CASSAZIONE

Concorso del consulente nel reato: è sufficiente la consapevolezza della frode del cliente

La Corte di Cassazione, con la sentenza 18 gennaio 2018, n. 1999, intervenendo in tema di reati tributari ha sentenziato che deve ritenersi responsabile in concorso il consulente fiscale, per la violazione commessa dal cliente quando sia l’ispiratore della frode, anche se a beneficiarne è solo il cliente. Nel sostenere ciò, la Corte ha sottolineato l’assenza della buona fede nel consulente, facendo leva sulla particolare posizione di garanzia su di lui gravante in virtù della qualifica di professionista, nella veste della quale è chiamato ad assolvere agli oneri tributari della società presso la quale offre consulenza; stessa cosa dicasi in punto di elemento psicologico del reato, essendo l’imputato pienamente consapevole, secondo le risultanze delle intercettazioni telefoniche, del complessivo sistema evasivo facente capo alla società.

Ma quali sono le condizioni in presenza delle quali si può configurare un concorso del consulente fiscale nell’operazione fraudolenta commessa dal cliente?

Secondo la giurisprudenza della Corte Suprema, nel caso in cui i professionisti forniscano consigli deprecabili o agevolino l’operato distrattivo dell’imprenditore in crisi, è configurabile in capo agli stessi consulenti il reato di concorso in bancarotta fraudolenta (Corte Cassazione, sentenza 39988/2012). Tra le altre si segnala la sentenza della V sezione della Cassazione, n. 6894 del 7 dicembre 2000, particolarmente significativa per comprendere quali sono gli elementi della fenomenica su cui può fondarsi un giudizio di colpevolezza in materia di concorso dell’extraneus.

Nel rigettare i ricorsi e confermare la responsabilità in capo ai professionisti coinvolti, la Cassazione ha sancito in via definitiva la punibilità della condotta dei professionisti coinvolti, allargando lo spettro delle pene principali e accessorie anche ai consulenti esterni. Secondo i giudici di Piazza Cavour, infatti, tre sono le attività messe al bando qualora i commercialisti o esercenti la professione legale siano al corrente dei propositi illeciti dell’imprenditore o degli amministratori:

  1. elaborazione di pareri o suggerimenti tesi a utilizzare strumenti giuridici per abbattere la massa attiva fallimentare, sottraendo di fatto disponibilità a creditori e portatori d’interesse;
  2. assistenza nella stesura di contratti o negoziati volti a configurare azioni illecite di cui al punto precedente;
  3. messa in atto di attività dirette a garantire la mancata punibilità del proprio assistito o destinate a rafforzare i propositi criminosi del cliente.

Nel caso all’esame, alcuni imprenditori erano indagati con il professionista di alcuni di essi per i reato di indebite compensazioni. Nello specifico, in base alle prove raccolte nell’ambito del giudizio di merito, secondo la Corte non è in dubbio il contributo causale fornito dal consulente fiscale alla realizzazione del fatto illecito posto in essere dal cliente-contribuente, quale professionista a questi legato da regolare contratto nonché quale domiciliatario di varie società beneficiarie dell’indebita compensazione; in ciò, infatti, va intravisto il suo ruolo attivo di partecipe, estrinsecatosi mediante l’adozione di meccanismi fraudolenti volti alla trasmissione telematica di modelli F24 con accollo del debito tributario riferibile a terzi, in ciò consentendo l’apparente regolarizzazione della propria posizione fiscale, utilizzando crediti fittizi.

A tal riguardo, secondo gli insegnamenti della giurisprudenza, sono considerati crediti “inesistenti” quei crediti del tutto fittizi o frutto di una vera e propria artificiosa creazione del contribuente con la presenza di un disegno criminoso (ad esempio, credito IVA derivante da fatture per operazioni inesistenti). Il meccanismo ideato era abbastanza semplice: alcune società si accollavano il debito tributario di terzi ed effettuavano, attraverso la trasmissione telematica dei modelli F24, la compensazione con crediti fittizi. Il consulente per alcune di queste società apponeva visto di conformità.

La Procura della Repubblica richiedeva al GIP il sequestro preventivo anche sui beni del consulente finalizzato alla confisca per equivalente.

Il giudice respingeva la richiesta ma il tribunale, cui si rivolgeva il PM, l’accoglieva.

Il professionista ricorreva allora in Cassazione evidenziando, in sintesi, che si era limitato a svolgere il proprio incarico ed era estraneo ai fatti illeciti, in quanto le compensazioni erano state eseguite direttamente dagli imprenditori: non poteva così ipotizzarsi un concorso nel delitto a titolo di colpa. In ogni caso, non aveva ottenuto alcun beneficio dagli altrui illeciti.

