pacifico che a tale obbligo «hanno ottemperato».

In particolare, il giudice a quo chiarisce che con i due avvisi sono state comminate sanzioni per omessa presentazione delle dichiarazioni dei redditi, rispettivamente, per euro 17.637,60 e 1.256.652,00, pari al centoventi per cento delle imposte accertate.

La CTP precisa, però, che la società ricorrente ha dimostrato «di avere pagato integralmente le imposte dovute», unitamente agli interessi e alle sanzioni «ridotte», «prima di ricevere gli avvisi di accertamento impugnati».

2. In punto di rilevanza, il rimettente precisa di ritenere di dover fare applicazione delle sanzioni previste dalle disposizioni censurate.

3. La CTP, dopo aver escluso la possibilità di disporre una diversa applicazione, costituzionalmente orientata, delle due norme censurate, stante il tenore inequivoco delle stesse, si sofferma sulla non manifesta infondatezza delle questioni di legittimità costituzionale sollevate.

3.1. Innanzitutto, la CTP dubita della legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1, primo periodo, del d.lgs. n. 471 del 1997, sotto un primo profilo, in riferimento all’art. 3 Cost., con riguardo ai principi di eguaglianza, proporzionalità e ragionevolezza, nella parte in cui prevede che, ove alla omessa presentazione della dichiarazione dei redditi faccia comunque seguito, prima della ricezione di avvisi di accertamento, il versamento spontaneo dell’imposta, la sanzione dal centoventi al duecentoquaranta per cento si applichi sull’intero ammontare «di tutte le imposte dovute sulla base della dichiarazione omessa», anziché solo sull’«importo residuo delle imposte da versare da parte del contribuente».

Ad avviso del rimettente, infatti, dovrebbe rimanere ben distinta l’«offensività della condotta di chi omette la presentazione della dichiarazione al fine di evadere il pagamento delle imposte» da quella di chi, pur avendo omesso la presentazione della dichiarazione dei redditi, «paga spontaneamente le imposte pur senza un previo accertamento fiscale».

Invece, la sanzione prevista dall’art. 1, comma 1, primo periodo, del d.lgs. n. 471 del 1997 «colpisce indiscriminatamente», «senza alcun riguardo all’entità oggettiva e soggettiva della violazione commessa, sottoponendo così al medesimo trattamento condotte fra di loro diverse e aventi conseguenze diverse».

In altri termini la suddetta previsione normativa avrebbe ancorato «la sanzione al criterio meramente formale ed estrinseco della omessa presentazione della dichiarazione fiscale, invece che a quello sostanziale dell’ostacolo all’accertamento e della evasione del pagamento dell’imposta».

Osserva, quindi, il rimettente che la condotta di chi, pur non presentando la dichiarazione dei redditi, effettui i pagamenti per intero, prima della ricezione dell’avviso di accertamento, sarebbe meno grave di quella di chi ometta non solo la presentazione della dichiarazione dei redditi ma anche il pagamento delle imposte.

Inoltre, l’art. 3 Cost., per la CTP, subirebbe un vulnus anche sotto un ulteriore profilo, in quanto scoraggerebbe l’adempimento tardivo, ma spontaneo, del pagamento delle imposte, demotivando i contribuenti che non ne ricaverebbero alcun vantaggio.

3.2. La norma censurata contrasterebbe, poi, anche con i parametri costituzionali di cui agli artt. 53 e 76 Cost., in quanto divergerebbe «dallo scopo indicato dalla legge delega di riforma tributaria n. 825/1971» e in particolare da quello di commisurare le sanzioni «all’effettiva entità oggettiva e soggettiva delle violazioni».

3.3. In secondo luogo, per «gli stessi motivi sopra evidenziati» non sarebbe ragionevole – prosegue il rimettente – l’esclusione della possibilità di fruire del «ravvedimento» di cui all’art. 13, comma 1, del d.lgs. n. 471 del 1997 «per il contribuente che, pur avendo omesso la presentazione della dichiarazione fiscale, abbia provveduto al versamento spontaneo delle imposte dovute». Tale disposizione sarebbe, quindi, in contrasto con gli artt. 3, 53 e 76 Cost. «nella parte in cui prevede che solo chi abbia presentato la dichiarazione fiscale senza eseguire i prescritti versamenti sia soggetto alla sanzione amministrativa pari al 30% dell’importo non pagato e possa fruire delle riduzioni previste nel caso di versamento spontaneo e non anche chi abbia omesso di presentare la dichiarazione fiscale ma abbia poi effettuato spontaneamente il pagamento delle imposte prima di ricevere un accertamento da parte dell’Amministrazione Finanziaria».