La tesi prospettata dalla difesa del professionista non ha però convinto i giudici del Palazzaccio, che hanno invece sottolineato la sussistenza dell’elemento psicologico del dolo: il concorso del commercialista è configurabile solo laddove questi fosse consapevole e cosciente del fatto di porre in essere una frode fiscale, comportandosi più che da consulente, da autentico regista di una complessa operazione evasiva, affermando i seguenti principi di diritto: “… In tema di reati tributari, ai fini della configurabilità dell’aggravante nel caso in cui reato è commesso dal concorrente nell’esercizio dell’attività di consulenza fiscale svolta da un professionista o da un intermediario finanziario o bancario attraverso l’elaborazione o la commercializzazione di modelli di evasione fiscale (art. 13-bis, comma terzo, D.lgs. n. 74 del 2000), è richiesta una particolare modalità della condotta, ovverosia la “serialità” che, se pur non prevista espressamente nell’articolo, è desumibile dalla locuzione “…elaborazione o commercializzazione di modelli di evasione…”, rappresentativa di una certa abitualità e ripetitività della condotta incriminata». 15. Infine, nessun dubbio ricorre quanto all’ulteriore questione afferente al con- seguimento del profitto anche in capo al consulente fiscale, alla luce della impostazione sopra data alla partecipazione alla commissione del reato. In ogni caso, non può ritenersi fondata l’eccezione difensiva del consulente fiscale di non aver tratto in proprio alcuna utilità e di non aver conseguito nessun profitto dalla attività illecita, che doveva essere imputabile esclusivamente al cliente-contribuente. A questa obiezione è agevole infatti replicare osservando che il concorso di persone nel reato implica l’imputazione dell’intera azione delittuosa e dell’effetto conseguente in capo a ciascun concorrente e il sequestro non è collegato all’arricchimento personale di ciascuno dei correi, bensì alla corresponsabilità di tutti nella commissione dell’illecito. Trattasi di principio più volte affermato da questa Corte a cui il Collegio ritiene di dover dare continuità, dovendosi ricordare che, una volta esclusa la possibilità di sequestrare l’originario profitto del reato, il sequestro preventivo per equivalente, in vista della confisca prevista dall’art. 12-bis, D.lgs. n.74 del 2000, può essere disposto, entro i limiti quantitativi del suddetto profitto, indifferentemente nei confronti di uno o più degli autori della condotta criminosa, non essendo esso ricollegato all’arricchimento personale di ciascuno dei correi bensì alla corresponsabilità di tutti nella commissione dell’illecito (v., tra le tante: Sez. 2, n. 10838 del 20/12/2006 – dep. 14/03/2007, Napolitano, Rv. 235832; v. anche, con particolare riferimento a fattispecie relativa ad un professionista ritenuto concorrente, a titolo di istigazione, delle violazioni tributarie imputabili al contribuente nell’interesse del quale espletava gli adempimenti fiscali: Sez. 3, sentenza n. 24967 del 2015, ud. 14/05/2015 – dep. 16/06/2015, ric. Taurino, non massimata). 16. Deve, infine, essere affermato il seguente principio di diritto: «In tema di reati tributari, il sequestro preventivo per equivalente, in vista della confisca prevista dall’art. 12-bis, D.lgs. n. 74 del 2000, può essere disposto, entro i limiti quantitativi del profitto, indifferentemente nei confronti di uno o più degli autori della condotta criminosa, non essendo esso ricollegato all’arricchimento per- sonale di ciascuno dei correi bensì alla corresponsabilità di tutti nella commissione dell’illecito (nella specie la S. C. ha ritenuto legittimo il sequestro disposto nei con- fronti del consulente fiscale ispiratore del meccanismo fraudolento attuativo del c.d. accollo fiscale, integrante il reato di indebita compensazione)”.