4. Nel giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dalla Avvocatura generale dello Stato, eccependo preliminarmente l’inammissibilità delle questioni.

4.1. La prima eccezione, sollevata dall’Avvocatura per insufficiente descrizione della fattispecie concreta, non è fondata.

La difesa erariale lamenta un’insufficiente descrizione della fattispecie in quanto l’ordinanza di rimessione: a) non enuncerebbe le ragioni alla base delle omesse dichiarazioni dei redditi per ben due anni consecutivi; b) non indicherebbe le date in cui sarebbero stati eseguiti i pagamenti delle «imposte dovute», in quanto «avere eseguito i versamenti a ridosso della scadenza dei termini per la dichiarazione o invece due anni dopo, può avere la sua rilevanza»; c) non chiarirebbe la modalità di calcolo delle imposte da parte della società. La mancanza di tali elementi sarebbe, dunque, «di ostacolo ad una ricostruzione dei fatti sulla cui base valutare eventuali carenze – sotto il profilo costituzionale – della normativa applicabile», incidendo, ad avviso della difesa statale, sull’adeguatezza della motivazione in punto di non manifesta infondatezza.

L’assunto non è condivisibile.

Gli elementi a questi fini essenziali, puntualmente riportati nell’ordinanza di rimessione, sono difatti costituiti dall’oggetto degli avvisi di accertamento impugnati nel giudizio a quo, dai motivi di gravame in tale sede formulati dalla contribuente, dall’importo del reddito accertato in ciascuno dei due anni di imposta, dall’ammontare delle sanzioni irrogate e, infine, dall’intervenuto pagamento integrale delle somme dovute dalla contribuente stessa, prima della ricezione dei due avvisi di accertamento.

L’ordinanza di rimessione contiene, dunque, indicazioni sufficienti per una corretta ricostruzione della fattispecie oggetto del processo principale, necessaria ai fini di valutare tanto la rilevanza della questione di legittimità costituzionale, quanto la sua non manifesta infondatezza.

4.2. L’Avvocatura ha, poi, eccepito l’inammissibilità delle questioni, per insufficiente motivazione sulla rilevanza, in quanto i precedenti di questa Corte citati dal giudice a quo, riguardando fattispecie diverse da quella oggetto dell’ordinanza di rimessione, non sarebbero sufficienti a motivare le ragioni a sostegno delle stesse.

Anche tale eccezione non è fondata.

In realtà, come si evince dal tenore della doglianza, l’eccezione riguarda, non la rilevanza, ma la non manifesta infondatezza delle questioni di legittimità costituzionale.

4.2.1. Anche a volerle considerare sotto tale profilo, tuttavia, le ragioni per cui l’art. 1, comma 1, primo periodo, del d.lgs. n. 471 del 1997 violerebbe l’art. 3 Cost. sono state adeguatamente esposte dal rimettente: con riguardo a tale parametro, quindi, l’eccezione in esame non è fondata (quanto all’art. 13, comma 1, del d.lgs. n. 471 del 1997 si rimanda, invece, complessivamente al successivo punto 6).

La questione di legittimità costituzionale con la quale il rimettente ipotizza che l’art. 1, comma 1, primo periodo, del d.lgs. n. 471 del 1997 contrasti con l’art. 53 Cost. è, invece, inammissibile in punto di non manifesta infondatezza, perché del tutto immotivata: il giudice a quo si è limitato a evocare la suddetta disposizione senza specificare alcuna ragione per la quale la norma censurata violerebbe il parametro evocato (ex plurimis, sentenza n. 178 del 2021).

Con riferimento, infine, alla dedotta lesione dell’art. 76 Cost., va rilevato che il rimettente ha in realtà indicato le ragioni della doglianza, individuandole nel contrasto con i principi e i criteri direttivi dettati dalla legge delega n. 825 del 1971 in materia di sanzioni amministrative e, in particolare, con la previsione di una migliore commisurazione «all’effettiva entità oggettiva e soggettiva delle violazioni». Sotto tale profilo, quindi, l’eccezione non è fondata.

4.3. L’Avvocatura dello Stato eccepisce l’inammissibilità delle questioni anche per omesso tentativo di una interpretazione costituzionalmente orientata.

L’eccezione non è fondata.

Nella specie, il giudice a quo, pur ponendo in evidenza l’ambiguità delle norme censurate, esclude espressamente la possibilità di procedere ad una interpretazione adeguatrice e ciò è sufficiente alla stregua della costante giurisprudenza di questa Corte (tra le tante, sentenze n. 18 del 2022, n. 59 e n. 32 del 2021, e n. 32 del 2020).

4.4. La difesa erariale eccepisce, infine, l’inammissibilità delle questioni perché l’ambita reductio ad legitimitatem richiederebbe un intervento rimesso alla discrezionalità del legislatore.

Si chiederebbe, in particolare, a questa Corte un intervento manipolativo a fronte di una pluralità di soluzioni possibili nel graduare le risposte sanzionatorie.

Anche questa eccezione non è fondata.

Secondo la ormai costante giurisprudenza di questa Corte «la “ammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale risulta […] condizionata non tanto dall’esistenza di un’unica soluzione costituzionalmente obbligata, quanto dalla presenza nell’ordinamento di una o più soluzioni costituzionalmente adeguate, che si inseriscano nel tessuto normativo coerentemente con la logica perseguita dal legislatore”» (ex plurimis, sentenza n. 62 del 2022).

5. Va dichiarata d’ufficio la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale sollevata in riferimento all’art. 76 Cost. per erronea individuazione della norma parametro interposta.

5.1. Il rimettente deduce la lesione dell’art. 76 Cost. in quanto risulterebbero in tesi violati i principi e i criteri direttivi della legge delega n. 825 del 1971; in realtà l’art. 1, comma 1, primo periodo, del d.lgs. n. 471 del 1997 trae origine non dalla legge delega n. 825 del 1971, ma dalla delega di cui all’art. 3, comma 133, lettera q), della legge 23 dicembre 1996, n. 662 (Misure di razionalizzazione della finanza pubblica).

Il rimettente ha pertanto individuato in modo errato la norma di delega alla cui stregua va apprezzata la sussistenza della violazione dedotta, svolgendo di conseguenza argomentazioni inconferenti ai fini di tale valutazione, sicché la questione è manifestamente inammissibile (sentenza n. 382 del 2004; ordinanze n. 295 e n. 95 del 2010, n. 73 del 2009).

6. Va infine dichiarata d’ufficio anche l’inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale aventi ad oggetto l’art. 13, comma 1, del d.lgs. n. 471 del 1997, non dovendo il giudice a quo fare applicazione di tale disposizione.

Questa infatti dispone, nei confronti di chi non esegue, in tutto o in parte, alle prescritte scadenze i versamenti risultanti dalla dichiarazione dei redditi, l’irrogazione della sanzione amministrativa pari al trenta per cento di ogni importo non versato.

Dall’ordinanza di rimessione emerge, però, che gli avvisi di accertamento emessi, per il biennio in contestazione, semmai recavano quale motivazione il mancato perfezionamento del “ravvedimento operoso” di cui all’art. 13 del decreto legislativo 18 dicembre 1997, n. 472 (Disposizioni generali in materia di sanzioni amministrative per le violazioni di norme tributarie, a norma dell’articolo 3, comma 133, della legge 23 dicembre 1996, n. 662), il quale consente la riduzione delle sanzioni, in percentuali diverse, man mano che ci si allontana dal momento del dovuto adempimento, ma esclusivamente nelle ipotesi in cui non sia stata omessa la dichiarazione dei redditi.

La questione avente ad oggetto l’art. 13, comma 1, del d.lgs. n. 471 del 1997 risulta quindi priva di rilevanza, dal momento che, secondo quanto riferito dallo stesso giudice a quo, egli non deve fare applicazione di questa norma, ma solamente di quella di cui all’art. 1, comma 1, primo periodo, del d.lgs. n. 471 del 1997.

Né potrebbe ritenersi che il rimettente, anziché sull’art. 13, comma 1, del d.lgs. n. 471 del 1997, abbia in realtà inteso sollevare questione di legittimità costituzionale sull’art. 13 del d.lgs. n. 472 del 1997, nella parte in cui non consente il “ravvedimento operoso” al contribuente che abbia omesso di presentare la dichiarazione dei redditi.