CORTE DI CASSAZIONE Sentenza 18 gennaio 2018, n. 1999

Sul ricorso proposto da:

– A. ALFREDO, n. 14/02/1965 a Benevento avverso la ordinanza del tribunale del riesame di MILANO in data 29/05/2017;

visti gli atti, il provvedimento denunziato e il ricorso;

udita la relazione svolta dal consigliere Alessio Scarcella;

udita la requisitoria del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.ssa P. Filippi, che ha chiesto rigettarsi il ricorso;

RITENUTO IN FATTO

  1. Con ordinanza del 29.05.2017, depositata in data 24.07.2017, il tribunale del riesame di Milano, in accoglimento dell’appello cautelare presentato dal Procuratore della Repubblica presso il tribunale di Milano avverso il provvedimento con cui il GIP, in data 20.02.2017, respingeva la richiesta di sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente nei confronti dell’indagato per i reati di cui agli artt. 110, 81 cpv, c.p. e 10 quater, comma 2, 13 bis, comma 3, D.lgs. n. 74 del 2000 (indebita compensazione in concorso), disponeva il sequestro preventivo per equivalente di beni mobili ed immobili nella disponibilità dell’A. fino alla concorrenza della somma di € 42.558.848,56 pari all’ammontare dei crediti tributari inesistenti oggetto di indebita compensazione.
  2. Giova precisare, per migliore intelligibilità dell’impugnazione proposta in questa sede, che il provvedimento cautelare in questione era stato emesso a fronte dell’imputazione di cui sopra con cui si contestava all’indagato ricorrente, unitamente ad altri soggetti non impugnanti in questa sede, di aver (l’A. in qualità di consulente fiscale della società riconducibili a tale M. con cui collabora, nonché domiciliatario di varie società beneficiarie dell’indebita compensazione di crediti inesistenti), ideato e commercializzato “modelli di evasione fiscale” attraverso cui sarebbero stati commessi più reati di compensazione di crediti tributari inesistenti, per il totale sopra indicato di € 42.558.848,56 nel periodo dal 1.01.2013 al 2.9.2016, compensazioni che alcuni soggetti (M. Michela, sia nella qualità di titolare dell’omonima ditta individuale che quale legale rappresentante della MDC s.r.l. dal 27.05.2014 al 1.09.2015 e della Fiscal Focus Consulting s.r.l. dal 16.09.2015, T. Fabio quale legale rappresentante della MDC s.r.l. fino al 27.05.2014 e P. Andrea quale legale rappresentante della MDC s.r.l. dal 1.09 al 31.12.2015) effettuavano mediante la trasmissione telematica di modelli F24, accollandosi il debito tributario riferibile a terzi, in ciò consentendo loro l’apparente regolarizzazione della propria posizione fiscale, il tutto utilizzando crediti fittizi.
  3. Contro l’ordinanza emessa dal tribunale del riesame di Milano, ha proposto ricorso per cassazione l’A., a mezzo del difensore di fiducia iscritto all’albo ex art. 613 c.p.p., prospettando un unico motivo, di seguito enunciato nei limiti strettamente necessari per la motivazione ex art. 173 disp. att. cod. proc. pen.

3.1. Deduce, con tale unico motivo, il vizio di cui all’art. 606, lett. b), c.p.p., per violazione di legge in relazione all’art. 10 quater, comma 2 e 13 bis, comma 3, D.lgs. n. 74 del 2000. In sintesi, sostiene, anzitutto, la difesa del ricorrente che non sarebbe configura- bile nel sistema penale attuale un concorso del professionista consulente a titolo colposo; il ricorrente, quindi, avrebbe potuto essere chiamato a rispondere del reato solo ove avesse apportato intenzionalmente un contributo causale, materiale o morale, alla realizzazione del fatto illecito del cliente, agevolandone la condotta ovvero determinandone o rafforzandone la volontà con un proprio comportamento cosciente e volontario; non vi sarebbe stata, nel caso in esame, alcuna partecipazione attiva e consapevole del ricorrente ai presunti progetti criminali evidenziati dalla Procura di Milano, essendosi sempre attivato il medesimo presso l’Agenzia delle Entrate affinché la stessa fosse a conoscenza dei contratti da registrare e di quanto si andava a predisporre. In secondo luogo, sostiene la difesa del ricorrente, la fattispecie oggetto di contestazione costituisce un reato proprio di natura commissiva, in quanto reato proprio del debitore che non versa quanto dovuto allo Stato; la Pubblica Accusa ha ritenuto la condotta del ricorrente quale condotta concorsuale perpetrata dall’indagato con i titolari dei debiti tributari compensati; gli istituti di diritto tributario che nel presente procedimento sarebbero stati illecitamente utilizzati per perpetrare le condotte contestate all’indagato, introducono nel delitto un altro soggetto, il creditore accollante e compensante, significativamente indicato nel Modello F24 quale coobbligato; tale figura, però, non muterebbe la struttura soggettiva del reato;

il modello fraudolento di pagamento dei debiti tributari non sarebbe luogo per l’indagato ad alcun conseguimento di profitto derivante dal delitto di cui all’art. 10 quater, D.lgs. n. 74 del 2000, in quanto la condotta che sarebbe dal medesimo stata perpetrata, non avrebbe direttamente prodotto un incremento patrimoniale né consentito un mancato decremento patrimoniale; in altri termini, il profitto sarebbe costituito dal pagamento effettuato dai titolari del debito tributario, fittiziamente compensato in favore dei creditori compensanti e pari al 70% del valore nominale del credito senza che vi sia un profitto direttamente derivante dal reato in contestazione in capo all’indagato, addirittura allorché il medesimo ha solo percepito una giusta ricompensa professionale regolarmente fatturata.