Infatti, come emerge in modo inequivocabile dall’ordinanza di rimessione, la questione è stata posta in relazione all’art. 13, comma 1, del d.lgs. n. 471 del 1997, e di ciò è lampante dimostrazione il richiamo alla sanzione amministrativa pari al «30 per cento dell’importo non pagato».

7. Nel merito le questioni di legittimità costituzionale sollevate sul primo periodo dell’art. 1, comma 1, del d.lgs. n. 471 del 1997, in riferimento all’art. 3 Cost. sotto il profilo della violazione dei principi di eguaglianza, proporzionalità e ragionevolezza non sono fondate, nei termini di cui in motivazione.

8. Con tali questioni il rimettente pone in discussione una sanzione che ritiene eccessivamente afflittiva, anche nel minimo edittale, in riferimento a un comportamento del contribuente quale quello risultante dal giudizio a quo.

Di qui la richiesta a questa Corte di una sentenza sostitutiva, volta a commisurare la sanzione solo sull’«importo residuo delle imposte da versare da parte del contribuente», anziché sull’ammontare «di tutte le imposte dovute sulla base della dichiarazione omessa».

9. Al riguardo, va innanzitutto premesso che un sistema di fiscalità di massa poggia sull’architrave dell’autoliquidazione delle imposte, cui deve corrispondere, nell’ambito dell’imposta sui redditi, la fedele compilazione e la tempestiva presentazione della dichiarazione, che costituisce uno degli atti più importanti nell’ambito della disciplina attuativa di tale imposta. Tramite la dichiarazione dei redditi il contribuente è pertanto chiamato a collaborare – in quanto ciò è finalizzato all’adempimento di un dovere inderogabile di solidarietà (ex plurimis, sentenza n. 288 del 2019) – con l’amministrazione finanziaria, esponendosi quindi ai relativi controlli. Tale dichiarazione ha, infatti, una rilevanza procedimentale: consente all’Agenzia delle entrate, innanzitutto, di attivare i controlli automatizzati e formali, di cui, rispettivamente, agli artt. 36-bis e 36-ter del d.P.R. n. 600 del 1973; condiziona poi l’accertamento e determina, in particolare, i metodi di rettifica del reddito dichiarato. In tal modo la presentazione della dichiarazione agevola le attività dell’amministrazione finanziaria, che dovrà invece ricorrere ad altri e più impegnativi strumenti nei confronti di quei contribuenti che, non assumendo tale atteggiamento collaborativo, presumibilmente sono orientati a sottrarsi totalmente al versamento delle imposte dovute.

In caso di omessa presentazione della dichiarazione dei redditi, infatti, l’Agenzia delle entrate può anche procedere, ai sensi dell’art. 41 del d.P.R. n. 600 del 1973, all’accertamento d’ufficio, di carattere induttivo, che consente di determinare il reddito complessivo del contribuente «sulla base dei dati e delle notizie comunque raccolti o venuti a sua conoscenza, con facoltà di avvalersi anche di presunzioni prive dei requisiti di cui al terzo comma dell’art. 38 e di prescindere in tutto o in parte dalle risultanze della dichiarazione, se presentata, e dalle eventuali scritture contabili del contribuente ancorché regolarmente tenute».

Ma resta fermo che questa attività di accertamento implica, come correttamente rilevato dall’Avvocatura generale dello Stato, un impegno ben superiore, in termini di risorse umane, rispetto a quello normalmente richiesto per la effettuazione degli altri controlli, e in particolare di quelli automatizzati e formali.

Di qui l’esigenza, per il buon funzionamento del sistema tributario, che l’omessa presentazione della dichiarazione dei redditi sia presidiata da una sanzione con un forte effetto deterrente.

10. Ciò precisato, il problema della ragionevolezza e proporzionalità della sanzione in questione, sollevato dal rimettente, non può ritenersi sic et simpliciter superato.

Emblematica, al riguardo, è la fattispecie del giudizio a quo, dove si è in presenza di un contribuente che sì ha omesso di presentare la dichiarazione dei redditi relativa al regime fiscale del consolidato, ma, da un lato, ha tempestivamente presentato la propria dichiarazione, in tal modo esponendosi inequivocabilmente ai controlli dell’Agenzia delle entrate, e, dall’altro, ha comunque interamente versato, sebbene in ritardo, ma prima di aver ricevuto qualsivoglia avviso di accertamento, le imposte dovute.