CONSIDERATO IN DIRITTO

  1. Il ricorso è infondato e dev’essere rigettato.
  2. Il tribunale del riesame, in accoglimento dell’appello del PM, ha infatti esami- nato i profili oggetto di doglianza, pervenendo a conclusioni del tutto corrette in diritto.

Ed invero, ha anzitutto analizzato la tesi della buona fede del ricorrente, escludendo che la stessa potesse essere sostenuta; in particolare, sotto il profilo materiale, ha sottolineato come A. abbia fornito un apporto essenziale al meccanismo, posto che risulta essere colui che ha apposto il visto di conformità obbligatorio per la certificazione dei crediti inseriti nelle dichiarazioni relative all’anno d’imposta 2013 della MDC s.r.l. e della ditta individuale M., dichiarazioni da lui trasmesse quale intermediario; proprio la posizione di professionista, in questo caso, consente di fargli carico di oneri di controllo sicuramente superiori al normale cliente che si rivolge al professionista, essendo l’A. un soggetto che compie un’attività di importanza tale da determinare per legge a suo carico l’obbligo di controllo ex art. 1, co. 574, legge n. n. 147 del 2013; non si è in presenza quindi di un normale contribuente che si fida delle altrui attestazioni (nella premessa che la certificazione circa l’esistenza del credito presuppone un controllo ad opera id altri), ma di un professionista obbligato a verificare la veridicità di quanto riportato in bilancio; a ciò, poi, sotto il profilo della sussistenza dell’elemento psicologico del reato, si aggiungano le risultanze delle intercettazioni richiamate alle pagg. 7/8 dell’ordinanza impugnata, dalle quali emerge non soltanto la pacifica inesistenza dei crediti opposti in compensazione, ma anche la partecipazione dell’A. al complessivo sistema facente capo alla M. ed altri correi, meccanismo di cui era pienamente consapevole, specie riguardo all’inesistenza dei crediti.

  1. Nessun dubbio, poi, in ordine alla corretta qualificazione giuridica del fatto ai sensi dell’art. 10 quater, D.lgs. n. 74 del 2000.

Anche su tale punto, il tribunale del riesame si sofferma osservando correttamente come il reato de quo sia un reato proprio, in cui l’agente-intraneus viene descritto dalla norma come “chiunque”, essendo essenziale rimarcare ad avviso del tribunale che la norma pone l’accento non tanto su una qualifica soggettiva ma su un soggetto qualsiasi che peraltro si qualifica in base a ciò che compie, ossia non versa le somme dovute utilizzando in compensazione crediti inesistenti. Il richiamo è alla norma dell’art. 17, D.lgs. n. 241 del 1997, che così recita: “l. I contribuenti eseguono versamenti unitari delle imposte, dei contributi dovuti all’INPS e delle altre somme a favore dello Stato, delle regioni e degli enti previdenziali, con eventuale compensazione dei crediti, dello stesso periodo, nei confronti dei medesimi soggetti, risultanti dalle dichiarazioni e dalle denunce periodiche presentate successivamente alla data di entrata in vigore del presente decreto.

Tale compensazione deve essere effettuata entro la data di presentazione della dichiarazione successiva.

La compensazione del credito annuale o relativo a periodi inferiori all’anno dell’imposta sul valore aggiunto, per importi superiori a 5.000 euro annui, può essere effettuata a partire dal decimo giorno successivo a quello di presentazione della dichiarazione o dell’istanza da cui il credito emerge”.