La circostanza che, nonostante il comportamento tenuto, tale contribuente, per effetto dell’applicazione del minimo edittale, debba versare una cifra maggiore dell’imposta già versata – il centoventi per cento dell’imposta dovuta: nel caso di specie, quindi, oltre un milione di euro – evidenzia, più in generale, che nella fattispecie sanzionatoria censurata può venir meno, in determinate situazioni, un rapporto di congruità tra il concreto disvalore dei fatti e la misura della sanzione.

11. La soluzione auspicata dal rimettente non può, tuttavia, essere accolta, in quanto depotenzierebbe gravemente l’effetto deterrente che deve presidiare, per quanto prima detto, la corretta presentazione della dichiarazione dei redditi.

Infatti, tale soluzione porterebbe, addirittura, al risultato estremo che nessuna sanzione sarebbe irrogata ogni qualvolta il contribuente, pur avendo omesso di presentare la dichiarazione, abbia comunque effettuato, anche dopo anni dalla scadenza dei termini stabiliti, l’integrale pagamento delle imposte dovute.

12. È invece possibile una lettura sistematica della norma censurata in correlazione con un’interpretazione conforme a Costituzione dell’art. 7 del d.lgs. n. 472 del 1997. Tale soluzione, senza minare in radice l’effetto deterrente, è in grado di ricondurre entro i limiti della proporzionalità e della ragionevolezza la sanzione prevista dalla norma censurata in riferimento a situazioni come quella del giudizio a quo.

Al fine di evidenziarla è utile ripercorrere, in estrema sintesi, l’evoluzione del sistema sanzionatorio tributario.

12.1. La disciplina delle sanzioni tributarie, come è noto, trova le sue radici nella legge 7 gennaio 1929, n. 4 (Norme generali per la repressione delle violazioni delle leggi finanziarie), che, effettuando una scelta dalla quale l’ordinamento non si è più discostato, ha previsto due differenti modelli sanzionatori per la repressione dell’illecito fiscale, distinguendo tra le violazioni che danno luogo a reati e quelle che generano obbligazioni di «carattere civile» (l’antecedente storico delle sanzioni amministrative): la pena pecuniaria, che aveva carattere afflittivo, e la soprattassa, a carattere retributivo e risarcitorio (artt. 3 e 5). Una prima organica modifica di tale disciplina è poi avvenuta con la legge delega n. 825 del 1971, diretta, quanto al sistema delle sanzioni, a introdurre una «migliore commisurazione di esse all’effettiva entità oggettiva e soggettiva delle violazioni» (art. 10, secondo comma, punto 11). Nei relativi decreti attuativi le sanzioni sono state collocate all’interno della disciplina dei singoli tributi, con una partizione specialistica delle stesse e con la creazione di microcosmi sanzionatori separati. Le singole condotte sanzionate, pur costituite da elementi omogenei (omessa presentazione della dichiarazione, dichiarazioni infedele, omesso versamento e altre), non hanno quindi trovato una collocazione unitaria, ma si sono innestate nella disciplina dei singoli tributi.

Con la delega contenuta nell’art. 3, comma 133, della legge n. 662 del 1996, il sistema sanzionatorio tributario non penale è stato poi innovato profondamente.

Tale disposizione, infatti, alla lettera q), ha previsto: «adeguamento delle disposizioni sanzionatorie attualmente contenute nelle singole leggi di imposta ai principi e criteri direttivi dettati con il presente comma e revisione dell’entità delle sanzioni attualmente previste con loro migliore commisurazione all’effettiva entità oggettiva e soggettiva delle violazioni in modo da assicurare uniformità di disciplina per violazioni identiche anche se riferite a tributi diversi, tenendo conto al contempo delle previsioni punitive dettate dagli ordinamenti tributari dei Paesi membri dell’Unione europea».