La norma in questione fa necessariamente riferimento al concetto di contribuente, poiché muove dal presupposto che colui che ricopre una posizione passiva versoi il Fisco (appunto, il contribuente), può scegliere di compensare crediti anziché versare le imposte: il contribuente è, cioè, nella normalità il debitore, che, se assomma su di sé anche la posizione di creditore verso il Fisco, può compensare le due poste; l’art. 10 quater, riferendosi a chi “non versa le somme dovute, utilizzando in compensazione” crediti inesistenti si riferisce ai soggetti legittimati, ex artt. 17 ss. D.lgs. n. 241 del 1997, ad effettuare pagamenti di imposta utilizzando in compensazione crediti verso l’Erario, ed in tale categoria devono farsi necessariamente rientrare anche coloro che, in virtù del contratto di accollo, agiscono come debitori proprio in virtù del fatto che, con l’accollo, si sono volontariamente fatti carico di debiti altrui.

  1. Trattasi, peraltro, di operazione fiscalmente illecita e penalmente rilevante. In sostanza, detta operazione prevede che il debito del contribuente (accollato) venga pagato da una terza società (accollante), che lo onora non pagandolo direttamente bensì mediante compensazione con un proprio credito, credito che a sua volta l’accollante ha acquistato da soggetti che, per varie ragioni, non potevano monetizzarlo. Nel modello F24, vengono indicati due codici fiscali, inserendo il codice “62”, denominato “soggetto diverso dal fruitore del credito” (ris. Agenzia delle Entrate 22 dicembre 2009 n. 286).

Infine, il contribuente (accollato) corrisponde all’accollante una percentuale del valore del proprio debito, risparmiando così la differenza.

Ad ulteriore conferma di quanto sopra, ai fini della configurabilità del reato, peraltro, deve essere evidenziato come la stessa Agenzia delle Entrate, con la risoluzione n. 140 pubblicata in data 15 novembre 2017 (nelle more della stesura del presente provvedimento la cui rilevanza dunque ha solo valenza interpretativa), nel prendere posizione sulla legittimità del pagamento dei debiti fiscali mediante compensazione con crediti d’imposta a seguito del c.d. “accollo fiscale”, ha fornito una risposta negativa.

L’operazione in questione, osserva l’Ufficio, deve infatti essere ritenuta elusiva (e, nel caso di specie, precisa il Collegio, ha rilevanza penale, essendo stato commesso attraverso l’elaborazione o la commercializzazione di modelli di evasione fiscale) non solo della disciplina sulla compensazione, ma anche di quella relativa alla cessione dei crediti d’imposta.

L’Agenzia delle Entrate richiama innanzitutto l’art. 8, comma 2, della L. 212/2000, secondo cui è ammesso l’accollo del debito d’imposta, senza liberazione del contribuente originario. Tutta- via, nel momento in cui l’accollante paga mediante compensazione con un proprio credito, entra in gioco la compensazione, disciplinata dalla normativa tributaria di riferimento (in primis dall’art. 17 del D.lgs. 241/97), che, allo stato attuale, non solo non prevede il caso dell’accollo, ma richiede che la compensazione avvenga unicamente tra i medesimi soggetti.

Come rammentato più volte dalla giurisprudenza, peraltro, l’estinzione del debito mediante compensazione può avvenire, nel settore tributario, solo ove la legge lo ammetta espressamente.

Si è infatti affermato che, in materia tributaria, la compensazione è ammessa, in deroga alle comuni disposizioni civilistiche, soltanto nei casi espressamente previsti, non potendo derogarsi al principio secondo cui ogni operazione di versamento, riscossione e rimborso ed ogni deduzione sono regolate da specifiche e inderogabili norme di legge.

Tale principio non può considerarsi superato per effetto dell’art. 8, comma primo, della legge 27 luglio 2000, n. 212 (cd. statuto dei diritti del contribuente), il quale, nel prevedere in via generale l’estinzione dell’obbligazione tributaria per compensazione, ha lasciato ferme, in via transitoria, le disposizioni vigenti, demandando ad appositi regolamenti l’estensione di tale istituto ai tributi per i quali non era contemplato, a decorrere dall’anno di imposta 2002 (Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 17001 del 09/07/2013, Rv. 627180 – 01; Sez. 5, Sentenza n. 10207 del 18/05/2016. Rv. 639988 – 01). Dunque, non essendo tale modalità consentita dalla legge, l’operazione è illecita e, nei casi come quello qui esaminato, assume anche rilevanza penale.