In attuazione di tale delega sono stati quindi emanati: a) il d.lgs. n. 471 del 1997, relativo alle sanzioni e nel quale, eliminando la frammentazione che caratterizzava il sistema previgente, sono state inserite unitariamente quelle in materia di imposte dirette e IVA; b) il d.lgs. n. 472 del 1997, in base al quale la sanzione amministrativa tributaria è stata adeguata ai principi generali della legge 24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale); c) il decreto legislativo 18 dicembre 1997, n. 473 (Revisione delle sanzioni amministrative in materia di tributi sugli affari, sulla produzione e sui consumi, nonché di altri tributi indiretti, a norma dell’articolo 3, comma 133, lettera q, della legge 23 dicembre 1996, n. 662) dedicato alle sanzioni amministrative relative ai tributi indiretti.

Il nuovo modello di sanzione amministrativa pecuniaria, che è emerso da questa riforma, ha sotto più profili mutuato la propria disciplina dal diritto punitivo, come dimostra, ad esempio, l’introduzione del principio della intrasmissibilità delle sanzioni agli eredi e quello della retroattività della normativa successiva più favorevole.

Secondo la Corte di cassazione, sezioni unite civili, sentenza 27 aprile 2022, n. 13145, del resto: «l’impianto sanzionatorio non penale nella materia tributaria risponde a uno stampo penalistico».

12.2. Nell’ambito di questa evoluzione, ai fini che qui rilevano, va soprattutto considerata l’innovazione rappresentata dall’art. 7 del d.lgs. n. 472 del 1997. Il comma 1 del medesimo articolo ha infatti stabilito, sostanzialmente ricalcando quanto già previsto dall’art. 11 della legge n. 689 del 1981, che «[n]ella determinazione della sanzione si ha riguardo alla gravità della violazione desunta anche dalla condotta dell’agente, all’opera da lui svolta per l’eliminazione o l’attenuazione delle conseguenze, nonché alla sua personalità e alle condizioni economiche e sociali». Il comma 4, poi, ha contemplato la facoltà di ridurre in modo consistente la misura della sanzione: «[q]ualora concorrano eccezionali circostanze che rendano manifesta la sproporzione tra l’entità del tributo cui la violazione si riferisce e la sanzione, questa può essere ridotta fino alla metà del minimo».

12.3. Nella legge 11 marzo 2014, n. 23 (Delega al Governo recante disposizioni per un sistema fiscale più equo, trasparente e orientato alla crescita), infine, l’esigenza di una «migliore commisurazione» delle sanzioni «all’effettiva entità oggettiva e soggettiva delle violazioni», considerata, come si è visto, nelle due deleghe precedenti, è stata nuovamente ribadita, ma con un riferimento esplicito al «principio di proporzionalità» delle sanzioni tributarie.

All’art. 8, comma 1, infatti, dopo aver dettato principi e criteri direttivi per la revisione del sistema sanzionatorio penale tributario, la richiamata legge delega ha previsto la revisione «del sistema sanzionatorio amministrativo al fine di meglio correlare, nel rispetto del principio di proporzionalità, le sanzioni all’effettiva gravità dei comportamenti».

È in attuazione di tale disposto che l’art. 16, comma 1, lettera c), numero 2), del d.lgs. n. 158 del 2015, ha eliminato, nel menzionato art. 7, comma 4, l’aggettivo «eccezionali», dinanzi al termine «circostanze», rendendo quindi applicabile in via ordinaria la possibilità di riduzione della sanzione.

12.4. Nonostante questa evoluzione, tuttavia, il criterio di proporzionalità introdotto dal comma 4 dell’art. 7 del d.lgs. n. 472 del 1997, ha ricevuto una ben limitata applicazione, probabilmente anche a causa di una imprecisa e generica formulazione che, di per sé, legando il giudizio sulla sanzione all’entità del tributo, non appare in grado di fornire un chiaro criterio ermeneutico.

Al riguardo, tra i circoscritti casi in cui la citata disposizione è stata presa in considerazione – tra i quali peraltro va segnalato il richiamo normativo avvenuto nell’ambito della disciplina della voluntary disclosure nell’art. 1, comma 1, della legge 15 dicembre 2014, n. 186 (Disposizioni in materia di emersione e rientro di capitali detenuti all’estero nonché per il potenziamento della lotta all’evasione fiscale. Disposizioni in materia di antiriciclaggio) –, nella giurisprudenza, infatti, si può ricordare, essenzialmente, quella di legittimità in tema di sanzioni attinenti al reverse charge.

In tale occasione, però, la sua evocazione è stata solamente funzionale a giustificare, in modo meramente incidentale, la compatibilità con la giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea in tema di proporzionalità di una sanzione dal novanta al centottanta per cento dell’imposta, in quanto tale sanzione era «ulteriormente graduabile per effetto dell’art. 7, c.4, del d.lgs. n. 472» (Corte di cassazione, sezioni unite civili, sentenza 20 luglio 2022, n. 22727).

In altri limitati casi, inoltre, ne è stata legittimata l’applicazione in presenza di situazioni del tutto particolari, quali l’errore del professionista (Corte di cassazione, sezione quinta civile, ordinanza 24 ottobre 2019, n. 27273), o il lieve ritardo nel pagamento dell’acconto dell’imposta sulle attività produttive (IRAP) (Corte di cassazione, sezione quinta civile, ordinanza 12 dicembre 2019, n. 32630).

13. A fronte di questo quadro normativo e giurisprudenziale, la possibilità di ricondurre nell’ambito dei principi di ragionevolezza e di proporzionalità una sanzione come quella comminata dalla norma censurata, passa attraverso una interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 7 del d.lgs. n. 472 del 1997 che va applicata al sistema delle sanzioni tributarie.

In ipotesi come quella del giudizio a quo, infatti, la risposta sanzionatoria all’omessa presentazione della dichiarazione (relativa alla fiscal unit) della società consolidante, non può trascurare di considerare il comportamento del contribuente che, come detto, da un lato, ha tempestivamente presentato la propria dichiarazione (adempimento espletato anche dalle società consolidate), di fatto rendendosi visibile e facilmente intercettabile dal sistema dei controlli fiscali; e dall’altro, sebbene con alcuni anni di ritardo rispetto alle scadenze legali, ma comunque prima di ricevere gli avvisi di accertamento, ha interamente versato le imposte.

In relazione a simili situazioni, la previsione di una sanzione pari al centoventi per cento dell’imposta dovuta, non potrebbe, di per sé, superare il test di proporzionalità. La frizione, peraltro, si manifesterebbe anche con riguardo al sindacato di ragionevolezza, dal momento che il peso della sanzione potrebbe effettivamente scoraggiare, come evidenziato dal rimettente, il pur tardivo adempimento.

Il vulnus a tali principi è però evitato, senza necessità di incidere sulla dosimetria in astratto definita dal legislatore nella norma censurata, considerando, nella determinazione delle sanzioni, le potenzialità offerte dal citato art. 7 del d.lgs. n. 472 del 1997 che, interpretato in correlazione con l’art. 3 Cost., può riportare la norma censurata in termini conformi al volto costituzionale del sistema sanzionatorio, consentendo al giudice a quo di ridurla a una misura proporzionata e ragionevole.

Occorre quindi che, come del resto da tempo auspicato dalla dottrina, il comma 4 non venga letto atomisticamente, ma in rapporto con il comma 1 del medesimo art. 7 del d.lgs. n. 472 del 1997: in questi termini, infatti, il perimetro di applicazione del comma 4 viene dilatato, considerando, tra le «circostanze» – non più necessariamente “eccezionali” – che possono determinare la riduzione fino al dimezzamento della sanzione, quanto indicato nel comma 1 di tale articolo, e in particolare la condotta dell’agente e l’opera da lui svolta per l’eliminazione o l’attenuazione delle conseguenze.

Valorizzato in questi termini, alla luce di una interpretazione costituzionalmente orientata, che fornisce maggiore chiarezza ai criteri di determinazione delle sanzioni in esso stabiliti, l’art. 7, comma 4, del d.lgs. n. 472 del 1997 si pone come una opportuna valvola di decompressione che è atta a mitigare l’applicazione di sanzioni, come quella stabilita dalla norma censurata, che, strutturate per garantire un forte effetto deterrente al fine di evitare evasioni anche totali delle imposte, tendono a divenire draconiane quando colpiscono contribuenti che invece tale intento chiaramente non rivelano.

Peraltro, la riduzione nei sensi indicati ben può essere operata già da parte dell’Agenzia delle entrate, poiché questa spesso dispone, fin dal momento della irrogazione della sanzione, degli elementi di valutazione utili al riguardo. In ogni caso ad essa potrà ricorrere il giudice nell’ambito del contenzioso, anche a prescindere da una formale istanza di parte, ogni qualvolta sia stato articolato un motivo di impugnazione sulla debenza o sull’entità delle sanzioni irrogate e risultino allegate circostanze tali da consentirlo.