  1. Deve, pertanto, essere affermato il seguente principio di diritto: «Integra il delitto di indebita compensazione di cui all’art. 10-quater, D.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, il pagamento dei debiti fiscali mediante compensazione con crediti d’imposta a seguito del c.d. “accollo fiscale” ove commesso attraverso l’elaborazione o la commercializzazione di modelli di evasione fiscale, in quanto l’art. 17 del D.lgs. 241/97 non solo non prevede il caso dell’accollo, ma richiede che la compensazione avvenga unicamente tra i medesimi soggetti».
  2. Orbene, proprio analizzando i modelli F24, il c.t. del PM, ricorda il tribunale del riesame, evidenzia come nella sezione “contribuente” vengono riportati sia i dati identificativi del soggetto debitore d’imposta, sia i dati del soggetto coobbligato, ossia del soggetto che effettua il pagamento delle imposte, mediante compensa- zione, in veste di coobbligato, figura, quest’ultima, prevista dal modello F24 che prevede anche l’utilizzo di un codice che identifichi l’operazione (in particolare, il cod. 62 si riferisce a “soggetto diverso dal fruitore del credito”, ossia quando il debito tributario venga pagato da un soggetto diverso dall’effettivo debitore, come nel caso dell’accollo); è dunque evidente come nello stesso modello F24 è espressamente indicato un soggetto coobbligato, che riveste necessariamente la posizione di debitore, anche se, in via derivata, tanto da operare la compensazione con i propri crediti.
  3. Quanto, infine, al profilo afferente al profitto del reato il tribunale ritiene con- divisibile l’impostazione del PM; si osserva, in particolare, che se nei reati tributari il profitto del reato si identifica nel c.d. risparmio di spesa, nel caso in esame esso coincide con il totale dell’importo portato a compensazione, ossia con il 100% del debito, proprio perché il credito è inesistente; con la compensazione, cioè, l’agente ottiene un beneficio, il risparmio totale di spesa, utilizzando crediti inesistenti; tale 100% indebitamente risparmiato viene ripartito tra accollante e accollato con una regolamentazione tra privati antecedente rispetto alla materiale compensazione; essa infatti, precisa il tribunale, costituisce il comportamento tipico che fa conseguire il risparmio del 100%, che viene ripartito anticipatamente, nella misura del 30% all’accollato, pari al risparmio ottenuto con l’accollo, e nella misura del 70 % all’accollante, con il pagamento ottenuto dall’accollato.

Orbene, che di tale meccanismo e, dunque, del danno cagionato all’erario, debba rispondere anche il ricorrente, deriva dall’impostazione sopra data alla partecipazione della stessa alla commissione del reato, quale autore diretto in quanto il soggetto agente è soggetto che assomma in sé la figura di debitore coobbligato e creditore, a prescindere dal rapporto di debito originario tra debitore ed Erario.

Se, cioè, il debitore ritorna a essere per l’Erario; l’unico referente per il debito tributario originario (non essendo l’accollo liberatorio), l’autore dell’indebita compensazione, e, dunque, l’autore del reato, dovrà comunque rispondere verso l’Erario per le conseguenze economiche derivanti dal fatto—reato da lui commesso, per un quantum determinato in base al debito totale indebitamente compensato.

L’Erario, dunque, potrebbe essere legittimato nel processo di merito a costituirsi parte civile nei confronti degli autori del reato, soggetti diversi dall’originario debitore, rispetto al quale la pretesa resta ancorata al titolo originario, in quanto responsabili di una condotta fraudolenta penalmente rilevante che ha comportato l’indebito azzeramento della propria pretesa verso il debitore originario, estraneo alla condotta fraudolenta medesima.

Sarebbe del tutto illogico, del resto, ipotizzare che sia proprio l’autore della condotta fraudolenta, cui il debitore è estraneo, a beneficiare della permanenza del debito in capo al debitore accollato, quando, invece, è proprio la condotta fraudolenta da lui posta in essere ad avere cagionato un danno all’Erario.

  1. Alla stregua di quanto sopra, pertanto, deve anzitutto respingersi il motivo di ricorso che ruota attorno alla presunta mancanza del dolo in capo all’A., essendo emerso indubbiamente dagli atti il contributo causale arrecato dal medesimo, quale consulente fiscale delle società riconducibili alla M., e quale domiciliatario di varie società beneficiarie dell’indebita compensazione, alla realizzazione del fatto illecito posto in essere dal cliente-contribuente;

non può dubitarsi, infatti, della sua partecipazione attiva e consapevole alla condotta illecita, protrattasi per un arco temporale di diversi anni e, per dipiù, attraverso meccanismi fraudolenti di indebita compensazione di crediti inesistenti effettuata mediante la trasmissione telematica di modelli F24 accollandosi il debito tributario riferibile a terzi, in ciò consentendo l’apparente regolarizzazione della propria posizione fi- scale, utilizzando crediti fittizi.

Del resto, non può dubitarsi circa la responsabilità concorsuale del professionista in consimili ipotesi. Deve, infatti, ritenersi responsabile in concorso il consulente fiscale, per la violazione commessa dal cliente (come nel caso di specie, di indebite compensazioni: v., in termini, Sez. 3, sentenza n. 24166 del 2011, ud. 5/05/2011 – dep. 16/06/2011, ric. Cascino, non massimata), quando sia l’ispiratore della frode, ed anche se per avventura solo il cliente abbia beneficiato della frode.

Pertanto, la responsabilità penale del commercialista a titolo di concorso di persone nel reato sussiste solo in caso di dolo. La condotta dolosa da parte del consulente, consiste infatti nell’essere consapevole e cosciente del fatto che sta ponendo in essere una frode fiscale.

Nella fattispecie sottoposta a questa Corte, il tribunale aveva rilevato che il professionista, anche in proprio, si era avvalso del medesimo sistema di indebita compensazione utilizzato per le società e l’aveva poi utilizzato per i clienti.

Non si era comportato da consulente fiscale che, nell’ambito della propria attività, fornisce suggerimenti alle società assistite ma, partecipando in pieno alle operazioni illecite, invece, ne aveva assunto il ruolo di regista e aveva ideato lo schema dell’indebita compensazione, tramite F24, di crediti inesistenti, con la finalità di omettere i versamenti Iva dovuti. Né questi risulta essere riuscito a fornire prova della sua estraneità ai fatti contestati, anche perché sarebbe stato piuttosto difficile per il medesimo dimostrare un suo ruolo non attivo nella vicenda, sia perché curando la contabilità di certo era conoscenza dei crediti dal momento della formazione fino al loro utilizzo, sia perché la compilazione “tecnica” e la trasmissione del modello F24 erano adempimenti eseguiti dal consulente. Inoltre, la sua condotta è sanzionabile, nonostante la fattispecie di cui all’articolo 10-quater del D.lgs. 74/2000 preveda un reato proprio che, in ambito societario, viene generalmente e principalmente commesso dagli amministratori (giacché su di loro gravano gli oneri di natura tributaria), ciò per il particolare meccanismo descritto in precedenza.

  1. Deve, pertanto, essere affermato il seguente principio di diritto: «In tema di reati tributari, è responsabile a titolo di concorso il consulente fiscale per la violazione tributaria commessa dal cliente (nella specie, per il delitto di indebita compensazione), quando il primo sia l’ispiratore della frode, ed anche se solo il cliente abbia beneficiato della operazione fiscalmente illecita».
  2. Trattasi di fatto, per dipiù, aggravato nell’esercizio dell’attività professionale di consulenza fiscale con ideazione di modelli di evasione.

L’aggravante di nuovo conio rappresenta un’ipotesi di “concorso qualificato”, relativo a condotte che, in realtà, erano già punibili – e punite – a titolo di concorso “ordinario” ex 110 c.p.; la peculiarità sta nel condizionare l’applicabilità della circostanza alla sussistenza di due presupposti, l’uno soggettivo e l’altro oggettivo. Quanto al primo, soggetti attivi sono solo il “professionista, l’intermediario finanziario o bancario”.

A tal proposito, all’indomani dell’entrata in vigore della disciplina, in dottrina si è discusso sulla nozione di “professionista” ed, in particolare, se questa comprenda esclusivamente i soggetti di cui all’art. 7 della D.lgs. 241/19971 e cioè i soggetti abilitati dall’agenzia delle Entrate alla presentazione delle dichiarazioni o, piuttosto, ciascun soggetto che svolge attività di consulenza fiscale.

Ritiene peraltro il Collegio di dover seguire l’interpretazione fornita dall’Ufficio del Massimario della Suprema Corte di Cassazione nella relazione 111/5/2015 sulla revisione del sistema sanzionatorio penale tributario, laddove si precisa che la nozione di “professionista” deve essere intesa “in senso sostanziale” e, dunque, comprensiva di chiunque, nell’esercizio della sua professione, svolge attività di consulenza fiscale (commercialisti, consulenti, avvocati e così via).

Nessun dubbio, nel caso di specie, dunque, circa la sussistenza di tale primo profilo. In merito al secondo presupposto, è richiesta una particolare modalità della con- dotta, ovverosia la “serialità” che, se pur non prevista espressamente nell’articolo, è desumibile dalla locuzione “…elaborazione o commercializzazione di modelli di evasione…”, rappresentativa di una certa abitualità, ripetitività della condotta incriminata; d’altronde nella scarna parte della Relazione Illustrativa dello schema di decreto viene utilizzato l’aggettivo “seriale”, a conferma della necessarietà che la condotta in argomento assuma il carattere della riproducibilità in futuro.