14. Tale valorizzazione dell’art. 7 del d.lgs. n. 472 del 1997 alla luce dell’art. 3 Cost. trova solide basi nell’evoluzione della giurisprudenza di questa Corte, che in più occasioni ha precisato, da un lato, che «il principio di proporzionalità della sanzione rispetto alla gravità dell’illecito» è «applicabile anche alla generalità delle sanzioni amministrative» (ex plurimis, sentenza n. 112 del 2019) e, dall’altro, che anche per le sanzioni amministrative si prospetta «l’esigenza che non venga manifestamente meno un rapporto di congruità tra la sanzione e la gravità dell’illecito sanzionato», in particolare dando rilievo «al disvalore concreto di fatti pure ricompresi nella sfera applicativa della norma» (sentenza n. 185 del 2021). Ciò in quanto «il principio di proporzionalità postula l’adeguatezza della sanzione al caso concreto e tale adeguatezza non può essere raggiunta se non attraverso la concreta valutazione degli specifici comportamenti messi in atto nella commissione dell’illecito» (sentenza n. 161 del 2018).

15. Va, infine, incidentalmente considerato che la valorizzazione in questi termini del menzionato art. 7 può anche permettere una più efficace risposta, quando ne ricorrano le condizioni, a quelle esigenze – ad esempio già rilevate dalla ricordata giurisprudenza di legittimità in tema di reverse charge – di conformità del sistema sanzionatorio nazionale ai criteri indicati dalla giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea in tema di proporzionalità delle sanzioni tributarie relative ai tributi armonizzati (Corte di giustizia dell’Unione europea, sentenza 26 aprile 2017, in causa C-564/15, Farkas; 26 novembre 2015, in causa C-487/14, Total Waste Recycling; 16 luglio 2015, in causa C-255/14, Chmielewski; 17 luglio 2014, in causa C-272/13, Equoland; 18 dicembre 1997, nelle cause riunite C-286/94, C-340/95, C-401/95 e C-47/96, Molenheide e altri).

La Corte di giustizia, ad esempio, nel contesto dell’IVA, ha stabilito che «una sanzione pari al 100% dell’importo dell’imposta indebitamente detratta a monte, irrogata senza tener conto del fatto che un medesimo importo dell’IVA era stato regolarmente assolto a valle e che l’Erario non aveva subito, in conseguenza, nessuna perdita di gettito fiscale, costituisce una sanzione sproporzionata rispetto all’obiettivo da essa perseguito» (Corte di giustizia dell’Unione europea, sezione prima, sentenza 8 maggio 2019, in causa C-712/17, En.Sa).

16. La questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1, primo periodo, del d.lgs. n. 471 del 1997, sollevata in riferimento all’art. 3 Cost., va dichiarata non fondata nel contesto di un’interpretazione sistematica e costituzionalmente orientata.

P.Q.M.

1) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 13, comma 1, del decreto legislativo 18 dicembre 1997, n. 471, recante «Riforma delle sanzioni tributarie non penali in materia di imposte dirette, di imposta sul valore aggiunto e di riscossione dei tributi, a norma dell’articolo 3, comma 133, lettera q), della legge 23 dicembre 1996, n. 662», sollevate, in riferimento agli artt. 3, 53 e 76 della Costituzione, dalla Commissione tributaria provinciale di Bari, con l’ordinanza indicata in epigrafe;

2) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1, primo periodo, del d.lgs. n. 471 del 1997, sollevata, in riferimento all’art. 53 Cost., dalla Commissione tributaria provinciale di Bari, con l’ordinanza indicata in epigrafe;

3) dichiara manifestamente inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1, primo periodo, del d.lgs. n. 471 del 1997, sollevata, in riferimento all’art. 76 Cost., dalla Commissione tributaria provinciale di Bari, con l’ordinanza indicata in epigrafe; 4) dichiara non fondata, nei sensi di cui in motivazione, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1, primo periodo, del d.lgs. n. 471 del 1997, sollevata, in riferimento all’art. 3 Cost., dalla Commissione tributaria provinciale di Bari, con l’ordinanza indicata in epigrafe.

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