E anche su tale profilo non v’è alcun dubbio nel caso di specie, atteso che il maccanismo fraudolento ideato era stato impiegato con modalità “seriali”, risultando ben 47 soggetti che avevano fatto ricorso alla M., di cui l’A. era il consulente fiscale, con trasmissione di 229 modelli di pagamento per compensazioni di ammontare, come visto, pari ad oltre 42 milioni di euro tra il 2013 ed il 2016.

Quanto al concetto di “modelli di evasione”, la norma nulla specifica a riguardo; tuttavia, poiché questi sono oggetto di una condotta “seriale”, è indubbio che rappresentano forme di evasione particolarmente complesse ed elaborate replicabili in più casi analoghi, come accertato nel caso in esame.

  1. Deve, pertanto, essere affermato il seguente principio di diritto: «In tema di reati tributari, ai fini della configurabilità dell’aggravante nel caso in cui reato è commesso dal concorrente nell’esercizio dell’attività di consulenza fiscale svolta da un professionista o da un intermediario finanziario o bancario attraverso l’elaborazione o la commercializzazione di modelli di evasione fiscale (art. 13-bis, comma terzo, D. Lgs. n. 74 del 2000), è richiesta una particolare modalità della condotta, ovverosia la “serialità” che, se pur non prevista espressamente nell’articolo, è desumibile dalla locuzione “…elaborazione o commercializzazione di modelli di evasione…”, rappresentativa di una certa abitualità e ripetitività della condotta incriminata». 15. Infine, nessun dubbio ricorre quanto all’ulteriore questione afferente al con- seguimento del profitto anche in capo al consulente fiscale, alla luce della impostazione sopra data alla partecipazione alla commissione del reato. In ogni caso, non può ritenersi fondata l’eccezione difensiva del consulente fiscale di non aver tratto in proprio alcuna utilità e di non aver conseguito nessun profitto dalla attività illecita, che doveva essere imputabile esclusivamente al cliente-contribuente.

A questa obiezione è agevole infatti replicare osservando che il concorso di persone nel reato implica l’imputazione dell’intera azione delittuosa e dell’effetto conseguente in capo a ciascun concorrente e il sequestro non è collegato all’arricchimento personale di ciascuno dei correi, bensì alla corresponsabilità di tutti nella commissione dell’illecito. Trattasi di principio più volte affermato da questa Corte a cui il Collegio ritiene di dover dare continuità, dovendosi ricordare che, una volta esclusa la possibilità di sequestrare l’originario profitto del reato, il sequestro preventivo per equivalente, in vista della confisca prevista dall’art. 12-bis, d. Igs. n.74 del 2000, può essere disposto, entro i limiti quantitativi del suddetto profitto, indifferentemente nei confronti di uno o più degli autori della condotta criminosa, non essendo esso ricollegato all’arricchimento personale di ciascuno dei correi bensì alla corresponsabilità di tutti nella commissione dell’illecito (v., tra le tante: Sez. 2, n. 10838 del 20/12/2006 – dep. 14/03/2007, Napolitano, Rv. 235832; v. anche, con particolare riferimento a fattispecie relativa ad un professionista rite- nuto concorrente, a titolo di istigazione, delle violazioni tributarie imputabili al contribuente nell’interesse del quale espletava gli adempimenti fiscali: Sez. 3, sentenza n. 24967 del 2015, ud. 14/05/2015 – dep. 16/06/2015, ric. Taurino, non massimata).

  1. Deve, infine, essere affermato il seguente principio di diritto: «In tema di reati tributari, il sequestro preventivo per equivalente, in vista della confisca prevista dall’art. 12-bis, d. Igs. n. 74 del 2000, può essere disposto, entro i limiti quantitativi del profitto, indifferentemente nei confronti di uno o più degli autori della condotta criminosa, non essendo esso ricollegato all’arricchimento per- sonale di ciascuno dei correi bensì alla corresponsabilità di tutti nella commissione dell’illecito (nella specie la S. C. ha ritenuto legittimo il sequestro disposto nei con- fronti del consulente fiscale ispiratore del meccanismo fraudolento attuativo del c.d. accollo fiscale, integrante il reato di indebita compensazione)».
  2. Alla stregua delle considerazioni che precedono il ricorso deve essere, dunque, rigettato.

Al rigetto segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spesi del

procedimento ex art. 616 cod. proc. pen.

P.Q.M.

 

 

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